«Il mestiere di scrivere»: poesia e lavoro nella letteratura migrante # terza parte

«Il mestiere di scrivere»: poesia e lavoro nella letteratura migrante # terza parte

Terza e ultima parte di questo lavoro sulla letteratura migrante.

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La doppia faccia di questa lingua emerge in maniera esplicita nei versi di due poetesse, Adriana Langtry e Barbara Serdakowski:

Le parole sono altre.
Nascono
dalle rovine
di una lingua
bifolca,
de la mirada
bifronte
di un Giano stanco.
Si affannano,
balbettano, tambalean,
si rincorrono
nel doppio destino
che le affligge,
doble como
el espejo
que refleja
y observa,
doppio come
le rive
opposte
dell’oceano.
[…] Sorgono dalle macerie
rellenando el olvido,
dando voz
al silencio
nella lingua sbagliata;

[Adriana Langtry, Palabras, in Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano, a cura di Mia Lecomte, Chemins de tr@verse, Paris 2011, pp.48-49.]

Pardon, je vous demande pardon
Perdono, vi chiedo perdono
Non volevo prendere le parole della vostra lingua così
perfetta
Trouble dans mes contaminations
Torbida nelle mie contaminazioni
Poeta orfana con terre sante di altri infiltrate da parole inusuali
orme parziali di altre voci, fatte, usurpate, prestate, regalate
[…] Can I belong?
Posso appartenere?;

[Barbara Serdakowski, Vermi vivi, in Così nuda, Edizioni Ensemble, Roma 2012, pp.26-27]

in cui l’impurità della lingua non è discussa soltanto a livello tematico, ma emerge concretamente dall’alternanza quasi schizofrenica di vari idiomi, che rendono il senso di una parola violata e violenta al tempo stesso.

Ed ecco dunque come l’essenza molteplice di questo linguaggio possa finalmente arrivare ad essere percepita come un irrinunciabile punto di forza:

Il linguaggio crebbe come una selva oscura
arrivò a mutarsi in una stenta fuga
da cui si può solo tornare irrobustito;

[Carlos Sanchez, Un buon lettore, in Alta marea, cit., p.37]

o ancora:

Io voglio parole trasversali
parole che viaggino in obliquo
Quelle che ancora non hanno legami.

[Barbara Serdakowski, La verticalità di esistere linearmente, cit., p.115]

Questa lingua impura ha dunque già in sé gli elementi che ne fanno garanzia di ridefinizione di se stessa, come emerge dalla poesia di Arnold de Vos:

Di tutti gli stati ritengo una linfa
che mi fluisce dalla penna,
scrivo con il cordone
sull’ombelico del mondo;

[Arnold de Vos, BouKornine, in Merore o un amore senza impiego, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2005]

o ancora dai versi hajdariani:

Dentro di me sono un po’ nessuno
e un po’ tutti,
ubriaco di mondi; [Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.163]

Qualcuno cerca di cancellare la mia Voce
ma essa è lì, dove è stata
in nessun luogo
e in nessun tempo
appesa al crepuscolo; [Gëzim Hajdari, Corpo presente, cit., p.113]

in cui emerge la doppia forza di questa voce, che consiste sia nel significare se stessa significando al contempo anche ciò che è radicalmente altro, sia nella capacità di situarsi in un non-luogo e in un non-tempo, distaccando il discorso da qualsiasi realtà territoriale ben identificabile, e ponendolo in una condizione destinata a rimanere quella della perenne intermedietà, garantendogli un distacco da qualsiasi legame con la realtà immanente, e portandola così alle soglie dell’invulnerabilità, e insieme, in stretta connessione, il legame che questa parola ibrida istituisce con un’identità altrettanto indefinita, che trae, dal suo essere tale, la sua più profonda completezza.

Ed è proprio a partire da queste premesse che può prendere avvio la fase finale di ridefinizione di se stessi attraverso la scrittura, che viene così investita di una profonda funzione risarcitiva: questa identità, ormai accettata come indefinita e plurale, che trae la sua forza proprio dall’essere contaminata e impura, riflesso della lingua stessa, finisce per identificarsi, infatti, con la scrittura poetica. Ma come avviene tutto questo? Un primo elemento da notare, è come l’attività di scrittura, che per il poeta si configura, come si è visto, come un lavoro, costituisca un primo appiglio per la definizione di se stessi.

