«Nodo nero» di Mario Massimo

«Nodo nero» di Mario Massimo

 

Oggi pubblichiamo «Nodo nero», un racconto inedito di Mario Massimo.

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Del nome con cui lo si conosceva, “il Sagittario”, e nient’altro, il maestro, conteso ormai dai potenti della terra (e da alcune fra le loro amanti) per farsene ritrarre, non amava dare spiegazioni; aveva lasciato anzi che prendesse piede la motivazione più semplice, come di un aggancio all’influsso delle costellazioni sugli uomini.

Tuttavia, a qualcuno con cui era più in intimità, aveva commentato:

«Quella che al disopra di noi non ci sia solo l’immenso brulicante e ignoto che ci sopraffà, se una notte di luglio ci alziamo e, così come siamo, usciamo a guardare in su, nudi in faccia all’universo: ecco, che quella non sia un’infinita estensione di rocce in frantumi che bruciano, e basta, è davvero un’idea che aiuta a tornarsene a letto e riprendere sonno… se uno ci riesce!»

Il motivo dunque non andava davvero cercato in quella direzione; anche se, effettivamente, al maestro era stato sempre detto che era di uno degli ultimi giorni di novembre – ventoso, con squarci di lampo fra cielo e terra frustata dalla pioggia – la sera del suo venire al mondo: era fermamente convito, dal canto suo, che l’idea di una qualche connessione fra ciò che già l’antichità chiamava con il fascinoso nome di Zodiaco, e il modo in cui si dosa in un cieco ventre di donna l’impasto di virtù e di vizi di un essere umano, le parti in cui entrano nell’amalgama male e bene, era un’altra delle cantilene a mezza voce nel buio con cui si ci si aiuta ad attraversarlo, da quello da cui si proviene, all’altro in cui si precipita, a vortice.

E magari la configurazione che chissà quale remotissimo osservatore di notti gremite di costellazioni aveva tracciato, intorno a quel cespo di stelle a cui il sole sembra allinearsi nelle striminzite giornate tra fine novembre e dicembre, avrebbe potuto perfino incarnare abbastanza bene, a parere del maestro, quella che lui avvertiva come sua natura: una commistione fra impulsiva, superba animalità del cavallo, e lucidità, con cui l’uomo usa le proprie braccia, e l’acume degli occhi, a incoccare e dirigere l’arco nella direzione prevista.

«Ma nemmeno questo, è il motivo» aveva tagliato corto «la maniera più spiccia di uscirne, forse, è che così non mi tocca appenderlo, ciò che sono, al nome di nessun padre.»

Aveva centrato, a quel punto, il Sagittario, con una dolorosa esattezza (quantunque al suo interlocutore mancassero in gran parte le coordinate con cui individuare i significati non detti) il nodo nero del suo essere al mondo.

Erano mancate, del resto, anche a lui, e per molto, molto più tempo di quanto reggesse l’incapacità ulcerosa di non ricordare di lui bambino, e finché, in un modo o nell’altro, fu grande abbastanza che lo si potesse dare a bottega, in città: da lasciarsi alle spalle il cascinale della sua infanzia – la sua infanzia morsa da aggressivi odori, stallatico, orina di bestie, tanfo di pollame chiocciante, coi richiami rochi dei galli a trafiggere il lenzuolo teso di luce della calura, e ragli, belati, muggiti, e il notturno venire al mondo dei vitelli lucidi di muco, nel fascio delle zampe tese; la sua infanzia persa di stupori, alti gli occhi a seguire l’aprirsi d’ali e il planare prodigioso anche del più umile uccello, piccione o, con sforbicianti gridi, aggirando il grumo di fango da cui occhieggiavano i piccoli neri e irrequieti, le rondini – a qualche ora di calesse, e a molte di più di cammino, dal primo centro abitato, un immiserito paese di montanari: a quell’epoca, almeno di un fatto era venuto in chiaro, ampiamente di pubblico dominio, a metterlo al mondo era stata una schiava.

