«Il mestiere di scrivere»: poesia e lavoro nella letteratura migrante # seconda parte

«Il mestiere di scrivere»: poesia e lavoro nella letteratura migrante # seconda parte

Seconda parte di questo lavoro sulla letteratura migrante.

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E dunque ciò che emerge dai testi, come avveniva per la questione dell’identità, è ancora una volta una realtà che si configura tutta in negativo, come vuoto e mancanza, come si osserva in questi versi di Hajdari:

È domenica. Ma i giorni mi sembrano tutti uguali
buttato sul letto singolo,
in un angolo della stanza sgombra.
Dalla finestra del pianterreno mi scrutano
curiosi i gatti dell’immondizia,
mentre penso alla stagione che trapassa
o rammento versi di anonimi.
Oltre il muro sento tacchi di donna,
come se passassero per il mio corpo;

[Gëzim Hajdari, Corpo presente, cit., p.109.]

in cui il muro rappresenta una barriera fisica e spirituale invalicabile, e la finestra l’unico sguardo sulla realtà circostante, l’unica partecipazione al mondo ancora concessa.

Tutto ciò porta alla realtà di un vissuto che, privato del suo senso intrinseco, finisce per diventare un puro automatismo biologico, in cui l’esistenza si configura come una ciclicità priva di scopo, le cui dinamiche sono ben sottolineate nella scrittura del poeta iraniano Nader Ghazvinizadeh:

Destarsi il mattino e lavarsi come si fa il bucato
ubriachi dalla mattina, sempre fuori, sempre in piedi
già da tempo nelle osterie le tovaglie erano sporche
la fame come costante
la pentola di pastasciutta come ossessione del pomeriggio
destarsi il pomeriggio e vestirsi come si fa la valigia
tutti sempre a bere, sempre sporchi, seduti sul marciapiede.

[Nader Ghazvinizadeh, Aurelia, in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, a cura di Mia Lecomte, Le Lettere, Firenze 2006, pp.83-84.]

Automatismo che si riscontra anche nei ben noti versi hajdariani in cui il poeta redige un vero e proprio elenco dei suoi primi anni di lavoro in Italia:

Ho saputo che stai raccogliendo
i miei anni di lavoro per la mia pensione di vecchiaia:
1 anno da operaio in un’azienda di bonifica,
2 anni di militare con gli ex detenuti,
3 anni da ragioniere in un’azienda agricola,
3 anni da operaio e guardia di campagna
in una fattoria di pomodori,
9 mesi da magazziniere di libri,
2 anni da insegnante di lettere al Liceo,
7 anni da manovale in Ciociaria,
2 anni in nero,
3 anni con le marchette
e il resto di nuovo in nero.
Amen;

[Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.130.]

dal cui ritmo scandito simile a quello di una lista che assume i toni di una vera e propria litania i lavori elencati perdono qualsiasi connotazione reale di senso, finendo per configurarsi come etichette vuote.

Risultato di tutto questo è il ripiegamento in se stessi, all’interno di una realtà che si costituisce, in fieri, come una prima possibile alternativa di esistenza, con conseguente rifiuto del mondo circostante; vediamo, con Nader Ghazvinizadeh, come questo rifiuto finisca per coincidere con la critica alla società occidentale:

Nelle città sempre notte
scrosci di gente nera sotto le piogge
maschi da vaporiera femmine di stireria,
la città scotta, fucina di febbri
neoavanguardie e noi, nel parco urbano abbandonato
come l’abbraccio di un parente di secondo grado
noi siamo ricchi, vestiamo un po’ bene
un po’ male come i tartufi
sapendo di terra e di cane;

[Nader Ghazvinizadeh, Metropoli, Edizioni CFR, Piateda 2011.]

ben esemplificata dalla delineazione di una realtà urbana dai contorni quasi post-apocalittici, in cui gli esseri umani si muovono alla stregua di automi asserviti ai meccanismi di produzione, e rispetto ai quali emerge, per contrasto, la figura del poeta.

Ma lo stereotipo che svuota di senso l’identità e l’esistenza non ha soltanto una funzione negativa, poiché talvolta viene chiamato in causa dagli autori stessi, svuotato della sua tipizzazione e assunto in funzione polemica; ciò avviene, ad esempio, nei versi di Arnold de Vos:

Vivere tra le cattiverie della gente in un altro paese
ti ha ritagliato un’idea di te
dalle pagine della cronaca;

[Arnold de Vos, Anni di formazione, in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, cit., p.77.]

che mettono a nudo il modus agendi della visione stereotipica, con una volontà di svelarne i meccanismi che tuttavia è solo appena accennata.