Prima di tutto, la scrittura, caricata di quella funzione profondamente risarcitiva di cui si è detto, diventa l’unico appiglio all’interno della nuova realtà, come emerge dai versi hajdariani:

Nella mia patria
sono uno straniero.
Ormai, oltre la Parola,
nulla mi è rimasto; [Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.280]

o ancora, con Barbara Serdakowski:

Ya sabia que no se puede regresar una vez que se parte
Già sapevo che non si può tornare indietro una volta che si parte
Y por eso, hasta solo por eso, eternamente escribo
E per quello, anche solo per quello, eternamente scrivo;

[Barbara Serdakowsi, Scrivo, in Così nuda, cit., p.17]

come anche in Arnold de Vos:

Salvami
da me, parola.

[Arnold de Vos, Verbo fattoti carne, in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, cit., p.75]

Tutti versi, questi, che hanno in comune una profonda fiducia nella funzione della scrittura come unica realtà ancora abitabile, andando a configurare l’universo poetico come unica patria ancora possibile. E dunque l’attività di lavoro poetico è caratterizzata da un profondo investimento del proprio essere, tanto da farsi garanzia della propria stessa esistenza sociale, andando a ridefinire, all’interno dei confini della scrittura, una nuova realtà di esistenza, a partire dalla quale ridefinire, come si è visto, anche la propria identità socialmente intesa, facendo quindi della poesia quasi una garanzia di riconoscimento di una cittadinanza che, da letteraria, diventa a tutti gli effetti anche civile. Del resto, un chiaro riferimento, seppure ancora in nuce, al potere identitario della propria scrittura, è presente in Hajdari anche all’altezza di quel periodo cronologico che si identifica con la fase delle prime esperienze nel paese di arrivo, come si evince da questa descrizione del momento dello ‘sbarco’ in Italia:

Quando sbarcai nel porto di Trieste era aprile, le nove di sera.
Come oggi pioveva sulla città e sul castello,
la bora spazzava via sogni e uccelli,
portavo con me la mia tristezza: terra senza nome
e i manoscritti avvolti in fretta nel fazzoletto bianco; [Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.154]

versi in cui «lo spaesamento trova immediato conforto nell’allusione alla pratica della scrittura. Infatti, se l’inarcatura tra quarto e quinto verso tollera di essere letta in forma di endiadi, allora quei “manoscritti” si offrono ai piedi dello scrittore migrante quale “terra” che altrimenti mancherebbe» (Ugo Fracassa, Esperienza e sentimento del confine nell’opera di Gëzim Hajdari, Between, I.1 (2011), http://www.between-journal.it, p.7), per cui «quegli scartafacci valgono, per il poeta, come vera e propria carta d’identità».

Il lavoro letterario arriva dunque a farsi veicolo di una nuova, concreta, possibilità di riconoscimento anche sociale, ma tutto ciò sempre in virtù della sua peculiare condizione di esistenza sempre in bilico, non configurandosi quindi nei termini di un semplice riscatto risarcitivo del migrante divenuto poeta, con conseguente negazione della propria identità plurale per sostituirla con una nuova declinazione della vecchia identità tradizionalmente intesa, che sia soltanto meccanicamente acquisita, ma andando concretamente ad esplicare una nuova possibilità di esistenza poeticamente concepita. Tanto che un’autrice come Livia Bazu, in una poesia significativamente intitolata Anagrafe, può scrivere:

Nome – Sono io,
mi (ri)conosci?
Cognome – È mio padre, mio nonno,
e tutto ciò che fu prima di me
Data di nascita – È il mio compleanno,
e il ricordo prezioso del sangue fertile di mia madre
Luogo di residenza – Casa mia
Ma non ricordo più dove sia
E nessuno ha il diritto di togliermi questo segreto vagabondo.

[Livia Bazu, Anagrafe, in Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano, cit., p.25]

E dunque, all’interno di quest’ultima realtà ancora abitabile, che è la realtà poetica, si va esplicando l’intero dominio della propria esistenza, fino alla quasi completa identificazione del proprio essere con la scrittura, la cui conseguenza più tangibile è una vera e propria corporeizzazione dell’atto poetico; tale motivo emerge, ad esempio, nei versi hajdariani:

Ti avevo detto che il libro più bello
l’avrei scritto con la punta del coltello,
sulla mia pelle; [Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.215]

o nei versi della poetessa Livia Bazu, che paragona l’attività di poeta a quella di chirurgo:

Io chirurgo (s)comunicato
con incerta, somma perizia
adesso pratico la dolceacuta ferita
Incido
La pelle; [Livia Bazu, I mestieri, in Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano, cit., pp.21-22.]

