"Il fuoco sacro della poesia. Conversazioni con Maria Luisa Spaziani": oltre il perimetro delle cose

“Il fuoco sacro della poesia. Conversazioni con Maria Luisa Spaziani”: oltre il perimetro delle cose

Recensione di “Il fuoco sacro della poesia. Conversazioni con Maria Luisa Spaziani” di Leone D’Ambrosio.

Frutto d’una ininterrotta frequentazione, questo preziosissimo volume Il fuoco sacro della poesia. Conversazioni con Maria Luisa Spaziani (Edizioni Ensemble, Roma 2014, p. 104), a cura di Leone D’Ambrosio, nasce soprattutto come doverosa testimonianza d’un sobrio “sodalizio” – una “parola antica bellissima”, così la stessa Maria LuisaSpaziani aveva definito l’unione stabilitasi tra lei ed Eugenio Montale -, nonché quale segno di affettuosa gratitudine, da parte di D’Ambrosio, nei confronti della “protagonista assoluta della poesia del secondo Novecento non solo italiano”, secondo il giudizio espresso dal curatore, nell’Introduzione, in merito alla grande autrice recentemente venuta a mancare.

Una deferenza quasi “filiale”, se è vero che Maria Luisa Spaziani, nella Prefazione al più recente libro di poesia di D’Ambrosio dedicato alla madre scomparsa, aveva raggiunto un livello di totale “identificazione simpatica o simpatetica con quel sentire specifico”, tanto da offrire “all’amico poeta il massimo riconoscimento possibile”:

“Mi ero messa, insomma, sulla sua stessa lunghezza d’onda, ritrovavo le ore della morte di mia madre, le sue parole erano le mie, a lampi sua madre era mia madre”.

Leone D’Ambrosio, ancora nell’Introduzione, spiega d’aver inteso riunire “senza rispettare una cronologia di apparizione”, bensì per “continuità tematica”, scritti risalenti al periodo 2005-2014, spinto dall’urgenza di “intraprendere un viaggio (…) assieme al poeta, per ritrovare la sua compostezza e la sua identità”.

Come in ogni “conversazione-intervista” sia pure portata avanti a tappe e diluita nel tempo – scaturita vieppiù dall’immediatezza d’un “botta e risposta” -, lo stile si presenta, a volte, come incompiuto, epperò il curatore, assai saggiamente, s’è guardato bene dall’idea di “limarlo”, nella consapevolezza che il fascino dei fugaci incontri avuti con Maria LuisaSpaziani risiedesse proprio nelle privilegiate condizioni di transitorietà e precarietà delle confessioni faticosamente raccolte. In taluni frangenti si nota, altresì, una certa impossibilità di approfondire la conversazione attraverso domande sempre più stringenti e circostanziate: con ogni probabilità, l’età avanzata della poetessa e gli impegni di varia natura da lei assunti dovettero impedire, in qualche modo, a D’Ambrosio di sviscerare meglio argomenti spesso solo abbozzati.

Tra le numerose domande, una a bruciapelo e in apparenza banale, va dritta al cuore della poesia:

“Cos’è la bellezza in poesia?”.

La risposta di Maria LuisaSpaziani è altrettanto incisiva ed esaustiva:

“Fino agli inizi del Novecento, è stata proprio la gradevolezza, l’eleganza, il suono. (…) Dopo il Simbolismo francese, hanno detto: immettiamo nel tessuto della poesia qualcosa che sia prosastico.” La Spaziani aggiunge che scoppiò quasi uno scandalo quando Gozzano introdusse nei suoi versi il termine, ritenuto sgraziato e discorsivo, “bicicletta”, tuttavia seguito “a ruota” – è il caso di dire – da Caproni con il poemetto “Le biciclette” e quindi da Montale. Conclude l’intervistata: “C’è una continua immissione di cose prosastiche in poesia che bisogna però fare in modo molto attenuato, non come una certa avanguardia che diventa illeggibile.” E fa un paragone molto calzante: “L’oro puro è a ventiquattro carati, ma bisogna portarlo a diciotto gradi e metterci dentro un po’ di rame e altre cose, in modo che l’oro prenda la sua consistenza.”

Insomma, nell’arte l’imperfezione esiste e possiede le forme ingannevoli della materialità più cruda, mentre la perfezione è un ideale da perseguire, anzi da inseguire, con passione, costanza e tenacia, pur sapendo che non potrà mi essere raggiunta.