Maggior intento decostruttivo caratterizza questi versi hajdariani:

Tutti stiamo per andare via:
i topi, la civetta, il merlo
ed io, extracomunitario anonimo;

[Gëzim Hajdari, Corpo presente, cit., p.87.]

che, riprendendo un termine tipico della lingua del paese di arrivo, carico di significato e intraducibile in altre lingue, fa dello stereotipo una sorta di talpa linguistica, un meccanismo di inserimento nella lingua di arrivo, per minacciarla e minarla dal suo interno (Per approfondire l’argomento cfr. Ugo Fracassa, Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Giulio Perrone Editore, Roma 2012, p.89.).

Ed è proprio da qui che, superata quella che si potrebbe definire come pars destruens, si iniziano a gettare le basi per una successiva pars construens, che dai residui di questa identità minata e ridotta ai termini essenziali della propria esistenza tragga gli elementi per una sua definitiva ridefinizione.

Infatti, partendo dalla realtà della perdita della propria identità sociale, e attraversata una fase di straniamento ed esclusione, si passa alla fase di ricostruzione e ridefinizione della stessa, che prende avvio da una sostanziale messa in discussione del concetto stesso di identità, così come comunemente lo si concepisce, per liberarlo da ogni strettoia classificatoria, da ogni rigida possibilità di concettualizzazione, e tutto ciò avviene proprio attraverso l’azione della scrittura, che veicola un concetto di identità da intendersi come sempre mobile e plurale, che è poi, come vedremo, l’identità rappresentata dalla poesia.

Ma come avviene tutto ciò all’interno della scrittura? Che cosa si fa garanzia di questa fondamentale messa in discussione del concetto di identità tradizionalmente inteso, e al tempo stesso base di partenza per la sua ridefinizione? Analizzando a fondo i testi, si comprende come sia proprio la questione linguistica ad agire come fattore primario di questa messa in discussione e ridefinizione; il problema della lingua, infatti, inteso come ricerca di una soluzione espressiva che, nel passaggio dalla lingua madre alla lingua scelta per la propria scrittura, riesca a rendere conto dell’esperienza migratoria intesa innanzitutto come distacco e perdita, una lingua che renda il senso di quella famosa ‘duplice incompetenza’ culturale di cui spesso si parla nel passaggio da un sistema espressivo ad un altro, che comporta come conseguenza il non abitare più la lingua di nascita, senza peraltro sentirsi ancora a casa nella nuova lingua di elezione, il problema della lingua, si diceva, risulta centrale nella poesia, ancor più che nella narrativa, dell’immigrazione (Per un approfondimento del tema, connesso alla questione identitaria, cfr. Mia Lecomte, Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Prefazione, alle pp.9 e sgg.).

Anche per quanto riguarda la riflessione sulla lingua, siamo di fronte ad un processo che si muove attraverso varie fasi, che rendono conto del passaggio dalla lingua madre a quella situazione intermedia definita di ‘duplice incompetenza’ del sistema di valori espresso da ciascuno dei due idiomi, fino all’acquisizione della realtà rappresentata dalla lingua di arrivo. Questo processo, che non si configura mai come lineare, non porta mai ad una soluzione univoca e ben definita, ma, anche nella sua fase risolutiva, continua a rendere il senso di una realtà linguistica che rimane endemicamente impura, rendendo conto della peculiarità espressiva ed esistenziale di una voce che rimane sempre in bilico, ma che fa di questa impurità proprio il suo punto di forza, la sua principale garanzia di messa in discussione di un ordine culturale precostituito. E se è comunemente accettata la sostanziale coincidenza tra questione linguistica e questione identitaria, in virtù del fatto che l’essere si esprime primariamente nel linguaggio, allora mettere in discussione la presunta purezza di qualsiasi lingua, coinciderà necessariamente con la messa in discussione di un concetto ristretto e univoco di identità.

E tale, continua e insistita, riflessione sulla lingua, che si fa poi, per naturale derivazione, anche riflessione sulla scrittura, si configura anche come acquisizione di una sempre maggiore consapevolezza di quello che è diventato, a tutti gli effetti, il proprio lavoro, che è il lavoro poetico, e dunque, per esteso, rappresenta anche un primo superamento di quella sorta di ‘inabitabilità sociale’ che era costituita, come si è visto, dalla perdita del nome proprio. Dunque, tale riflessione linguistica, si configura anche come una sorta di labor limae, un vero e proprio affinare e mettere a punto i ‘ferri del mestiere’.

Vediamo ora, direttamente, come questi passaggi siano visibili nei testi.

