“Il visitatore” di Eric Emmanuel Schmitt (regia di Valerio Binasco)

“Il visitatore” di Eric Emmanuel Schmitt (regia di Valerio Binasco)

Recensione di “Il visitatore” di Eric Emmanuel Schmitt (regia di Valerio Binasco; con Alessandro Haber, Alessio Boni, Nicoletta Robello Bracciforti, Alessandro Tedeschi). 

Incontrare l’Altro è anche incontrare sé stessi. Specie se l’incontro è inatteso, come ne “Il visitatore”, di Eric Emmanuel Schmitt, con Alessandro Haber, Alessio Boni, Nicoletta Robello Bracciforti, Alessandro Tedeschi, per la regia di Valerio Binasco, prodotto da Goldenart production, replicato a Piacenza lo scorso 13 e 14 gennaio presso il Teatro Municipale.

È un testo piuttosto recente quello de “Il visitatore”- scritto nel 1993 dall’autore belga Schmitt – non solo per la prossimità temporale della sua stesura ma anche per l’argomento trattato e i personaggi.

Una sera del 1938, un padre, Sigmund Freud, è in preda all’angoscia. La follia omicida del terzo Reich marcia per le strade dentro scarponi militari e si infiltra dentro ogni casa, anche in casa Freud.

Anna, figlia di Sigmund, è appena stata arrestata da un abietto caporale nazista, e il padre, uomo di scienza e ateo, vive il paradosso di essere etichettato come ebreo. Non crede in Dio, Sigmund Freud, e proprio mentre non si aspetta più niente di buono dagli uomini riceve una visita inaspettata. Un uomo, che non ha nome, l’Altro, fa incursione nello studio del dottor Freud.

Il nucleo centrale ruota intorno al dialogo tra Freud e l’Altro: il significato dell’esistenza, la solitudine dell’infanzia come dell’età adulta, il bene e il male, il libero arbitrio, la ricerca del senso, la pretesa onnipotenza degli uomini e la necessità di credere a prescindere, trovano spazio sul palco. Valerio Binasco, che oltre alla regia, ha curato anche traduzione e adattamento, compie delle scelte di messa in scena in una direzione che coinvolge. Scansa il rischio che può correre un tipo di teatro come questo, un teatro di parola, di soffocarsi in un vortice centripeto e apre invece una nuova prospettiva. Le parole di Schmitt, con l’apporto di Binasco e degli ottimi Haber e Boni, diventano tridimensionali, sono parole che si fanno carne. Non sono due uomini composti i due protagonisti rinchiusi in quel Novecento che si agita fuori dallo studio, dalla stanza in cui i due dialogano. Alessandro Haber interpreta il suo Freud partendo dal fisico, ormai anziano, piegato, e dalla voce che esce tremante dalla gola malata. A ogni scena pare cedere col corpo e col pensiero a una fine imminente, alla fine della sua vita ma anche del dubbio che con costante razionalità ha alimentato sin dall’adolescenza. Haber ci partecipa intensamente il patimento di un padre e di un uomo.  La scelta dei costumi collima con questa immagine di uomo prima ancora che di psicanalista. Haber-Freud indossa un completo marrone, è dimesso.

Anche la scenografia concorre a una doppia interpretazione sull’identità dello sconosciuto visitatore, forse un matto, forse Dio, forse l’alter ego del dottor Freud.

Alessio Boni, in abiti trascurati, appare sulla scena in uno spazio lasciato in ombra, avvolto in dei teli neri, esce dal buio come il nostro sé potrebbe emergere dal nostro profondo.  Boni riesce a modulare un Dio-uomo sfaccettato, innanzitutto ironico, a tratti sornione e a tratti impetuoso, sempre appassionato, come chi ama della migliore qualità dell’amore sa essere. Quando rievoca l’infanzia di Freud, Boni-Dio, è come se ci proiettasse tutti in quella cucina dove il piccolo Sigmund gioca a costruire storie intorno ai disegni delle piastrelle, è come se quell’immaginazione di bambino fosse non un ricordo ma viva e presente.

Boni presta il suo corpo – sempre dinamico e in tensione, pronto a balzare da un lato all’altro della stanza, a saltare da un sedia, in cui sta accovacciato in equilibrio precario, al bordo di un tavolo su cui siede sospeso, con le gambe avvitate e il dorso dondolante –  a Dio, o Altro, che si voglia, che compatisce nella semantica originaria del verbo, ossia che sente con, che sente insieme. Commovente è la scena in cui Haber-Freud e Boni-Dio si ritrovano alla stessa altezza, entrambi in ginocchio, esausti della loro solitudine e della loro comune sofferenza, affondano l’uno nell’altro in un abbraccio che li sostiene.

Sulla scena anche Anna Freud, interpretata da Nicoletta Robello Bracciforti, è una donna coraggiosa, volitiva e intelligente, che affronta il nemico senza paura. Il nemico, tanto spietato quanto beota,  il caporale tedesco, è interpretato da (ironia della sorte e dell’onomastica) Alessandro Tedeschi con una risata demenziale che raggela.

“Il visitatore” è una carezza che scuote, e non ha la pretesa di svelare o risolvere ma è il tentativo di indicare un silenzio e un mistero che ciascuno, si spera, possa non  spiegare mai del tutto.

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