«L’Ottava nota» di Stefania Giammillaro

Recensione di «L’Ottava nota» (Ensemble, 2021) di Stefania Giammillaro. Articolo di Donatello Puliatti, professore Filosofia del diritto Università di Messina.

Non tutti i lettori dell’Ottava nota sanno che l’Autrice è professionalmente una giurista, ragionatrice del diritto tanto nella sua dimensione tecnico-pratica quanto nella sua dimensione prospettico-ideale.

Questo dato biografico è, a mio parere, tutt’altro che irrilevante, perché consente di intravedere alcuni di quei fiumi carsici che attraversano sotterraneamente l’opera.

La nostra poetessa si preoccupa innanzitutto di fornire un’interpretazione autentica delle cinque Sinfonie: lo fa nella nota (intesa in senso burocratico-testuale) finale, dove sembra voler assecondare quel bisogno di controllo semantico che affatica ogni operatore del diritto[1].

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L’opera, poi, è attraversata da un costante bisogno di normatività.

A differenza di molte opere della letteratura contemporanea, nelle quali l’io del poeta irrompe prepotentemente al punto da offuscare la possibilità che il testo non sia riducibile a mero racconto di sensazioni e vissuti, qui invece l’Autrice si muove su un piano interindividuale, dove la descrizione del sentimento assurge pian piano ad acuta rarefazione generalizzata di una categoria emotiva e sfocia quasi sempre nella proposta di una norma d’azione o di pensiero.

Il lettore è cioè sempre in possesso di una doppia chiave di lettura, l’una per capire l’emozione, l’altra per affrontarla. Ne scaturisce una sensazione di serenità: la veemenza del vissuto, tratteggiata con finezza ma con vivacità di toni che nulla vogliono risparmiare al vissuto stesso, viene però accarezzata e sublimata in uno spazio di riflessione, di condivisione e di dialogo.

E qui sta tutta l’inclusività (anch’essa, almeno a mio modo di vedere, elemento caratterizzante la  migliore e più avanzata visione costituzionalistica della società, ben conosciuta e professata dall’Autrice) dell’opera della Giammillaro. Non vi è luogo per sentimenti di ostilità, di avversione, financo di mera antitesi o contrapposizione: l’opera è piuttosto un canto rivolto a tutti, in cui il lettore è chiamato ad accompagnare con mitezza d’animo se stesso e gli altri nel cammino di vita.

C’è, poi, una peculiare ricerca dell’ordine e dell’equilibrio, molto più vicina all’intrinseca fiducia nel sistema giuridico e sociale (cui ogni giurista, pure il più sconsolato, si aggrappa) che agli individualizzanti e tanto comuni percorsi motivazionali (pane delle nuove figure professionali come il mental coach).

La ricerca interiore dell’equilibrio per lo più appare non come percorso faticoso, ma come l’assecondare una ciclicità universale che, prima o poi, si appalesa risolutrice: c’è un “ordine assiale”, un framework ineluttabile di razionalità, che trascende gli eventi e fa riapparire la “saggezza” da cui l’Autrice non può sfuggire (Cadenza – che pur si conclude in modo quasi raggelante – in Sinfonia delle Ombre), o è ancora motore della rinascita e della riuscita, rispetto alle quali… “non c’è via d’uscita” (Dis-Innesto, in Sinfonia del Riscatto).

Passando ora alle cinque Sinfonie che compongono l’opera (ed accantonando la lente d’ingrandimento sul senso del giuridico che traluce anche in sintagmi positivamente sorprendenti come “eccezione di fragranza”, che dà il titolo all’omonima lirica della Sinfonia del Riscatto), la Sinfonia dei Silenzi è un mirabolante gioco di opposti e di specchi, che si rincorrono con varietà di esiti lungo la direttrice dell’assenza e della mancanza.

Manifesto inconscio e Profilo inverso la aprono e la chiudono (passando per l’intermezzo Ritorno), anticipando e chiosando una cifra stilistica che rende bene la natura sinusoidale di un percorso emotivo apparentemente senza pace, ma che forse sembra trovare il punto archimedeo nella stessa alternanza.

È sinfonia potente, a tratti un po’ triste (come in Insonnia), ma mai autocommiserata o autocompiaciuta, piuttosto caratterizzata da un tocco di oniricità surreale, che sembra attenuare un complesso emotivo che altrimenti potrebbe risultare insostenibile (v. l’enigmatica Ipnosi).