La situazione iniziale di passaggio, che prelude alla ridefinizione di se stessi e della propria lingua, è ben esemplificata in alcuni versi di Gëzim Hajdari:

Madre,
ho perso le metafore;

[Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p. 62.]

in cui, all’interno di un discorso che è tutto metalinguistico, se il termine ‘madre’ istituisce immediatamente un legame chiaro e netto con la realtà della propria terra natale, e quindi della propria lingua originaria, viene tuttavia sottolineata subito dopo la realtà della perdita, la perdita delle ‘metafore’, che indica un allontanamento, consapevole, seppure obbligato, dalle strutture sociali di quella realtà, e, per esteso, di quella lingua.

La realtà del transito linguistico visto, nella fase degli inizi, come una perdita, investe anche i versi di Barbara Serdakowski:

Il mio io è un vagabondare fra echi e parole talpa
Suoni concavi di risonanze ottuse
Non distinguo più fruscii e ululati
Divisa dalle false appartenenze
Fammi fermare il mio andare stanco
Riposare su un lembo di patria
Anche se fosse soltanto qualche vago suono di campana;

[Barbara Serdakowski, La verticalità di esistere linearmente, L’autore libri Firenze, Scandicci 2010, p.108.]

Vorrei tanto dirti
Quanto il mio essere non mi appartiene più
Quanto sento le mie membra cedere al passo
Raccolgo incerta le parole disperse
Sulla mia pelle scivolano
Le pecorelle smarrite dei giorni che scorrono liberi
Le sillabe
come la rugiada, evaporano senza suono
E le mie lingue, ne restano ferite, moribonde; [Ivi, p.110.]

Sono chiazza
Informe
Verbo senza contorno
Disambientata
[…] Words, mots, palabras, slowa
Non vorrei più usare parole di altri
Ma allora quali?
Se non ho le mie;

[Barbara Serdakowski, Senza parole, in Ballo da sola, cit., p.3.]

in cui il vuoto linguistico si confronta con la realtà della perdita del proprio stesso essere.

Echi simili attraversano anche la poesia di Carlos Sanchez:

Ora sono un ristagno del fiume
pensando in un’altra lingua
circondato da un paesaggio
dove l’ombù è assente;

[Carlos Sanchez, Baratto, www.ipoetinomadi.com]

o di Barbara Pumhösel:

Ho perso la mia
penna! È questo il distacco
più doloroso
scrivo falsi ora
brutte copie in attesache torni da me;

[Barbara Pumhösel, Viaggio d’autunno, in Kuma, Creolizzare l’Europa, http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma]

o ancora, di Anila Hanxhari:

Con una patria di catrame e carne
Che non ha pioggia ma fondali inclinati
L’anima farcita come un’anatra
Tra denti che rimbalzano la lingua
Quando la voce non ha bocca
Solo un ammucchio di terra e calci.

[Anila Hanxhari, Per non aver visto, in Cicatrici d’acqua, Edizioni Noubs, Chieti 2007, p.73.]

Al punto che la parola viene vista insieme come risorsa e come nemica:

Ah, maledette parole che mi sfuggono
finalmente avete capito il mio segreto
l’enorme diffidenza del vostro potere.
[…] È da tempo che cerco alternative
scorciatoie che possano mutarsi in approdi
da dove partire per altre direzioni.
[…] Avete fatto della mia vita tante vite
dei miei amori tanti disamori.
Confido che la morte mi liberi
dalla vostra amata e arrogante tirannia;

[Carlos Sanchez, Problemi di linguaggio, in Alta marea, Quasar, Roma 2005, p.59.]

Ma io sogno un posto nell’eterno esilio
con tutte queste mie lingue ormai mal dette
che raccolgo come posso con le labbra tremolanti.
Vedo sotto di me le pietre eterne delle mie fondamenta
I piedi su scogli di carta stampata
Di sigilli, di impronte
Sarò dunque per sempre
In equilibrio precario?

[Barbara Serdakowski, La verticalità di esistere linearmente, cit., p.111.]

Ma ben presto, la doppiezza di questa lingua sempre in bilico inizia a manifestarsi anche come un punto di forza, a partire dalla celebre dittologia espressa dai versi hajdariani:

Scrivo questi versi in italiano
e mi tormento in albanese;

[Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.155.]

che, se da un lato mette l’accento sulla fondamentale inconciliabilità delle due realtà linguistiche, e al contempo chiarisce le funzioni proprie dell’una e dell’altra lingua – l’italiano, scelto consapevolmente come lingua della poesia, e l’albanese, cui viene attribuito lo statuto di lingua del pensiero, del sentimento, proprio in virtù del suo essere lingua natale del poeta – dall’altro lato già rende conto della doppiezza intrinseca al dire poetico, che si configura come una lingua che non può fare a meno di essere, nel suo insieme, l’una e l’altra.