La poesia di Jozef Radi. Da "Gjëmë. Genocidi i poezisë shqipe" [Epicedio albanese]

La poesia di Jozef Radi. Da “Gjëmë. Genocidi i poezisë shqipe” [Epicedio albanese]

La poesia di Jozef Radi. Saggio tratto da “Gjëmë. Genocidi i poezisë shqipe” [Epicedio albanese]  di Gëzim Hajdari.

Ho visto con i miei occhi il poeta Lazër Radi (1916-1998) messo alla berlina nel Campo di internamento di Savër, a Lushnje, nella mia città, dove si trovavano 11 dei 19 Campi di tutta l’Albania. È accaduto il 20 ottobre 1982, al Palazzo della Cultura, in presenza di 600 persone al seguito del Segretario di Partito Petraq Nushi. L’hanno insultato, gli hanno sputato addosso e tirato dei sassi. Ma lui, fermo come una statua, non ha mosso ciglio, sfidando le pietre con la sua parola. Tra le mani stringevo la mia pietra colma di rabbia. Si è alzato un collaboratore della dittatura, Rustem Bega, gridando: «Lazër Radi, vogliamo sapere perché continui a parlare male del comunismo? Che male ti ha fatto il potere del proletariato?» Fiero e coraggioso Lazër, uno dei più grandi intellettuali della nazione albanese, ha risposto ironicamente: «Mi ha condannato a 16 anni di carcere e a 30 di internamento nei Campi; questo per voi non è un male che mi ha fatto il potere del proletariato?

Lazër Radi nasce a Prizren, in Kosovo. A causa delle violenze subite da parte dei serbi e dei montenegrini la sua famiglia abbandona il Kosovo nel ‘29 e parte in esilio in Albania. Termina la scuola media a Tirana e vive tra la capitale e la città di Shkodër. Insieme ai compagni partecipa alla fondazione della società culturale «Besa Shqiptare». Durante il liceo fa l’attore di teatro. In quegli anni in Albania nascono i primi gruppi d’ispirazione comunista e Lazër Radi entra in contatto con le nuove idee. Si distacca dagli ideali della rivoluzione bolscevica nel momento in cui i serbi e i montenegrini incominciano a commettere violenze nei confronti dei cittadini inermi del Kosovo

L’incontro con il celebre poeta Migjeni (1911-1937), nell’estate del ’36, lascia un segno profondo nella vita di Lazër. A quel periodo appartengono anche i suoi primi articoli sulla stampa dell’epoca. Nel ‘38 termina le scuole superiori a Shkodër e si iscrive a “La Sapienza” di Roma. Nella città eterna inizia per lui una nuova vita. Nell’aprile del ‘39 viene espulso temporaneamente dall’Italia a sèguito dell’invasione dell’Albania da parte di Mussolini. Si laurea comunque nel ‘42 in Giurisprudenza con il massimo dei voti. Il Prof. Vito Cesarini Sforza lo vuole come suo assistente all’università, ma il giovane kosovaro preferisce tornare in Albania per servire la causa del proprio popolo. Il rientro in patria segna il suo calvario e quello della sua famiglia.

Lazër, arrestato per la prima volta nel ’44, nel ’45 viene condannato a 30 anni di carcere, accusato di esser stato “un anticomunista reazionario al servizio degli italiani”. Viene liberato dopo aver scontato 10 anni di lavori forzati. Una volta libero viene mandato immediatamente in un Campo di internamento, dove rimane fino al 1974. Mentre si trova in prigione il Sigurimi (la polizia segreta del regime comunista) arresta e condanna a diversi anni di carcere anche la moglie Viktoria. Dopo averla torturata, il Sigurimi, per poterla condannare, l’accusa di essere un agente al servizio di Tito. Così il poeta e la sua famiglia trascorrono la loro vita lavorando nelle paludi dei villaggi Savër, Shtyllas e Radostinë. A Kuç, Çermë e di nuovo a Savër affrontano lavori faticosi nei campi melmosi e infestati dalla malaria. In quegli anni Lazër non potè rientrare a Tirana. Lo farà solo nel 1991.