A servizio, inizialmente – avrebbe appurato nemmeno con gran difficoltà, domandando –, presso un attempato mercante di panni, ammogliato, senza che gliene venissero mai dei figli, a una donna di salute grama, e vissuta nella più estroversa lamentosità, quasi fin dagli anni iniziali del matrimonio: sì che per badare alla casa (secchie da tirar su dal pozzo, biancheria con cui scendere al lavatoio, o, più in grande, bucati su cui versare acqua e cenere, nel gran calderone lasciato poi a bollire, quotidianamente ramazza e straccio su ogni pavimento, rame da rilucidare ogni volta che era stato adoperato, in cucina) si era dimostrata più semplice, anche economicamente, quella soluzione: comprarsi una ragazzina, una schiava.

Perché, sì, a dispetto di quanto da più di mille anni in qua ogni settimana era predicato dai pulpiti – come se bastasse, la scusa dell’incomprensione sublime per la doratura latina in cui quelle parole di Nostro Signore si libravano nella vastità delle chiese –, in moltissime piazze commerciali della Cristianità era ancora messo, tranquillamente, a disposizione dei compratori quel tipo del tutto speciale di merce, gli schiavi.

Non c’era voluta nessuna fatica, a trovare fra i suoi colleghi, mentre lui ormai non trattava quasi altro che balle di panno, uno navigato sufficientemente da focalizzare la piazza dove l’offerta abbassava più il prezzo, e portargli la ragazza che faceva al suo caso. Neanche tanto bella: bastava fosse vigorosa, di solida complessione e con in bocca una dentatura sana, e che fosse stata ammaestrata a non replicare, e far subito quello che le si diceva di fare; tranne che quella era appunto la difficoltà, che non la masticava poi tanto, la lingua nostra, e nemmeno riusciva a risponderci: il più era uno di quei suoi grugniti di assenso, o di diniego, asseverati da colpi stolidi, eccessivi, in su e in giù, della testa.

Ma, se fosse poi stata anche bella, la schiavetta, oltre a incedere per le stanze con le sue movenze piene d’energia di creatura fatta come Dio comanda, al mercante di panni davvero sarebbe parso di farle uno sgarbo in più, sleale, meschino, a quella poveretta gettata ogni giorno che il Signore mandava in terra fra il letto alto di guanciali e la sedia a braccioli piazzata ad un passo dalla finestra verso la piazza, all’avaro spicchio di vita vista di passaggio che se ne poteva assaggiare.

Eppure, per valetudinaria che fosse sua moglie, e attaccata, come usa dire, alla vita col solo sputo, fu a lui, il mercante, che toccò di morire per primo: dalla notte al giorno, di un unico insulto apoplettico di cui non si accorse altro che per lo strozzarglisi, e svegliarlo, del respiro in gola, nel tempo che impiegò a dire il nome di sua moglie, e nulla di più.

Non vedersi più d’intorno quella scostumata di una straniera (di cui era, graniticamente, persuasa non avesse fatto altro, da che aveva messo piede in casa, che insidiarle il marito) fu dunque una delle prime cose di cui si era raccomandata la vedova, con il liquidatore dell’asse ereditario del defunto Arnolfo, mercante.

Alla fine, spulciando obituari e registri di battezzati ed interrogando spezzoni della parentela di quarto, quinto grado, il liquidatore era pervenuto alla conclusione che fosse Beniamino, un pronipote per via di consobrini, il solo consanguineo ancora in vita, e a cui, per ciò stesso, toccava ope legis in eredità il possesso della servente intesa col nome di Caterina.

Quando se la vide arrivare lì al podere, dov’era rimasto sempre, con la poca compagnia di uno o due braccianti a giornata assoldati al momento giusto, e per lo stretto tempo necessario, senza, cioè, volerne sapere di parenti (sanguisughe, serpi che erano!), Beniamino le aveva rovesciato addosso un torrente acre d’improperi, indicandole ripetutamente, a gestacci, qual era la strada: per pigliare e andarsene, viaa!!

Ma Caterina era stata solo capace di sedersi, là, sopra una pietra, posandosi accanto il suo fagottello, e scoppiare a piangere; muta, piano, irrefrenabilmente, premendosi il dorso di una mano contro la bocca. Nient’altro. Non ci fu verso di cacciarla via, né quella mattina né mai, dopo.

Per il poco che visse, dopo.

