“A sud di nessun nord” di Charles Bukowski
Rilettura di “A sud di nessun nord” di Charles Bukowski.
Rileggere A sud di nessun nord, la raccolta di racconti dell’osannato Charles Bukowski, mi ha indotto alcune riflessioni, in qualche modo “mature” rispetto alla lettura di un’edizione di qualche tempo fa.
Innanzitutto questa opera di Bukowski, pubblicata per la prima volta nel 1973, probabilmente è la più esemplificativa del mondo dell’americano, sia per la varietà dei temi trattati a lui cari, sia per numero di pagine, essendo un libro relativamente corposo.
Senza alcun dubbio la raccolta presenta alcune invenzioni narrative interessanti, una su tutte è rappresentata dal racconto Amore a diciassette dollari e cinquanta, che probabilmente ha ispirato la copertina dell’edizione Tea, cioè l’uomo-chinaski che intesse una storia d’attrazione con un manichino-donna. Una short-story che si dipana abilmente nell’immaginare un mondo grottesco e solitario, con sfumature umoristiche e tragiche. Eccellenti anche Maja Thurup e Un paio di ubriaconi.
A poco più di venti anni dalla sua scomparsa, qual è il ruolo di Bukowski nella letteratura mondiale, nelle forme espressive e nel costume di questi anni?
Sicuramente notevole: i nipotini di Bukowski sono numerosi, come il Dustin Hoffman del film Eroe per caso di Stephen Frears e Il grande Lebowski dei fratelli Cohen, o ad esempio molte altre figure secondarie apparse in opere di vario genere, e c’è anche un Bukowski per i piccini: il gatto Garfield! (fumetto e film). Il direttore di una testata per la quale scrivevo, il cui nome era Gino – come il mio – si faceva chiamare Ginaski! Il Bukowski del giornalismo… Anche per marcare la differenza e non causare indebite omonimie di ruoli.
In letteratura l’influenza dell’autore nativo di Andernach è significativa, ma non del tutto apprezzabile. In merito ci sono delle cose che vanno comprese. Bukowski non è una sorta di Hemingway più attuale. Tra i due vi è un abisso, e generalmente tutto a favore dell’americano di Addio alle armi. Innanzitutto Hemingway è un autore dalla penna rigorosa, dal racconto ampio ma perfettamente congegnato, dal gusto per la chiarezza senza mai cadere nella banalità. La vita del grande Ernest è stata una lotta e una battaglia di ideali in qualità di giornalista e di scrittore, oltre che sul fronte.
Bukowski rappresenta bene l’idea dello spiantato, dell’uomo senza arte e né parte, figlio di complessi e problemi endemici, che si ritrova – un po’ si e un po’ no – sulla strada. È il figlio di emigranti, di un certo tipo di emigrazione, all’interno delle vicende che vanno dalla fine della Grande Guerra alla Grande Depressione del ‘29 per giungere al secondo conflitto mondiale. Tutto ciò Bukowski lo vive con l’animo di chi cerca una sorta d’integrazione – che nel suo caso ha preso forme discutibili, frutto del sentirsi in qualche modo menomato – ma che prova anche disagio, generatosi dal sentirsi in fin dei conti umanamente apolide e apolitico.
Piacente uno, devastato dall’acne e complessato l’altro.
È quindi molto diversa la scrittura fra i due, come lo sono anche i temi.
Chi vuole vedere delle similitudini fra entrambi rischia di prendere il punto di vista dell’ubriacone. Cosa fa sentire uniti e in qualche modo simili o solidali gli alcolizzati? Ma l’alcol naturalmente. Questo e poco altro accomuna i due americani. Forse, in qualche misura, il rapporto fra i personaggi, inteso come spazio vitale, come flussi relazionali, come modo che hanno i soggetti viventi della narrazione di occupare luoghi e circostanze.
Forse ancora qualche similitudine c’è con l’ultimo Hemingway: un uomo alla deriva ossessionato dalla morte, dal “grande appuntamento” di ogni vivente. Ma è la deriva e non l’ossessione che porta qualche convergenza, magari nel cercare nel sesso uno scoglio nel quale trovare barlumi di pienezza.
È di gran moda, anche presso circoli letterari, associare chiunque beva a uno dei due americani… ma non è l’alcol una pozione magica per riconoscere categorie artistiche e caratteriali.
In vino veritas si dice, ma solo per l’allentarsi delle inibizioni, mentre i libri sono astemi di ferro! Non riesce meglio scrivere sotto l’influsso dell’alcol. E Bukowski e gli editori erano piuttosto attenti alle pubblicazioni e al linguaggio.
L’autore di A sud di nessun nord parla relativamente spesso dell’altro, anche per prenderlo un po’ in giro. Di fatto Hemingway è citato con un po’ di scherno e antipatia da altri importanti scrittori, primo fra tutti Gabriel Garcia Marquez (in Scritti costieri, 1948–1952, per esempio), magari perché i grandi amano criticare i grandi se vogliono farlo, e di certo la vita dell’americano è stata nella parte finale un po’ come quella di un cetaceo ferito, il cui sangue attira predatori o pesci di varia taglia, desiderosi di conquistare una rivincita su una creatura forte e di grandi dimensioni.
In compenso Bukowski è divenuto una sorta di mito vivente per tipi svogliati e indolenti, i quali scambiano a loro volta la spigolosa ed egoistica autarchia esistenziale di Bukowski, figlia di un certo degrado, di un’America perduta o sbandata, per ciò che in loro invece è solo pigrizia, conflitto con i genitori, reazione all’educazione ricevuta, senza sapere nulla di pulizia dei cessi e di arrangiarsi per vivere.
Tuttavia forse l’influenza maggiore di Bukowski sta nell’aver disinibito una parte della letteratura, contribuendo a creare i fenomeni dell’Avantpop statunitense e dei nostri Cannibali. Un certo utilizzo sboccato e crudo nel narrare situazioni e nel colorare i dialoghi si rafforza con la diffusione dei testi dell’autore del Taccuino di un vecchio porco. Diciamo che la letteratura si è pure felicemente emancipata da una trattazione ottocentesca. Non sempre, non in ogni caso in modo positivo.
Bukowski non è l’America perdente che canta il suo dolore, ma nella sua evoluzione rappresenta la tipica espressione del sogno americano. Di come vi siano opportunità anche per i Bukowski di ogni posto. È l’America che vende anche la visione del fallito, e fa di questa un oggetto di culto, di passione, di letteratura… Ovvero l’ennesima variazione del mito del sogno americano.
Basti pensare alle foto che lo ritraggono, estremamente curate, volte a rappresentare il personaggio: immagini d’autore, studiate nella loro trasandatezza in ogni minimo dettaglio.
Detto ciò egli è uno scrittore relativamente consigliabile come altri, e per determinati versi vi si riconoscono maggiormente influenze di John Fante, di Jack Kerouac e dell’Henry Miller di Tropico del Cancro. Miti della beat generation e, tranne il primo citato, portatori di impulsi e visioni della vita che affondano almeno nel decennio precedente e oltre, come di assai relativa attualità è l’immaginario bukowskiano, le cui radici trovano fertilità negli anni immersi nel turbinio degli eventi della prima metà del secolo scorso.