fino a che la scrittura diventa:

spaccarsi iridarsi
aprirsi derma
membrana esterna
ogni spaccatura
più
corteccia
e poi limpidissimo
formicolio di cellule
che
frusciano
canali minuscoli vivissimi
vibrano
sangue
più
verde
più
fremito
più
brezza. [Livia Bazu, Dafne, ivi, p.23]

E la corporeizzazione della scrittura è motivo che attraversa tutta la poesia di Barbara Serdakowski:

Scrivo in variopinte sfumature di suoni
con gesta convulse ed inchiostro da sedimento
Scrivo sulle mie guance diafane
Sulle palpebre a tratti schiuse
Sulle mie tue labbra polpose
[…] China, sommessa o soccorsa,
Sull’interno bianco tiepido delle mie cosce, scrivo
E sento formicolare su di me parole dalle mille falangi.

[Livia Bazu, Dafne, ivi, p.23]

Fino ad arrivare, con Arnold de Vos, al risultato estremo per cui il ruolo di poeta che scrive e quello di poesia che viene scritta si capovolgono continuamente l’uno nell’altro:

La poesia mi scrive.
A confronto con la pagina bianca
fa risaltare il mio nero
che svergina questa
voce senza verso
che emerge ogni tanto
senza chiedermi come
e al riparo da qualunque perché.

[Arnold de Vos, La poesia si scrive, in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, cit., p.76]

Dunque, all’estremo rispetto a quella che si è definita come prima fase di riflessione sulla questione identitaria, in cui il lavoro emergeva già come strettamente connesso alla definizione del proprio esistere in società, anche se soltanto in negativo, come indice di mancata corrispondenza, ci troviamo ora di fronte ad un nuovo riconoscimento del proprio essere che può verificarsi proprio in virtù della propria professione, che si è progressivamente delineata nei termini di lavoro poetico, all’insegna di una ritrovata corrispondenza tra lavoro come opera e lavoro come professione, meglio indicata dai termini inglesi work e job, che qui arrivano a coincidere, ribadendo e rinforzando l’essere opera dell’opera stessa, e riportando la poesia alla sua vocazione originaria di puro lavoro artigianale, come emerge dai versi di Livia Bazu, in cui, in quella che sembra una chiara rievocazione del lavoro poetico, in un componimento significativamente intitolato I mestieri, l’autrice scrive:

Io cucitrice
Di umile rango
Di casta invisibile
Sconosciuta
Ancora
Io cucitrice
di pezze perdute dai viandanti;

[Livia Bazu, I mestieri, in Sempre ai confini del verso. Dispatri poetici in italiano, cit., p.21]

o ancora, nei versi di Mihai Mircea Butcovan:

Contadino librario
In aratura manuale
Zappando tomi con la stilografica
Innesti di ismi; [Mihai Mircea Butcovan, Infanzia, in Borgo Farfalla, cit., p.17]

versi, questi, che lasciano trasparire una chiara volontà di ritorno del lavoro di scrittura al livello di lavoro manuale, quasi fisico, ritorno che riporta la poesia alla realtà di un atto, quasi demiurgico, di plasmatrice della realtà.

Interessante, poi, il gioco di parole che Candelaria Romero attua nella sua poesia, eloquente sin dal titolo, Lavoro bianco lavoro nero:

Senza rete si lancia l’innamorato colui che ama la china nera.

Nel Circo del Mondo che è
L’Ubriaco compie l’ultimo gesto
Veleno China Nera
Unisci terra e cielo
Lasciaci un segno sulla linea retta
Compito degli artisti
capovolgere l’occhio del pubblico
Sorrisi e non sgolate risate
Che L’Equilibrista possa esibirsi senza rischiare le ossa
Ma chi paga per tutto questo?
Chi porta il pagliaccio a casa per nutrirlo?
Foglio Bianco sii Rete
Accoglici nel Salto Mortale
Accetta la Amara China Nera
Il Circo sta per andarsene
Il Poeta Nomade prende gli applausi
Sul foglio
un’unica speranza
per mai dimenticare;

[, Candelaria RomeroLavoro bianco lavoro nero, in El-Ghibli, rivista online di letteratura della migrazione, Anno 5, n.22, dicembre 2008, http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it]

in cui l’accostamento tra il lavoro bianco e il lavoro nero agisce in funzione spiazzante, perché il testo chiarisce immediatamente che il bianco e nero citati nel titolo indicano in realtà il lavoro di china nera su foglio bianco, che è il lavoro di scrittura.