Più cupa è la Sinfonia delle Trame, attraversata dalla rievocazione di un vissuto migliore, carico di aspettative deluse e degradato a mero simulacro di felicità: dalle pesanti, quasi illividite e disperate A(f)fondo, e Dimenticami, si migra verso un processo di elaborazione. JoKeR esprime in pochi tratti sia la potenza cinematografica dell’interpretazione dell’omonimo personaggio da parte di Joaquin Phoenix, sia il percorso risolutivo individuato dell’accettazione di sé: risolve tutto la… salvifica “Chiunque salva se stesso”, dove (come già accennato) la salvezza sembra incombere come fase di riordino, quasi non voluta, quasi non lucidamente cercata (“Cosa vogliamo non lo sappiamo, ma ci salviamo”).

Più leggera è la Sinfonia del Confinamento, dove lo spazio chiuso non è l’occasione di un delirio claustrofobico, ma il cantuccio dove si appalesa una serenità di fondo che, in effetti, pervade tutta l’opera.

È come se il tumulto delle emozioni vivesse negli spazi aperti delle possibilità: il confinamento, invece, disegna il tempo e il luogo necessari per vivere tutto quel calore di “A Nonnicedda du me cori” (che esprime una delle più grandi strategie di elaborazione del lutto, ovvero immaginare cosa direbbe e cosa consiglierebbe il caro che non c’è più, di cui si invoca quella protezione sovrannaturale quale amuleto emotivo necessario) o assaporare il senso più profondo della speranza (tema ricorrente in diverse liriche) di – per l’appunto – Ti regalo una speranza.

La Sinfonia delle Ombre è la continuazione ideale della Sinfonia delle Trame perché ne approfondisce i tratti cromatici: il binomio venere-cenere, ripreso più volte, esalta la contrapposizione tra un bello prefigurato e vissuto ed un’assenza del bello, forse solo idealizzato come tale.

Qui si respira un’aria più secca, dove la lirica asciutta (i titoli sono composti da non più di due parole) dà la misura della lucidità con cui un vissuto negativo è metabolizzato: non c’è, qui, un’evoluzione salvifica, perché forse la soluzione sta nella lucidità stessa.

È una sinfonia preparatoria a quella finale Sinfonia del Riscatto, in cui si recide il legame da quel turbinio emotivo che, forse, impediva di assumere lo sguardo fiducioso e cosmico  (seppur venato da un realismo presente e pesante) di In-tanto, nonché la simpatica bizzarria di Dis-Innesto: qui l’impegno perfezionistico come misura del riscatto (“Allora, preparo…elenco…scelgo…”)  viene autoironizzato (e probabilmente superato e sublimato) nell’aver dimenticato quel “sale”, metafora di una misura tutt’altro che scontata e tutt’altro che sempre a portata di mano come il comune sale da cucina.

Chiude l’opera la lirica Eptagramma, dove l’Autrice compare sulla scena così come fa lo stilista alla fine della sfilata o il regista al termine della rappresentazione teatrale.

Cos’è, in fin dei conti, l’Ottava nota?

È sicuramente più di quello che l’Autrice crede di avere scritto, è un humus fertilissimo di strumenti per gestire un’idea, un pensiero, un sentimento o un’azione.

Scritte magnificamente strizzando l’occhio alle tecniche dell’ermetismo ma con il regolo della (ancora una volta, tutta giuridica!) consecutio argomentativa, le liriche ivi presenti esprimono sincerità e freschezza nell’approccio al senso della vita e delle cose.

La chiave di volta sta nella negazione della negazione dell’inquietudine: il sentimento più fosco è invece osservato, affrontato, mai ipostatizzato, sempre diradato nella stessa lirica o in quella immediatamente successiva.

Si ha quasi l’impressione (ce la dà soprattutto l’appena citata Eptagramma) che l’emozione negativa sia percepita come parte inevitabile di una vita intesa nella sua interezza e, come tale, quale nutrimento necessario di un percorso genuinamente e speranzosamente rivolto al futuro.

In quello stropicciare, scomporre, strappare quanto pensato, creduto, fatto, c’è non l’istinto (auto)distruttivo del fallimento, ma la forza vivificante del procedere per esperimenti, conferme ed errori, quasi la vita fosse una gigantesca ricerca scientifica, dove l’indomani è, comunque vada, progresso e futuro, positività e visione, prospettiva e ricchezza.

[1]  A dire il vero, c’è però almeno un altro modo di intendere la nota dell’Autrice: sospetto si tratti infatti di una nona nota – da intendersi in senso “musicale” – e, se così fosse, sarebbe ossimorica perché, nel tentare di completare, rinvierebbe alla Nona sinfonia, paradigma universale dell’incompletezza feconda della produzione artistica).