Il suo calvario durò 46 anni: iniziò a 28 anni e terminò a 75.

Lazër era un uomo alto, affascinante, dai capelli biondi. Durante il ginnasio fu attore di teatro e negli anni ’30, in una rappresentazione diretta dal regista Xhemal Broja, interpretò il ruolo di Ismail Qemali, il padre dell’indipendenza albanese. Tutti i suoi amici e compagni che avevano studiato all’estero finirono sotto il plotone d’esecuzione o morirono nelle terribili prigioni della dittatura enverista. Da prigioniero, Lazër, accompagnato dai poliziotti, veniva portato spesso alla Biblioteca Nazionale di Tirana per tradurre del materiale militare straniero per il Ministero degli Interni. Conoscitore di numerose lingue, straordinario saggista, egli fu amico dei grandi umanisti albanesi quali Pashko Gjeçi, Vinçenc Prennushi, Ernest Koliqi, Petro Marko e Musine Kokalari. Un suo illustre professore di liceo, Skënder Luarasi, rimase sgomento quando lo vide incatenato, in mezzo ai carcerieri, mentre traduceva. Questo caso mi rammenta il destino di un altro prigioniero politico, il pittore Dhimitër Kolevica, costretto, dai dirigenti del Partito, ogni volta che si avvicinava il compleanno di Hoxha, a fare il ritratto del dittatore! Questo fatto tragicomico mi è stato raccontato dal figlio del pittore Vasillaq, con il quale ho fatto il militare nel 1979 nella città di Poliçan, dove la maggior parte dei nostri compagni erano ex-detenuti politici.

Negli ultimi anni della sua vita Lazër scriveva giorno e notte. Ricopiava i propri manoscritti riesumati dal giardino della baracca del lager di Savër dove li aveva seppelliti durante gli anni del terrore. Si trattava di poesie giovanili e traduzioni di autori proibiti. Non scrisse mai nulla sulle sofferenze patite nei lager e nelle prigioni per 40 anni. È da ammirare la grande forza d’animo dei perseguitati politici che non fecero mai del vittimismo sulle loro sofferenze e il loro calvario. Dal 1991, l’anno del crollo della dittatura stalinista albanese, ad oggi, nessuno di loro si è vendicato contro i boia di Enver Hoxha. Anzi, è accaduto il contrario, ancora oggi gli ex-perseguitati politici vengono visti e trattati come nemici dai governanti post-comunisti.

Lazër preferì raccontare i bei ricordi degli anni giovanili quando frequentava il liceo e l’università a Roma. Morì nel 1998, ma la sua vita si era fermata al ‘41, anno dell’avvento del comunismo che avrebbe segnato il suo destino. Lazër Radi è stato autore di tante raccolte poetiche, traduttore di Platone e Freud. Memorabili i suoi libri Një verë me Migjenin (Un estate con Migjeni) e L’Albania negli anni ’30 (Shqipëria në vitet ‘30-të). Cito alcuni versi struggenti dedicati a suo figlio Jozef, nato nel lager: «Dolori/ al posto del latte,/ amarezze/ al posto dei giochi,/ disprezzo/ quando avevi bisogno di una carezza,/ angosce/ mentre il tuo giorno attendeva di sorgere […]/ […] con sogni e speranze/ ti abbiamo nutrito».

Le spoglie di Lazër riposano nel cimitero di Tirana. Sulla sua tomba non compare alcuna scritta, perché questa era la sua espressa volontà. In una poesia molto commovente, composta prima di morire, scrive: «Sulla tomba niente,/ solo il nome scritto male,/ con la mano dell’ultimo nipote,/ e lasciatemi lì nelle braccia della morte/ vivere quell’amore che mi avete fatto mancare./ / Vi prego, non disturbate la mia malinconia […]».

Con la scomparsa di Radi si è spento uno degli ultimi celebri letterati della pleiade degli anni ’30.