Uno degli interrogativi successivi si riallaccia al precedente per spiegare come una delle fondamentali finalità della poesia sia quella di ritrarre la vita nella sua essenza e, insieme, nella sua totalità, onde cercare di raggiungere una sempre difficile ed instabile, per quanto quasi inafferrabile, armonia concettuale e stilistica. La quaestio sollevata da D’Ambrosio abbraccia una problematica molto cara alla Spaziani, cioè il ruolo svolto da tanti poeti delle ultime generazioni:

“Lei vorrebbe dai giovani più emozioni. Manca l’anima in molti di loro e nella massima parte sono dei minimalisti”.

Maria Luisa Spaziani risponde in termini estremamente brillanti e limpidi:

“È proprio così. La poesia negli ultimi tempi, tranne alcuni esempi grandi che noi sappiamo (…), ha perso lo slancio fantastico e morale insieme. Perché se fosse solo morale diventerebbe della prosa ragionativa, se fosse solo fantastico perderebbe alcune radici della nostra quotidianità. Questi ultimi poeti mancano di vita, e dice poco, mancano quasi di tutto. (…) Non ce n’è uno che ti faccia vibrare.”

La poetessa torinese intende dirci che un qualsiasi accettabile risultato contenutistico-formale deve necessariamente attingere – quale materia prima e fungendo quasi da collante – a generosi e genuini slanci etico-comportamentali, in un indifferibile impasto di esperienze di vita vissuta che rappresenta la vera, grande anima della poesia. In mancanza di ciò, avremo soltanto dei “piccoli sentimenti o risentimenti”.

Il discorso si fa più chiaro alla domanda: “Come è cambiata la poesia oggi?”

“Eravamo ancora in una intemperia post-ermetica, quindi le poesie avevano il culto della parola esasperata, giusto però, e combattevano tutto quello che già allora erano i lassismi, i qualunquismi (…), i primi sperimentalismi molto svianti. Noi combattevamo in nome di una purezza assoluta della parola, che fosse legata ad un pensiero. (…) Cioè filosofia, anche in senso leggero, ma c’è sempre una filosofia. Dopodiché questo movimento che faceva capo a Montale e a Luzi, lo possiamo chiamare post-simbolismo, è andato a cozzare in tante onde avverse, quelle appunto dello sperimentalismo. Oppure in quelle della poesia impegnata, come quella di Pasolini, che pur essendo un messaggio quanto mai accetabile non bada all’economia o spreco della parola ma porta ad altri problemi, anche sociali e morali. Erano belle cose perché si combatteva contro qualcosa (…). Negli ultimi anni siamo caduti in quello che io e altri abbiamo chiamato minimalismo. Cioè una poesia improvvisata, (…) che è andata a somigliare un po’ alla canzone, (…) un parente povero della poesia. La canzone è una poesia adattata a chi non ha voglia di pensare o non ha gli strumenti per pensare, (…) mentre per la grande poesia un minimo di sforzo bisogna farlo, anche nel senso culturale del termine. Io porto avanti assieme agli altri questa battaglia, che era del resto la battaglia di Giorgio Caproni, il più grande dei poeti post-montaliani.”

Più avanti, riferendosi ai giovani in generale, manifesta tutto il proprio sconcerto, una profonda delusione:

“Oggi c’è troppa indifferenza nei giovani, che è il massimo peccato. I giovani devono sapere che possono lasciare un’impronta sui loro anni, perché questo loro passaggio non sia inutile.”

Leone D’Ambrosio, nell’accennare alla frequenza con la quale nelle opere di Maria Luisa ci imbattiamo in poesie d’amore, le chiede:

“Qual è la differenza rispetto ai Canzonieri d’amore del passato?”

La risposta è molto complessa, e parte da una suggestiva panoramica sulla nostra storia letteraria. Cercheremo di sintetizzarla alla meglio:

