“Poesie 1954 – 2013” di Pier Luigi Bacchini

Recensione di “Poesie 1954 – 2013” (Mondadori, 2013) di Pier Luigi Bacchini.

Edite a maggio di quest’anno negli «Oscar Mondadori», le Poesie 1954 – 2013 di Pier Luigi Bacchini impongono a un pubblico consistente un autore tardivo e nascosto per antonomasia. Della prima parte della sua produzione poetica è data notizia solo nei brevi estratti compresi nell’appendice Prime e Ultime dove vengono antologizzate alcune poesie di Dal silenzio d’un nulla (Schawarz, 1954) e Canti familiari (De Luca, 1968), mentre invece è completa la serie di raccolte che tra Distanze fioriture del 1981 e Canti territoriali del 2009 segna il punto di svolta e la maturità di questo autore parmigiano classe 1927. Gli apparati a cura di Alberto Bertoni e del figlio del poeta Camillo Bacchini offrono informazioni utili circa la bibliografia e l’inquadramento storico-critico dell’autore e della sua opera.

La voce di Pier Luigi Bacchini si impone oggi nel panorama della nostra poesia contemporanea. Il lavoro di ricerca operato da questo autore in una apparentemente lenta e monocorde tensione verso una strada nuova, visto nel suo insieme, sembra oggi in equilibrio con l’esempio delle autorità, che pure si intuiscono vive nella voce di questo ottantaseienne diretto testimone del Novecento. Eppure lo spirito del frutto tardivo di una stagione distillata da lunghi silenzi, è riuscito a travalicare integro il millennio col suo bagaglio di tradizione e novità.

Nel piccolo caos di versi fecondi di intuizioni, Bacchini mescola una profonda competenza botanica e zoologica (stupisce i critici la sua declinazione scientifica della poesia, come il suo mestiere; medico mancato, è stato informatore farmaceutico), che ha buona parte nella nostra tradizione fino agli ultimissimi (penso alla Frabotta), inserendo la vicenda umana come contrappunto essenziale a una storia più grande, collettiva. La collettività che canta Bacchini è quella che porta uomini e piante (e animali) dentro il paesaggio di un mistero antico. La pazienza vegetale di questo scrittore che lavora su una lingua rinnovata, incamera i vantaggi di una ricostruzione finalmente possibile. È la novità, la nascita, il germogliare di una gemma sana, quello che più fa piacere scorgere fra le potature e gli innesti del suo giardino.

Il tacchino

Eccolo: è il tacchino bianco.
Il piccolo cranio calvo,
muso di vecchio,

                           scorticato e rosso.

Cacciatore di vipere e dunque
difensore di noi tutti.

Adunco.
Roco. Strumento di battaglia
emulo sconfitto del pavone
gallopavo
dalla boria pneumatica.

O condoruccio di terra
dal gorgozzule pendente,
o bitorzoluto di bacche sanguigne,
grande onore ci fa
la tua verruca erettile
e la lunga processione con le vesti candide
per i prati verdi.

(p. 221)

Un atteggiamento spiccatamente contemplativo (Contemplazioni meccaniche e pneumatiche è il titolo della sua penultima opera) bandisce dalla visione del poeta il gesto umano. Aristocraticamente rinchiuso in una prospettiva avulsa, Bacchini accetta di cantare il movimento vegetale ed animale fin nel suo fermento di molecola, nel mistero della comunione con gli elementi, ma resta fuori da questi versi qualunque urgenza di socialità non spontanea. La ristrettezza ideale del campo ha così la facoltà di sviluppare il mezzo poetico aumentandone le vibrazioni interne e rendendo i versi un potente microscopio gettato sulla realtà, e a questo proposito si può fare forse il nome di Camillo Sbarbaro. La ricerca silenziosa di una formula naturale e poetica spinge Bacchini fino alla tradizione giapponese dell’haiku con Cerchi d’acqua del 2003:

Uccelli

Non sono piume perse trasmigrando
degli alti pivieri bianchi
tremuli fiori morti

Relitto

Da tempo quella lucertola
spia un insetto rosso
            non ancora il pensiero

Sentiero

C’è tempo prima delle stelle.
Dopo la curva dei gelsi
mi siedo e le aspetto.

L’occhio

Lalco in volo.
Mirabile
la curvatura alare.

 Specchio d’acqua

                 Il mio volto
dietro il salice;
davanti al salice,
dietro l’acqua.

(pp. 187-8)

L’abilità raggiunta da Bacchini nei suoi anni di più intensa produzione è un bene di cui godere senza credere che nell’ostensione del suo repertorio tematico non manchi una importante dose di malizia con cui è importante imparare a fare i conti. Lo strumentario del poeta brilla come i ferri affilati dello specialista, e il suo ricorso insistito alla metafora vegetale e animale è solo la parte abnorme di una analogia chimica che nasconde il tentativo di penetrare nell’uomo come un microorganismo virale. Come in ogni poeta concluso il gioco di rimandi e messe in infinito dei temi è la spia di una inevitabile tensione all’universale, e Bacchini ha questa tensione pure inquinata dalla tentazione di assecondare il caso e fingersi definitivamente un minore. Questo forse è il limite più forte di questi versi e della vicenda narrata in Poesie 1954 – 2013. Spia ne è l’intuizione di sé come artista che arriva con Canti territoriali (termine etologico a indicare i canti amorosi e guerreschi degli uccelli) a porre sulla vicenda un punto fermo che ci piacerebbe vedere sorpassare: «E se mi avessero inoculato / un qualche ml in più o in meno / dopandomi / non andrei lungo i viali con lampioni d’autunno / per la città / nella loro simmetrica malinconia, e non sarei / un poeta da pubblicare» (p. 277).

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