Due poesie inedite di Anna Ventura ("La vergine di Norimberga" e "Torquemada") # commento di Giorgio Linguaglossa

Due poesie inedite di Anna Ventura (“La vergine di Norimberga” e “Torquemada”) # commento di Giorgio Linguaglossa

Due poesie inedite di Anna Ventura (“La vergine di Norimberga” e “Torquemada”) commentate per noi dal poeta e critico Giorgio Linguaglossa.

Anna Ventura
La vergine di Norimberga*

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

* notizie storiche sulla Vergine di Norimberga

La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.

La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.

Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).

Perché la poesia di Anna Ventura inizia con una negazione («non avrebbe voluto»)?. La poesia inizia da una negazione per rendere evidente che tutto ciò che segue deriva da un fato immodificabile. La sentenza degli dèi è già stata emessa: morire dentro un armadio irto di chiodi. La poesia percorre la via dell’Um-Weg, gira attorno al tema, vorrebbe evitare quanto già decretato dagli dèi ma non può. L’impotenza della poesia è però anche la sua forza: il paradosso della poesia che è menzogna ma non può mentire. E allora alla poesia non resta altro che girare intorno al tema con spire sempre più concentriche, fino all’atto finale, fino all’ultimo cerchio, fino alla bella invenzione di un dio, del dio Cupido, il solo che può fare «un miracolo»:

fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.

Anna Ventura
Torquemada

Torquemada teneva tra le mani
un lungo elenco di persone
che avrebbe dovuto interrogare:
troppi, per avere il tempo di straziarli
con domande sempre più insidiose,
abili tranelli
che li avrebbero inesorabilmente portati
alla contraddizione
e alla rovina. Decise
che la prima ad essere interrogata,
quel giorno,
sarebbe stata una donna,
una contadina in odore di stregoneria.
Sarebbe partito bene,
con modi delicati,
in modo da metterla a suo agio;
le avrebbe fatto credere
che non c’era pregiudizio,
contro di lei; che ogni decisione
sarebbe stata imparziale.
Quando la donna entrò,
Torquemada le rivolse
il suo sguardo fermo,
simile a quello del serpente.
Ma la strega sapeva il fatto suo:
quando il giudice la guardò,
sia pure di sfuggita,
scoprì in quel volto una nota familiare,
guardò meglio: sì, era proprio sua madre.
Morta da anni,
mostruosamente presente in quel momento.
Pensò di essere oggetto di un raggiro,
e tentò di trovare un’uscita facile.
Ma non fu facile per niente.
La donna allungò un braccio,
e gli tirò l’orecchio: proprio
come faceva sua madre,
quando era ragazzino.
“L’udienza è tolta”,
disse Torquemada, sforzandosi
di tenera ferma la voce.
“L’ho sempre pensato,- disse la donna –
che saresti diventato un delinquente”,
e gli assestò uno schiaffo in piena faccia.
“L’udienza è tolta”, ridisse Torquemada,
avviandosi verso i recessi
del tribunale. Ma sapeva
di non avere scampo: sua madre
lo avrebbe seguito.

C’è in questa poesia la terribile consapevolezza di quella terra di nessuno qual è diventata la nostra coscienza. Torquemada rappresenta la Ragion di Stato, il Super-Io, il pensiero giustificatorio?, che cosa rappresenta Torquemada?. È l’indiscussa abilità diplomatica che si riconosce all’ermeneuta della Verità? Torquemada è colui che detiene la Verità per conto di un dio nascosto, suo compito è istruire con burocratica precisione un’istruttoria dalla quale si evinca senza margine di errore, l’esistenza del Male, dell’Errore, del Negativo. Torquemada è l’espressione del positivo della civiltà occidentale, suo compito è positivizzare le sentenze, renderle assertorie, ragionevoli, giustificate e quindi eseguibili. Suo compito è Positivizzare il Negativo, esorcizzarlo per meglio domarlo. La domanda interna che pone Anna Ventura è: quanta parte della nostra cultura segue la traccia mnestica di questa logica mostruosa? Quanta parte di noi è segretamente imparentata con la logica inconscia che fa di Torquemada l’implacabile assertore delle forze del Bene?

Questo «passaggio» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti? O un cunicolo sotterraneo che non si vede (ma che c’è), nascosto dal folto della vegetazione del pensare positivo? Ma, percorrere unUmweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano? –Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco), sentiero interrotto – ma compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è smarrita, impenetrabile e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e anche ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», la Heimat, il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre. Non c’è più una «siepe» che delimita lo sguardo, non c’è più un qualcosa di solido che ostruisce l’ingresso e la perquisizione poliziesca dell’occhio, per non parlare del viaggio turistico cui è ragguagliata tanta poesia moderna. Tutte le vie sono possibili e compossibili. Statisticamente tutte le vie sono interscambiabili perché tutte condurranno, alla fine dei tempi, a Roma.

E poi c’è il paradosso più grande: il corpo femminile, quello deputato alla vita, qui diventa strumento di morte. Perché? E qui ci vorrebbe uno psicanalista. Io proporrei questa ipotesi: il corpo femminile è la Poesia, che è diventata un armadio metallico irto al suo interno di aculei. E la Poesia deve uccidere chi osa entrare al suo interno: il Poeta. È questo il prezzo del pedaggio, e lo stesso Cupido non può nulla per evitare un tale decreto, può solo mitigarne la forma (ma non la sostanza) con l’invenzione dei fiori. I «fiori», appunto, anch’essi simbolo traslato della «poesia».

Mi chiedo: che terribile chiaroveggenza sulle sorti della Poesia nel Moderno. Mi chiedo: quanta altrettale chiaroveggenza c’è nella poesia italiana del tardo Novecento e dei giorni nostri di questo nesso problematico? Dinanzi a questa poesia di Anna Ventura, mi chiedo: c’è nella poesia che si fa oggi in Italia e in Europa la coscienza della caduta della «dimensione interna» del privato e dell’utopia? C’è la consapevolezza di quella terra di nessuno (non dell’io e né del non-io), della glossolalia e della glossofilia tipica del villaggio telemediatico? C’è consapevolezza di quanta poesia turistica si fa oggi?

(Giorgio Linguaglossa)

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Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004.