Ed ecco dunque, come, con quest’ultimo passaggio, siamo giunti ad una nuova e piena identificazione di se stessi grazie al proprio lavoro: con il lavoro poetico, viene infatti definitivamente superata quella fase iniziale di mancato riconoscimento sociale, che si accompagnava ad una visione della realtà-lavoro come un dover essere che lasciava poco spazio ad ogni possibilità di scelta, per arrivare ad una situazione che è diametralmente opposta, fino a far coincidere se stessi con la propria poesia, che in ultima analisi è la propria professione, al punto tale da corporeizzare il lavoro di scrittura e far cadere i confini tra chi scrive e ciò che è scritto, tra l’opera e colui che le dà forma; e in tutto ciò, l’azione spiazzante e pluralizzante della poesia, e soprattutto, come si è già detto, della particolare materia linguistica che a questa poesia dà forma, finisce anche per minare alla base quel concetto di identità tradizionalmente inteso, trasformando un’identificazione sociale meccanica e automatizzata in qualcosa che sempre sfugge ad ogni tipo di categorizzazione.

Da qui il recupero dell’alto valore della poesia, che giunge ad accenti che portano quasi alla sacralizzazione della parola, di un «Verbo diventato amore e sacrificio» (Gëzim Hajdari, Contadino della tua vigna, in Poesie scelte, cit., p.309), in nome del quale si è disposti anche al rischio dell’oblio di se stessi, come emerge dai versi hajdariani:

Tu, Parola, mi hai stregato lingua e cervello,
per correre dietro di te,
ho detto addio alla patria, addio agli amori.
Cosa non ho fatto in sacrifico per te:
ti ho dato la mia cecità, la mia solitudine,
ti ho dato il mio corpo presente che vacilla nel vento della sera
e la mia follia.
Ti ho dato tutto quel che ho potuto,
le pietre che mi caddero addosso e mi uccisero,
le mie stigmate,
finché un giorno nulla mi è rimasto
ed io non so più cosa darti. [Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.183]

Tutto ciò porta come conseguenza anche la polemica nei confronti dell’atteggiamento che molti contemporanei mostrano verso la poesia, con toni anche molto forti, che si scagliano primariamente contro una scrittura che sia soltanto un puro esercizio di stile, in difesa, per contrasto, di un lavoro poetico che si configuri come un profondo investimento di se stessi nella propria scrittura, come dimostrano questi versi hajdariani:

I poeti del bel Paese
cantano all’orsacchiotto al frigorifero al bidè e alla seggiolina
vengono ristampati tre volte l’anno per la pietra che piscia…
e fanno a gara per recitare il rosario della vita terrena
i poeti del bel Paese santi e castrati. [Gëzim Hajdari, Spine nere, Besa, Nardò 2005, p.87]

Dunque, alla fine, è proprio all’interno di quest’identità, che da minata e precaria si fa plurale, e che dall’estrema difesa di questa pluralità trae il suo più grande punto di forza, che può finalmente, nel lavoro poetico, riemergere quel nome proprio che ha ormai recuperato, grazie all’azione della scrittura, la sua piena rilevanza esistenziale e sociale, mostrando, in ultima analisi, come sia proprio la realtà-lavoro, che nella fase degli inizi si faceva veicolo di un’estrema manifestazione di inappartenenza e di mancata identificazione, a caratterizzarsi poi, all’opposto, gradualmente, e una volta configuratasi nei termini di lavoro poetico, con tutte le conseguenze che, come si è visto, tale passaggio comporta, come un’irrinunciabile garanzia di identificazione e di radicamento in una realtà che non è più soltanto una realtà letteraria, ma che finisce per estendersi all’intero dominio dell’esistenza, fino all’estremo rappresentato dalla poesia-acrostico di Barbara Pumhösel:

Bastarda scrittura inclinata con
Aste assottigliate da un lato
Raro tentativo da parte mia di far com
Baciare forma e contenuto, un’unica
Aquilegia è testimone, nella
Radura delle
Asperule e
Pini di casa, quella di una volta, sui rami le
Upupe dell’infanzia, in
Mente parole rubate a
Hegel senza averlo letto, e all’ombra
Ortiche giovani
Ed io, sdraiata.
Se allungo la mano, tocco gli steli dell’
Erba
Lupina; [Barbara Pumhösel, Idillio, in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, cit., p.166]

in cui nome, poesia e lavoro poetico si fondono e si compenetrano reciprocamente, fino a diventare un unico elemento.