"L’altoforno" di Daniele Di Maglie

“L’altoforno” di Daniele Di Maglie

Recensione di “L’altoforno” di Daniele Di Maglie. Un racconto jonico-industriale contemporaneo.

“Lavoro, poco male
però mi so arrangiare
Tutto il giorno
all’altoforno
senza andata né ritorno”.

(Testo della canzone in appendice al libro di Daniele Di Maglie)

Come ci si sente ad inalare di giorno in  giorno tradimento e malattia, immaginando che ogni attimo respirato nella propria città porterà sciagura, sapendo che il bucato steso non sarà asciugato da un vento benevolo ma dal calore tossico di una nube che odora di acciaio? E allora quale colore potranno assumere i  pensieri di chi vive in una città come Taranto, se non giusto le nuances del giallo ocra o del viola cimiteriale che sovrasta il cielo sopra la sua testa? Che arcobaleno disegneranno sui quaderni i bambini di quella stessa città,  mentre i loro piccoli corpi crescono ad omogeneizzati di diossina? Dal 1960 in poi, è stato difficile poter raccontare dell’Ilva di Taranto, ma oggi diventa fondamentale discuterne.  Lo fa Daniele Di Maglie con il suo libro edito da Stilo Editrice “L’Altoforno” attraverso due racconti “Sisifo Re Ambasciatore di Minuzie” e “Mala estate”.

Taranto, con la sua lacerante ferita industriale, è patria di esuli ambientali, di migranti della salute, che all’ombra del “mostro” che tutto divora, hanno trascorso gli anni della propria gioventù e che, prima di abbandonarsi alla rassegnazione, hanno scelto di andare via, per percorrere altre strade non meno difficili. La cosiddetta Generazione Ilva diventa così testimone attonita di uno scandalo, di un fallimento, di un sogno trasformatosi in incubo, di un Sud occupato e sfruttato in cui centinaia di migliaia di persone, per 50 anni, sono rimaste a contemplare, senza muovere un dito, uno stravolgimento di proporzioni gigantesche.

Di Maglie, cantautore cresciuto nei quartieri Tamburi di Taranto,  riesce, attraverso una trama minima e una ben combinata miscela di mito e realtà, a restituire al lettore, lo stato d’animo di chi ha lottato per far cessare tutto e proteggere la cittadinanza dai tumori. Attraverso le sue descrizioni rutilanti, come un moderno Caronte spartano, l’autore ci prende per mano  e ci traghetta negli inferi, là dove Taras (figlio di Poseidone e Satyria) langue sommesso, là dove tutto è fiamma, combustione, aria marcia e inquinamento. Il Sifone si fa allora creatura vivente, respira, sbotta, tossisce. E ci stordisce.

 “Tum tum tum. I vecchi che serbano ancora memoria di quella prima notte, anni fa – sono loro i più attenti osservatori e custodi del Sifone – ricordano il colore indefinito della sua verginità: quando da solo annunciava il futuro. IL SIFONE. Avvenire radioso e illuminato. ILLIMITATO. Nessuno sa dirlo però, quel colore che durò il tempo di un singhiozzo e si lasciò trangugiare dall’aria, cambiando per sempre la città. Tum tum tum. Pure le case. Le persone. Pure il fiume si dové adeguare. Stagliato in cielo come luna tremante, iniziò a governare: la polvere sotto i porticati e i panni stesi a gocciolare sangue; colombi intenti a scacazzare sopra le giostrine lasciate abbandonate a cigolare sinistre nell’infuocato tramonto”.