«Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte» di Ezio Sinigaglia

«Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte» di Ezio Sinigaglia

Recensione di «Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte»  (Terrarossa, 2022) di Ezio Sinigaglia. Articolo di Gianluca Minotti.

È una questione di metà e metà che insieme dovrebbero fare un intero e invece alla fine completano un dittico dove non è certo che Warum/Aram, l’io narrante, quest’uomo di trentacinque anni, riuscirà a raggiungere la completezza, a essere “uno” e non più fifty-fifty lui e non soltanto Fifí, l’amico amato (ma non amante), colui che non si concede. Perché sono tre anni, due mesi e dodici giorni che Warum/Aram non fa l’amore. Da quando, cioè, ha conosciuto Fifí che: «Non ne ha voglia. Ma non esclude che la voglia possa venirgli, un giorno o l’altro». Ed è l’attesa di questo appagamento, sempre protratto, sempre spostato in avanti dai capricci di Fifí, che si tende come fosse la corda di un arco, si tende fino a che non scocca – dardo fulgido di luce – il linguaggio desiderante. Ovvero, ciò di cui è fatto Aram.

Tutto questo (e molto altro ancora) era Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche, il primo dei due romanzi del dittico Fifty-Fifty di Ezio Sinigaglia, che adesso, con l’uscita di Fifty-fifty. Sant’Aram nel regno di Marte, TerraRossa Edizioni porta a compimento. E così, grazie al sodalizio tra l’autore e la casa editrice di Giovanni Turi, iniziato nel 2019 con la ripubblicazione de Il pantarèi, a Ezio Sinigaglia è restituita quella visibilità che per anni gli è stata negata, a causa forse della straordinarietà (intesa anche come non ordinarietà) dei suoi libri, della loro unicità, del fatto cioè che essi non assomigliano a niente in circolazione, sebbene siano un’ode alla letteratura. Un inno alla gioia, qualcosa che ricapitola la tradizione e la innova perché tiene insieme, in modo magico e sublime, i poemi cavallereschi e i romanzi archetipi del flusso di coscienza. Da Tasso a Joyce, da Ariosto a Proust, dal romanzo d’avventura al romanzo di memoria: con una naturalezza strabiliante, al punto che uno la storia della letteratura la potrebbe desumere anche soltanto leggendo i romanzi di Ezio Sinigaglia. Con i registri che si intersecano, si accavallano, coesistono: vere e proprie partiture musicali dove l’umorismo e il comico sono, in modo misterioso, simultanei alla malinconia, al presagio di qualcosa di oscuro che incombe.

Come in Fifty-Fifty: una sorta di lungo monologo interiore in cui, declinando la narrazione al presente, Aram racconta due giornate trascorse nella villa di Stocky, in Versilia, insieme a Fifí e ad altri sette amici. La trama lineare e apparentemente semplice che contraddistingueva il primo romanzo resta una costante anche nel secondo, laddove però già il sottotitolo è rivelatore di un rovesciamento. Anzi, di un doppio rovesciamento. Il gioco dei nomi e dei soprannomi che innerva tutta l’opera, e che trova piena giustificazione nel fatto che questo vezzo è proprio di Aram, in quanto è per lo più lui stesso ad assegnare dei nomignoli alle persone – soprannomi mai statici ma sempre in evoluzione, fluidi e che cambiano nel corso della storia in conseguenza di ciò che accade e che riposiziona, rettifica lo sguardo di Aram –, ebbene, il sottotitolo di per sé rivela una sostituzione. Infatti, se Warum è a sua volta il soprannome che Fifí assegna ad Aram, chi mai sarà adesso a chiamare Aram “Sant’Aram”?

Fifty-fifty.-SantAram

Lo scopriamo subito, all’inizio di Fifty-fifty. Sant’Aram nel regno di Marte, quando nella villa di Stocky, preannunciato dalla Manon, che ha «una notizia sulla punta della lingua», giunge un idraulico, bellissimo – «il lattoniere degli dèi» – che Aram deve assolutamente vedere. E allora eccolo in cucina, Aram, dove, da sotto il lavello, una volta terminata la riparazione, «scroscia giù dai tubi» Sciofí e con lui scrosciano i ricordi. Perché Aram e Sciofí si erano conosciuti e amati anni prima, quando il narratore era militare, ufficiale di complemento, con il grado di sottotenente, e gli avevano mandato come autista proprio Sciofí. O meglio, Cioffi, al quale Aram aveva dato il nome di Sciofí, in considerazione delle sue mansioni di chauffeur. E adesso, in cucina, davanti a tutti – anche davanti a Fifí, che ribattezza Sciofí con il nome di Sciaquí – i due non sanno trattenere la gioia, e si abbracciano e si scoccano baci e si danno appuntamento per il giorno successivo. E come già nel romanzo precedente, al presente inizia a intrecciarsi il passato: «Oggi è proprio la giornata dei ricordi involontari. Delle intermittenze del cuore. Del tempo perduto da frugare», dice Aram, anche se il verbo «dire» è riduttivo, perché sembra che Aram più che parlare, canti. E mentre è nel furgone di Sciofí, il passato ritorna: non è più nel furgone ma nella campagnola ai tempi della naia, quando Sciofí si esprimeva in endecasillabi impeccabili, non perché fosse un poeta ma semplicemente perché era innamorato, e diceva: «Ti voglio un bene da scoppiar l’orecchie». E Aram questa frase l’aveva dimenticata e soltanto adesso, dieci anni dopo, gli rimbomba dentro. Come gli rimbombano dentro le voci dei ragazzi ai quali piaceva avere un santo per tenente, lassù, sulla casermetta in cima alla montagna, a mille metri d’altitudine. Su Marte, appunto. E la pazienza di Sant’Aram, i guizzi, le invenzioni per dar la sveglia ai suoi uomini, per fare il caffè, per rispondere a un telefono che sembrava non esserci, lassù, e le confidenze, il pianto a dirotto di Cerin, l’annodare le cravatte…

Si ride per le trovate argute, ci si diverte, e questo già da solo sembra essere un atto rivoluzionario. Che un’opera-mondo, oggi, in tempi di romanzi seriosi, possa scatenare in noi lettori il divertimento. E che ci commuova. Perché poi il rischio in cui si incorre è che potemmo innamorarci anche noi di Aram, delle sue “scempiaggini”, della sua scaltrezza verbale; lui che è fatto di linguaggio desiderante e ama indifferentemente donne e uomini perché interessato agli individui, alle persone. Aram, che è poi l’anagramma di “amar”: perché anche noi lettori giochiamo con i nomi, come fa lui che per un po’ sembra ignaro di aver scatenato in Fifí la gelosia. Non fosse altro perché Fifí e Sciofí evidenziano nel soprannome la loro somiglianza: e chi viene prima e chi viene dopo e chi è la metà dell’altro, non si sa, sebbene forse a essere destinato al provvisorio sia per lo più Aram: trafitto dalla natura duplice del suo stesso linguaggio che se da un lato canta l’amore, dall’altro ne ordisce la sua irrealizzabilità.

Gianluca Minotti