Le “colpe” dei genitori ricaddero quindi anche sui figli. Frequentavo l’ultimo anno del ginnasio di Lushnje quando un giorno il mio caro compagno di banco Jozef Radi (1957) non tornò più a scuola: venne espulso in quanto figlio del “nemico” di classe. Ci sedevamo sempre nell’ultimo banco. A Jozef leggevo i miei versi durante la lezione di albanese. Rammento ancora la sua baracca, a Savër: proprio nella sua casetta ho letto per la prima volta D’Annunzio. Andavo a trovarlo ogni tanto. A quel tempo frequentare i “nemici del popolo” poteva costare la vita. Jozef era nato nel lager di Tepelena. La sua è una storia triste e tragica, come tutte quelle dei “figli dei reazionari”. Sua madre Viktoria, una volta liberata dal carcere, non sapeva dove andare: i suoi cari si trovavano in Kosovo e suo marito era internato. Decise di raggiungere, a piedi, il marito Lazër nel Campo di internamento di Tepelena dove erano rinchiusi più di 100 detenuti politici, tra cui molti intellettuali. Non vedeva suo marito da anni e l’incontro fu straziante e commovente. Si sistemarono in un vecchio mulino abbandonato. Era l’unica donna in mezzo a cento prigionieri uomini.

È stato proprio lì, nel Campo di Tepelena, che è nato Jozef, Jozef Radi .

Egli fa parte di quella generazione definita dello “Heshtjes” (del Silenzio) che vide la luce e crebbe in piena dittatura. Trascorse 40 anni nei Campi ma nonostante le sofferenze non smise mai di scrivere. Nel ‘78 fece leggere i suoi testi all’insegnante di ginnasio M. Nezha, che ricopriva anche il ruolo di Segretario del Partito presso la scuola e che, dopo la lettura, gli disse: «Devi continuare a scrivere, perché molti poeti sono divenuti famosi anche dopo la morte!». Un incoraggiamento subdolo e cinico. Nell’82 Jozef decide di spedire la raccolta Trokitje (Bussare) al Comitato centrale del PCA per conoscerne il parere. Passarono molti mesi prima che gli alti funzionari della “piramide rossa” esaminassero la richiesta. La risposta fu secca: «Mancano i testi dedicati al Partito e al compagno Enver Hoxha!». A questo punto il giovane poeta rielabora la raccolta e la manda alla casa editrice “N. Frashëri”. I recensori ufficiali dell’editore, Ndoc Gjetja e Isuf Nelaj, danno parere positivo, ma per la pubblicazione ancora nessuna conferma.

Un giorno Jozef e suo padre Lazër decidono di incontrare il Vice-Presidente della Lega degli Scrittori, Llazar Siliqi, con Andrea Varfi (altro rappresentante emblematico della poesia ufficiale), per parlar loro del manoscritto Bussare e vedere da vicino come funzionano le cose nelle stanze della censura. Durante l’incontro, avvenuto nell’estate dell’82 alle terme di Elbasan, il Vice-Presidente Siliqi dice al suo amico di gioventù, Lazër: «Come vanno i rapporti con la questura della vostra città?», «Bene – rispose Lazër – loro fanno i fatti propri, noi i nostri» Quindi la cosa era più che chiara: i nemici del Partito, Lazër e suo figlio Jozef, non possono pubblicare. Per pubblicare si doveva passare per la questura e, di conseguenza, la raccolta di Jozef, scritta nel fango delle paludi di Savër, non poteva venire accettata dall’editore statale “N. Frashëri” di Tirana perché lui era considerato un figlio del “nemico del popolo”. Sia Jozef che suo padre Läzer aspetteranno più di mezzo secolo per pubblicare le loro opere!

Solo dopo il crollo del regime Jozef riuscì a laurerarsi in Giurisprudenza e a lavorare presso la Presidenza della Repubblica a Tirana. Negli anni ’90 lascia il Paese perché, come scrive nella quarta di copertina del suo libro Kujtesa e mjegullës (La memoria della nebbia), «le speranze della democrazia sono state uccise». Jozef è autore di diverse raccolte. Ha tradotto in albanese Ungaretti, Prevert, Raboni, Wilde, Montale.