«Ritorno a villa blu» di Gianni Verdoliva
Recensione di «Ritorno a Villa Blu» (Robin, 2020) di Gianni Verdoliva. Articolo di Massimo Seriacopi.
La delicatezza espositiva con la quale viene sviluppata la narrazione si sposa bene con il richiamo musicale a uno strumento inusitato (tre hangpan: finalmente una ricerca originale in questo senso!) suonato in triplice intesa, a siglare un legame di sangue che diventa anche consonanza di tre anime: perché questa è sicuramente una delle cifre che caratterizzano la scrittura di Verdoliva, la capacità di delineare, attraverso la cura descrittiva di ambiente, fisicità e movimenti dei personaggi, loro attitudini e gestualità e pensieri, la loro interiorità, le vibrazioni della loro psiche.
Uno dei punti di forza è anche l’efficacia nell’evocare non solo tempi passati, ma realtà che sostanziano l’esistere al di là delle apparenze: e a quel punto le barriere temporali si disciolgono, il fluire del tempo mostra tutta la sua impossibilità di confinamento entro rigidi schemi, che si rivelano essere solo convenzioni umane; allora, finalmente, le epoche e i disegni che vi sono sottesi si ricongiungono, le complesse eppure nette trame che legano gli avvenimenti al di là dei troppo razionali tentativi di categorizzare si ricompongono in un disegno che pare tratteggiato da un’essenza superiore che sa come orchestrare la polifonia dell’esistenza.
Dentro, le vicende umane, gli umani sentimenti, le emozioni e i pensieri, le sofferenze e le gioie: così, troviamo la storia di Ascanio, che all’arrivo delle incipienti ombre autunnali intuisce che forse anche per lui sta arrivando la “stagione delle ombre”, che ri-sente scampanellii e versi di gufo che si possono tramutare in umani lamenti, perché come il tempo anche l’ambiente, la situazione, la natura e l’uomo possono ridivenire tutte parti di uno stesso sistema, se sappiamo analizzare, o meglio ancora sentire, in profondità; le stesse profondità di un pozzo possono essere un traslato fisico delle profondità del nostro animo, se abbiamo il coraggio di proiettarci all’interno di esso e di cercare di comprenderne esigenze e recondite richieste.
E allora la visione si mescola con il ricordo, la considerazione degli affetti del passato si fonde con le emozioni e gli affetti dell’attualità, il chiedersi chi si è si rapporta con la riflessione sulle capacità di percepire, di accogliere e di proteggere in sé l’altro da sé; la storia dell’anziano Ascanio si proietta verso le esperienze e le riflessioni del bambino e poi “piccolo ometto” Alessio; del bel Francesco, che tale, e raffinato, risulterebbe anche vestito di stracci; del muscoloso Tommaso che mantiene però sempre lo sguardo da bambinone timido.
Il mistero della morte, il mistero del destino umano; il lascito della villa Ludovisi; la corrispondenza d’amorosi sensi che si ricrea così tra vivi e morti, se un legame d’amore li stringe oltre ogni limite; quel legame d’amore che travalica le imposizioni sociali, come viene esplicitato nella presentazione di Mattia, il fidanzato di uno dei tre fratelli, Tommaso-Tommy; e «in silenzio i fratelli si parlano, con la musica e con sorrisi di complicità. Quello è il loro modo di ritrovarsi, di essere e di sentirsi assieme, ognuno con la propria individualità. Il tempo si è dimenticato di loro». La melodia di un amore fraterno, esemplare.
Davvero allora, di fronte a tutto questo, come viene letto nel brano di saluto al percorso terreno di nonno Ascanio, La morte non è niente (come scrive sant’Agostino), e “Quello che eravamo prima uno per l’altro lo siamo ancora”; davvero si impara, si deve imparare, a prendersi cura dei doni ricevuti; ognuno secondo le proprie inclinazioni e possibilità, ma proiettandosi al di fuori del tornaconto, del personale egoismo, anche quando il mezzo per farlo si manifesta in modo imprevisto, come la cura da dedicare a un cucciolo di cane “battezzato” Pupetto, anche quando «disposti a triangolo, come a formare un invisibile segnale magico, Alessio, Francesco e Tommaso, sono seduti per terra in mezzo allo studio del nonno, intenti a suonare i loro hangpan. La loro unione, il loro modo per stare insieme. I ritmi incredibilmente coordinati che emergono dalle loro mani si spargono nell’aria, portando gioia e serenità. Pupetto, che prima stava rintanato in un angolino tremante di paura, ora gode beatamente della musica tra le braccia di Mattia».
E anche quando c’è da fare i conti con avvenimenti del passato che hanno segnato profondamente il corso e l’evoluzione di esistenze che tornano a reclamare il loro inquietante peso, come si vede nel corso della narrazione, con i flashback proposti e poi nei confronti con “l’oggi”; a ribadire la fitta trama che lega tempi e animi, a sottolineare le componenti negative, tenebrose e a volte malvagie, inspiegabili spesso, che possono costellare i nostri tragitti.
Affrontare il buio, il male, non è facile, ma nel tempo indefinito dei sentimenti, delle premonizioni e delle sensazioni si può ritrovare la ricomposizione, tentare di riprodurre un’armonia che proprio sulle emozioni positive si basa; un momento di rinascita, di ricongiungimento delle energie attivate per ristabilire un ordinamento positivo, possono portare a quella che, come nel titolo di un capitolo del romanzo, può essere definita la scelta giusta, la giusta direzione per ricostruire.
Ridiventa così possibile “trasmettere armonia”, e ci si ritrova allora a muoversi «come un direttore d’orchestra che dirige con elegante armonia» la grande polifonia degli affetti che danno senso al vivere.
[Massimo Seriacopi]