Giuseppe Bonaviri: Sicilia caput mundi

Giuseppe Bonaviri: Sicilia caput mundi

Nella Sicilia sud orientale, propria a metà strada tra l’Etna e il Mar Mediterraneo, nei pressi dei monti Iblei, sorge il piccolo paese di Mineo; paese già di Luigi Capuana, nel 1924 ha dato i natali anche a Giuseppe Bonaviri.

Un altro scrittore che ha fatto del suo paese e di quel perimetro di terre intorno un universo di bucoliche fattezze, caput mundi, ombelico del cosmo, punto privilegiato di osservazione del divenire universale. Giuseppe Bonaviri, uno dei più grandi autori del Novecento letterario italiano, più volte candidato alla vittoria del premio Nobel, nasce in un paese in cui il detto popolare recita così: “A Miniu li pueti a ccientu a ccientu / pirchì è lu mastru di lu puitari” (“A Mineo gli scrittori fioriscono a centinaia perché Mineo è terra maestra del poetare”). Come lo stesso scrittore ha più volte detto, il suo paese, Mineo, ha sempre favorito la nascita di pensatori e poeti vernacoli.

Mineo avvolge e penetra lo scrittore che sin da bambino resta ammaliato dalla leggenda della pietra della poesia, una pietra che realmente sorge nelle campagne fuori dal paese e presso la quale i vecchi cantori si radunavano per sfidarsi in gare poetiche aiutati, secondo la tradizione magico-spiritistica del posto, dalla grande concentrazione di forze magnetiche accumulatesi in quel punto del sottosuolo. Bonaviri inizia a poetare a nove anni, scrive il suo primo romano a quattordici e passa le estati alla Nunziata, nel terreno dello zio Michele, meravigliandosi della potenza del mondo naturale e cominciando a provare un’ inquietudine di fondo che lo porterà ad indagare sia da poeta che da scrittore lo speciale triangolare rapporto che lega uomo – natura – cosmo.

Di tali atmosfere animistiche e sacrali Bonaviri ha risentito il fascino e sono giunte a formare uno degli assi portanti del suo sentire cosmico. Si è parlato di Bonaviri scrittore del fantastico proprio per il clima da fiaba onirica e surreale che permea il mondo dell’uomo di Mineo. È uno scrittore legato a questa terra da un filo inestricabile che, come una corda pazza, lo tiene stretto a sé e seppure con la scrittura si allontana per raggiungere dimensioni extramondane, sempre ritorna a Mineo e ai monti che lo circondano. Anche se Bonaviri non ha vissuto tutta la sua vita in Sicilia passò i suoi primi venticinque anni senza mai lasciare la realtà dell’isola; un fatto cruciale questo che il mineolo ha ricordato in tutte le sue interviste. Trasferitosi a Frosinone, in terra Ciociara, per svolgere la professione di medico cardiologo, ha continuato a tenere lo sguardo rivolto a sud, a quella Sicilia “mezzaluna perduta nel mare” che, come una madre dolcissima, lo ha nutrito di miti, di leggende, dei grandi risultati della sapienza araba, di alchimia e magia. Scienza e magia; due realtà soltanto apparentemente lontane per Bonaviri se è vero che la magia è la risposta più ancestrale agli stessi interrogativi che si pone la scienza e la scienza sfocia nella magia e nell’occulto quando chi la pratica tenta di valicare l’invalicabile, cercando di impossessarsi, o di ricreare, quella vis primordiale che risiede nella Natura. Così, in un continuo gioco che va dall’infinitamente piccolo, l’universo di particelle, di quark, bosoni e virus e batteri che lo scienziato – medico Bonaviri ben conosce, al grande degli spazi interstellari verso cui la sua fervida immaginazione veleggia, Mineo è al tempo stesso lo spazio minuscolo di un paese contadino ed opprimente e lo spazio delle infinite metamorfosi dell’essere: spazio di possibilità e sperimentazione del rapporto uomo – natura – cosmo. Di ciò si accorse prontamente Vittorini che lo inserì con l’opera prima, Il sarto della stradalunga (1954), nella collana I Gettoni scrivendo in quarta di copertina che la grandezza del Bonaviri stava: “nel senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui c’intrattiene, trovando anche nell’erbe e negli animali […] un momento o un grido di partecipazione alle peripezie del sarto e dei suoi”.