Naturalmente, in quell’anno scarso, il suo malmostoso proprietario aveva fatto in tempo, a cambiare un pochino delle sue idee, in materia di come una donna può tenerti la casa, può mettere ordine nella tua biancheria, non aver bisogno nemmeno di domandarti cosa vuoi trovare per cena, fartelo trovare pronto e, si direbbe, a puntino, non fosse la smania di metterci dappertutto troppo sale; e, di conseguenza, anche com’è, se nelle lenzuola appena un po’ dure di freschezza ce la trovi, entrandoci, con quel suo candore di carni che ti s’intiepidiscono contro la pelle, e una mano appena a velare, delicata se pur rossa delle faccende, il cupo infittirsi, in cui non sai più come fare a non lasciarti assorbire.

Da allora, era poi venuto tutto quanto non aveva bisogno di chiedere in giro, l’essere umano che in quella maniera, senza che una sola parola fosse pronunciata di quante fra un uomo e una donna mimano l’amarsi, ne aveva avuta impastata l’esistenza; e infatti stava, al Sagittario, come neanche ai vitelli il monogramma annodato nel ferro per la marchiatura, incandescente dentro, incapace di cicatrizzarsi.

Perché a lui invece parlava, Beniamino: altro se parlava! Non pareva riuscisse ad entrare in contatto con lui che sbraitandogli contro un urlo, un’ingiuria, con appiccicate subito bestemmie a Nostra Signora, o del male imprecato a Cristo, per com’era buono a nulla, e stordito, e scansafatiche, soltanto bravo a mangiar pane a tradimento, quasi fosse stato messo al mondo per starsene a pancia all’aria, a grattarsela, non a buttar fuori il sangue e a faticare: è per questo, non se lo voleva ficcare in quella zucca vuota?, che ci si viene, al mondo…

In definitiva, fu una liberazione per tutti e due, quel suo benedetto partirsene per la città, con il grosso involto, sottobraccio, dei fogli che recuperava nelle più impensate maniere – certe volte anche andando ad aiutare, in paese, il parroco della pieve in qualche lavoro di ricalcinatura: e non ne volle in cambio che pagine dei libri da messa inservibili ormai, squinternati com’erano e mezzo mangiati di tignole – e riusava per i suoi disegni, sporcandosi, con il carboncino sottratto alle braci, le dita, ma solo finché le muoveva su quel foglio, avvertendo privo di ogni dissonanza il legame fra sé e come, in quelle forme, la vita si coagulava.

Tanto che, arrivato in città, aveva strabiliato tutti, con quei suoi disegni di una perizia e di una freschezza sovrane, e dopo essere stato preso dal suo maestro a modello per un angelo adorante ai piedi di Maria in maestà era poi passato lui stesso a dipingergliene accanto un altro, di angelo, ma di una tanto più inquietante dolcezza, nello sguardo, nel gesto di volgersi all’osservatore e, puntando il dito alla Madre, invitarlo, ineludibilmente, ad interrogarsi sul senso di ciò che in lei, nel suo essere madre, aveva trovato un imperscrutabile compimento.

Toccò poi a lui anche quel tema, dopo non molto tempo, e altre volte ancora, la Madre: seppe – lui soltanto – quali altri lineamenti di donna vi s’inveravano, assenti da sempre…

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E, cifrati d’ombra e di silenzio, da ultimo ancora, nel quadro che gli commissionò il fratello minore del più potente fra i cardinali di Curia, il ritratto di una donna, morta poi di parto, di cui era stato l’amante pochi mesi: perché – disse – il figlio che lei gli aveva dato vedesse, una volta adulto, quant’era stata bella sua madre; se non che, portato via il committente, a nemmeno trentacinque anni, dal mal sottile, il saldo del quadro non venne mai pagato, e il Sagittario tenne quel ritratto di donna con sé fino agli ultimi giorni che visse; né si diede granché pena, se veniva invece identificato con quello (mai andato, nella realtà, più avanti di qualche disegno di un profilo, e uno studio di trecce) della moglie di un mercante e banchiere della sua città, tale Pacifica; o meglio Ginevra, come parve fosse più elegante scrivere al primo che diede alle stampe, a oltre cinquant’anni di distanza, una biografia del maestro non più designato, per l’eternità ormai, se non come il Sagittario.