“(…) Ne La luna è già alta ad un certo punto si parla della Striscia di Gaza. È chiaro che Petrarca non avrebbe potuto dire la Striscia di Gaza e neanche Leopardi. (…) Proust dice che quando noi amiamo una persona e ne riceviamo delle tenerezze, (…) non possiamo dire quanto sia puro (…) questo sentimento e quanto non si trascini dietro delle emozioni (…) precedenti. (…) Nella mia poesia immagino di camminare per strada insieme al mio nuovo compagno. È un’ipotesi poetica. E vedo passare l’antico compagno, allora vengo attraversata da un fulmine dalla testa ai piedi ma il mio nuovo compagno non se ne accorge, e a conclusione della poesia si dice: A chi appartiene la Striscia di Gaza? Ecco, questo è un segno. È uno dei punti dove la mia poesia è assolutamente nuova (…). Un altro esempio. Ne La traversata dell’oasi, ad un certo punto c’è l’espressione: Pantografato l’essere si espande. (…) I disegnatori di mio padre, che era un industriale di macchine per l’industria (…), avevano i pantografi al piano di sotto di casa nostra. Quando andavo a prendere mio padre per cena, mi dicevano: Maria Luisa, dieci minuti, fai una margheritina su quel tavolo. E io prendevo una di quelle grosse penne che pendevano dal soffitto ad un filo e disegnavo una margheritina con cinque o sei petali. Vieni a vedere che cosa è venuto? E sul tavolo vicino c’era un margheritone largo mezzo metro. Così l’idea di pantografare è diventata in me un simbolo di ciò che si espande con violenza, che si magnifica e si moltiplica. (…) Pantografato l’essere si espande(…) è un apax legomenon, la parola usata per la prima volta nel corso d’una lingua.”

Altre domande vertono sull’impegno concreto – un “mecenatismo”, direi, d’altri tempi – di Maria Luisa Spaziani nelle insolite vesti d’una moderna “vestale” – per usare un gioco di parole -, ovvero di “operatrice culturale”. Il pensiero corre all’Universitas Montaliana di Poesia, la storica istituzione culturale intitolata all’autore degli Ossi di seppia – la “stella polare” della letteratura contemporanea, italiana e mondiale -, “nata nel segno d’una costante fede nella parola poetica e nei suoi valori estetici, morali e civili”. Soffermandosi sulle finalità dell’Universitas Montaliana, Maria Luisa Spaziani, sua ideatrice e fondatrice, si sofferma sulle figure più prestigiose della cultura del nostro tempo, da Joyce ad Apollinaire, da Céline a D’Annunzio, da Nietzsche a Mistral. Tra queste, la “Volpe” – secondo l’affettuoso nomignolo assegnatole dall’“Orso” Montale -, menziona due insuperabili classici oggi, purtroppo, precipitati nell’oblio: Vincenzo Cardarelli e Leonardo Sinisgalli, definiti “pietre miliari della poesia del Novecento”. Sempre il lucano Sinisgalli, con la sua eclettica personalità di poeta-ingegnere-designer, viene dipinto – in un altro passaggio del volume – come “uno degli uomini più intelletti del mondo”.

Ma rievocare i nobili progetti dell’Istituzione dedicata al Poeta Premio Nobel, al quale la Spaziani fu legata da un intenso rapporto durato decenni, significa mettere il dito nella piaga dei “tradimenti dell’amicizia e dell’amore”. “Quanto si è sentita tradita?”, così, elegantemente, la stuzzica D’Ambrosio. Maria Luisa, prontamente, conferma:

“Moltissimo. Purtroppo, questo è proprio il lato nero della mia esistenza. (…) Di tradimenti ce ne sono stati molti (…), che vanno a finire all’ultimo Centro Montale, dove i miei più cari amici e collaboratori mi hanno tradita al punto di farmi crollare tutto.”

Il carattere coraggioso di “sfida” – termine-chiave, ad avviso di chi scrive, dell’intera conversazione –, presente in maniera costante nel percorso umano e poetico di Maria Luisa Spaziani, emerge da tante altre confidenze. Alla precisa domanda: “La poesia quanto è vicina alla società e all’impegno politico?”, giunge una risposta senza fronzoli, con una sincerità disarmante:

“Pochissimo, anzi direi quasi niente, perché quand’ero più giovane c’erano delle ideologie. Mi ricordo ancora dei poeti comunisti, dei poeti cristiani, dei poeti che amavano la Russia per ragioni politiche (…). Tutti eravamo o da una parte o dall’altra. Oggi mi sa dire a quale politico potremmo dedicare una poesia? (…) Ma questo è un fenomeno di tutti i Paesi. Ho visto in Francia, come in Germania e in Inghilterra, che non hanno più miti.”

“Qualcuno ti considera rivoluzionaria e anche femminista. E tu?”

“Mi sono sempre considerata una femminista integrale, nel senso che non faccio distinzioni nell’accettare certe manifestazioni e rifiutarne altre. Anche se nella mia poesia non ho mai accennato a quei problemi femminili, a quei complessi di inferiorità che hanno avuto certe donne in poesia. Penso che il femminismo anche in poesia sia stato molto importante, ma soltanto per le migliori. Molte hanno pensato più all’affermazione della personalità attraverso la poesia. Ma non sempre è riuscita, perché la poesia si ispira a ragioni intime e vere e non estranee alla vita.”