Bonaviri è uno scrittore che parla molto di sé perché il nucleo di ogni sua opera è Mineo, il suo paese d’origine, la sua infanzia, la storia affettiva e clinica della sua famiglia tracciata con i ricordi amorosi e le morti funeste che gli hanno strappato i parenti, il circolo affettivo di cui Bonaviri si è sempre nutrito. Ma pur parlando costantemente di sé e della propria dimensione che è propriamente quella del guscio o, se vogliamo, del nido (la madre, il padre sarto, il fratello, le sorelle, gli zii con cui è cresciuto) in realtà finisce col superare il dato biografico parlando di quelle che sono le verità assolute della vita e della morte. La stra-ordinarietà dello scrittore di Mineo risiede nel modo in cui indaga i territori dell’essere e dell’esistere con una congiunzione continua di scienza e affabulazione, di dato reale con dato immaginario o meglio immaginifico. La sua terra di Sicilia, una Sicilia ancestrale simile a come sarebbe “se gli Arabi non se ne fossero mai andati”, come ebbe a dire Calvino, gli offre lo spunto; la sua professione e il suo animo inquieto, sempre alla ricerca di un punto d’eterno nel fluire dell’universo, fanno il resto. In questo risiede l’unicità di Bonaviri e insieme, forse, il suo problema in Italia irrisolto di scrittore sempre un po’ ai margini.

Sul quotidiano “Il Mezzogiorno” il 28 dicembre 1994 lo scrittore e poeta Giuseppe Bonaviri scriveva così:

 […] per quanto mi riguarda è interessante far confluire scienza e letteratura. Mi piace miscelare la terminologia scientifica col linguaggio poetico; ma non è solo una cosa dilettevole. Perché mai uno scrittore non deve impastare la “cannella” della poesia con la terminologia scientifica? Perché non si dovrebbero usare in poesia parole quali “quanti”, “elettrone”, “magnetismo”, ecc? Da parte mia riconosco che non è solo una questione di differenza tra due me stessi, il medico e il letterato. Sono un lettore delle cose più varie, dalla cosmologia, alla fisica quantistica, alle opere letterarie, ecc.

Tutto il sapere che Bonaviri accumula è riutilizzato e piegato alle esigenze del fantastico, per mettere in funzione un meccanismo che faccia scattare la memoria dalla scrittura. Salvare dall’oblio chi non c’è più, dare un senso alla morte e rileggerla non come destinazione finale di ogni essere ma come approdo ad un’altra sponda e nuovo esistere sono gli obiettivi principi in Bonaviri. Per questo motivo la sua scrittura, magmatica  e ricca dei più diversi elementi materici che spaziano dalla filosofia, la religione, la scienza, la cosmologia, si fa scrittura della memoria. Se Bonaviri è un autore di cui non può non notarsi un pessimismo di fondo (“la vita è una grande morìa, un fiume che scorre vitale ma subito si affossa nel nulla”, scrive in Autobiografia in do minore ) altrettanto balza all’occhio la potenza vitale delle sue immagini che raccontano una Sicilia carica di frutti, povera ma sapiente, lussuriosa e a volte avara di facili concessioni ma costante punto di approdo dell’essere, fiume infinito da cui tutto si origina e a cui tutto ritorna. Basti al lettore curioso aprire il bel romanzo La divina foresta dove la Sicilia fa da sfondo alle infinite metamorfosi di Apomeo, un essere in perpetuo divenire raccontato prima nel suo stato di particella spersa nel caos primordiale, poi pianta di borragine ed infine avvoltoio alto nel cielo. La storia delle mutazioni di Apomeo va di pari passo con la mutazione del paesaggio siciliano colto in un punto remoto del tempo in cui tutto è materia confusa, magma, gas e tenebre e seguito nella maturazione fino a terra accogliente e al contempo ostinata che abbraccia l’essere e contemporaneamente lo isola, lo segrega, per poi liberalo nel momento della morte che traghetta verso un altra sponda dell’essere, come accade nel romanzo al corpo di Zio Michele il barbagianni che resta a fluire eternamente nelle acque di un fiume. E’ attraverso la Sicilia, vera isola amorosa, per dirla con le parole di un romanzo del Bonaviri, che lo scrittore recupera memorie e si riappropria non solo del tempo della sua infanzia ma anche di quello dell’infanzia di tutta l’isola che, assunta a modello di tutto il creato, diventa mutatis mutandis, il simbolo dell’infanzia del mondo quando altro non c’era che “sconfinata materia generativa”.