«Il mestiere di scrivere»: poesia e lavoro nella letteratura migrante # prima parte

«Il mestiere di scrivere»: poesia e lavoro nella letteratura migrante # prima parte

Nella letteratura migrante, una prima fase, che la poesia ha in comune con la narrativa, seppure con tutte le necessarie specificità dettate dalla diversità del genere, è quella che si potrebbe definire come più latamente ‘testimoniale’. Questa fase, che coincide di solito, dal punto di vista cronologico, con gli inizi, è caratterizzata innanzitutto da una riflessione in negativo sul tema dell’identità: ciò che primariamente emerge dai versi è infatti la perdita del nome proprio, conseguenza più tangibile dello spaesamento migratorio, che tocca punti estremi per cui l’individuo, privato della propria connotazione sociale, viene ridotto a mero corpo, reificato e reso semplice merce di scambio. Esemplari, in questo senso, sono i versi hajdariani:

Parti verso un paese
che non chiama il tuo nome,
ma solo il tuo corpo;

[Gëzim Hajdari, Corpo presente, Besa, Nardò 2011, p.37.]

in cui tale realtà è riassunta nell’emblematica scissione tra nome come etichetta sociale dell’individuo e corpo come pura esistenza naturale, fatta di carne e sangue.
Motivo, questo, che emerge anche dai versi del poeta iracheno Hasan Atiya al Nassar:

Sono così lontani i giorni nei quali volevamo scrivere
i nostri nomi?
Sono così lontani, così lontani i nostri abiti dalla pelle?
E così siamo noi,
e così, noi?
Così noi nella lontananza?
Così noi nell’esilio?;

[Hasan Atiya al Nassar, Distanze, in Roghi sull’acqua babilonese, D.E.A., Firenze 2003, pp. 57 e sgg.]

Non saprei come pronunciare il mio nome,
perché l’Oceano sconfitto dovrà ingoiare
il nome e il corpo.

[Hasan Atiya al Nassar, Oceano, ivi, pp.76 e sgg.]

La realtà rappresentata dal nome proprio giunge quindi a configurarsi come un urlo muto che si caratterizza solo in negativo, e l’individuo, privato dell’identità sociale, non può che prendere atto della propria indifferenza, come dimostrano ancora i versi hajdariani:

Ieri sera nessuno mi ha chiamato dalla strada,
ieri sera nessuno mi ha telefonato dall’altra costa,
dei passanti nessuno mi ha chiesto.
Ieri sera nessuno ha bussato alla mia porta;

[Gëzim Hajdari, Poesie scelte, Controluce, Nardò 2008, p.59.]

Nessuna donna
chiama il mio nome
in questo Paese; [Ivi, p.60.]

o quelli di Barbara Serdakowski:

Non saprai nulla di me
Solo ruggine
Come sangue lungo le spiagge erranti
Lungo i vicoli
Lungo le praterie delle mie migrazioni
You will find me at the end of my identities
Mi troverai alla fine delle mie identità;

[Barbara Serdakowski, Migrazioni, in Ballo da sola, [s.l., s.n.], stampa 2004, p.22.]

o ancora, quelli di Anila Hanxhari:

Su questa pelle lucida come cera
io ferma come inchiostro sbiadito da anni
non ho pace
perché nessuno mi solleva
da questa polvere
per leggermi come si legge una lontananza.

[Anila Hanxhari, Ho l’aria chiusa, in Assopita erba dell’est, Edizioni Noubs, Chieti 2001, p.57.]

E la realtà in negativo rappresentata dal nome proprio finisce per agire, in senso retroattivo, anche sul mondo del proprio passato, per cui la ricerca quasi rituale di nomi depositati nella memoria finisce per configurarsi come una ricerca nel vuoto, che si innalza come un grido frustrato sulla perdita dei propri punti di riferimento, come in questi versi:

Allora il tuo nome era per me come un sentiero nella foresta
e adesso sei un albero solo che teme la notte […]
Entro nel deserto.
Dal deserto esco gridando il tuo nome;

[Hasan Atiya al Nassar, Campanelli, in Roghi sull’acqua babilonese, cit., pp. 42 e sgg.]

in cui a fare da contraltare alla realtà socialmente riconosciuta rappresentata dal nome sono sempre elementi del mondo biologico e naturale, privi di qualsiasi peso sociale, siano essi il corpo, la pelle, o, come in questo caso, l’albero.