Rispondendo ad un diverso quesito – riguardante un aforisma avente per tema il rapporto “umorismo/morte” -, l’autrice torna sulla questione del femminismo:

“Il femminismo è un grandissimo tema politico e morale che naturalmente quando lo si vede in una forma così aggressivamente umoristica è anche una battaglia implicita. (…) Moltissimi mariti, compagni, sono felici delle mogli pittrici, poetesse, ma se queste diventano più importanti di loro incominciano a seccarsi.”

Qui è la stessa Spaziani ad adoperare il termine “poetessa”, anziché quello onnicomprensivo di “poeta” – come pure aveva dichiarato di preferire al femminile -, rispondendo alla domanda specifica: “Perché ami definirti poeta e non poetessa?”

“Penso che poetessa sia un termine che non andrebbe mai più usato, anzi andrebbe proprio cancellato. Se uno dice ‘Saffo è stata la più grande poetessa greca’, dice la verità. Poi, quando chiediamo un elenco di tutti i più grandi poeti greci, ecco che Saffo è all’ultimo posto. Allora, non devono esserci categorie per valutare una persona, un poeta, io devo essere giudicata non perché sono una donna ma per le poesie che ho scritto e che mi rendono poeta.”

I seminari annuali dell’Universitas Montaliana hanno sovente toccato temi controversi carichi di risvolti politici, come nell’edizione dedicata a “Eroi e trasgressori in poesia”, con un’attenzione particolare riservata a Pier Paolo Pasolini e Nazim Hikmet, “due intellettuali scomodi del loro tempo, liberi e indipendenti, condannati per le proprie idee, entrambi marxisti.”

Quindi, un interrogativo palpitante, incalzante: “Che epoca è quella che stiamo vivendo?”

“In questo secolo così povero, stiamo andando verso un nuovo Medioevo. Non quello illustre, ma quello triste, quello brutto. La poesia dovrebbe essere un antidoto contro il qualunquismo, il menefreghismo, la banalità.”

Un’altra domanda, quasi una preghiera in apparenza innocua, “C’è la fede nella tua poesia?”, suscita una sequela di reminiscenze e ammissioni:

“Sì, è forte. Nella poesia in parte e può essere di pensiero, ma anche verticale, dove si parla di Dio. Rilke ha detto che Dio è una direzione e questo per me è fondamentale. (…) La poesia è vitalità e verità e in poesia non si può mentire. Questo è un discorso disperatamente difficile. (…) Ritengo che il racconto di drammi vissuti in natura, espressi in modo così efficace da Montale ne L’anguilla, diventino un messaggio cosmico che(…) riesce ad impersonare, anche se in modo indiretto, emozioni e sofferenze umane.”

Ancora, dalla ricerca di D’Ambrosio emerge quasi la richiesta – o l’implicita conferma – d’una sorta di identikit ideale dell’uomo/poeta: “Il poeta deve sentirsi libero?”

Risposta: “C’è una frase stupenda di Apollinaire che dice: Più libertà c’è e più c’è il desiderio di ordine.”

La libertà assoluta, tuttavia, non esiste e, del resto, da sola non avrebbe senso. Maria Luisa Spaziani aggiunge che la nozione di libertà, sia nell’esistenza del poeta che in poesia, va commisurata con il concetto di memoria:

“Nella poesia si tocca il tenero impalpabile, la memoria diventa la parola chiave, in quanto se non avessimo memoria saremmo come i neonati privi della percezione del passato. La memoria invece ci consente di preventivare l’avvenire. E se parliamo dell’avvenire non possiamo che farlo in termini di memoria, perché il presente diventa immediatamente memoria. La poesia è la massima libertà di sé, ma se perde la nozione della sua radice storica e linguistica cade nel niente. Una virgola può far naufragare una poesia.”

Infine, l’interrogazione-clou, quella rivelatrice: “Come definiresti la poesia?”

“Tre sono le cose che non moriranno mai (…): l’amore, la religione, la poesia. E la poesia è una grande e continua avventura nei regni più diversi della mente (…), perché la poesia è la più alta forma umana e sta tra la terapia e la religione. È un modo per guardare in alto, oltre il perimetro delle cose, nel loro significato segreto.”

Francesco De Napoli