Tutto ciò porta ad una perdita di senso del concetto stesso di nome, la cui funzione coincide soltanto con l’impossibilità, con accenti che arrivano a sfiorare le vette dell’afasia, fino alla manifestazione estrema dell’impossibilità di dare un nome alle cose, all’insegna di una funzione demiurgica che si esplica tutta in negativo, riflesso tangibile del mancato controllo attuabile sul reale, dell’impotenza nei confronti della realtà circostante, come nei versi hajdariani:

La lingua di questo paese
non serve più a niente,
conduce alberi e uccelli
al disastro;

[Gëzim Hajdari, Poesie scelte, cit., p.87.]

Ora non riusciamo a parlare
sotto questi cieli inchiodati.
La nostra lingua si riveste di un’altra lingua
che germoglia corvi;

[Gëzim Hajdari, Corpo presente, cit., p.25]

o nella poesia di Mihai Mircea Butcovan:

Sentivi l’odore del fieno?
E come chiamarlo per nome?
Sentivi sapore di mela
E come…
Sentivi la neve
E come descriverla
Non so
Ancora.

[Mihai Mircea Butcovan, Balbettio in lingua, in Borgo Farfalla, Eks&Tra Editore, San Giovanni in Persiceto 2006, p.84.]

Emerge dunque, da un primo esame dei testi, come l’identità, che in questa fase risulta delinearsi soltanto come dato in absentia, sia intesa primariamente come un’identità di tipo sociale, la cui precarietà rende conto della difficoltà di inserimento all’interno della nuova realtà rappresentata dal paese di arrivo, e come, per contrasto, a fare da contraltare, sia una realtà di esistenza che risulta quasi elementarizzata, ridotta, come è già stato sottolineato, a trovare la sua ragion d’essere all’interno di una dimensione che si esplica nell’ambito più semplice e quasi primordiale della naturalità biologica, privata di qualunque autorità e peso sociale.

Infatti, a questa delineazione in negativo dell’identità, che agisce entro la sfera più intima dell’individuo, corrisponde, come risvolto sociale immediatamente visibile, il riflesso delle prime esperienze nel nuovo paese; a tal proposito, occorre primariamente tenere conto del fatto che, in quest’ambito, non ci si può accostare al dato poetico in maniera troppo trasparente, ma sarà piuttosto opportuno mantenere un certo distacco nel passaggio dal poetico all’autobiografico, tenendo sempre presente il fatto di trovarsi di fronte a prodotti che sono prima di tutto prodotti letterari (un interessante approfondimento della questione, svolto in prospettiva comparativa, si riscontra nel saggio di Ugo Fracassa, Carnevali e Hajdari. Paradossi di estraneità, in Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2010, pp.113-137.).

Proprio nell’ambito del resoconto poetico delle prime esperienze nel nuovo paese, giungendo all’esame diretto dei testi, notiamo una prima emersione del tema del lavoro, e ciò in stretta connessione alla riflessione sull’identità, nei termini in cui se ne è discusso fino ad ora; tale delineazione identitaria in negativo, infatti, si rapporta ad una delineazione della funzione lavoro come un dover essere cui non corrispondono concrete possibilità di attuazione, quasi uno stereotipo obbligato, un momento di passaggio ineludibile. Per cui, sin da questa prima fase, si può già notare come il lavoro ricopra una funzione di strutturazione e conferma dell’identità, anche se, a questi livelli, lo fa soltanto in negativo: ad un’identità che ha perso la sua funzione di riconoscimento, e insieme ad essa ogni possibile peso sociale, corrisponde una realtà-lavoro che si configura quasi come un’etichetta vuota, che si muove tra l’impossibilità e il rifiuto, per cui in sostanza, ad un nome rispetto al quale non ci si riconosce, corrisponde una funzione lavoro in cui ugualmente non ci si identifica, o se lo si fa, ciò avviene soltanto in maniera stereotipica.