"Caccia incrociata" è un racconto di Giulia Inverardi

“Caccia incrociata” è un racconto di Giulia Inverardi

“Caccia incrociata” è un racconto inedito di Giulia Inverardi.

Fra uomini indaffarati e bambini scalzi si aggirava una presenza misteriosa. L’ombra s’inoltrava nei corridoi della grande nave nera, indagando con un occhio i passeggeri e con l’altro il mare aperto, dove c’erano il domani e le risacche del viaggio che iniziava. Io ancora non ne sapevo niente, come avrei potuto? Me ne stavo in un angolo più fermo di un sasso e guardavo con piacere gli altri che rendevano più reale la mia felice situazione. Non potevo immaginare nemmeno lontanamente cosa fosse quella presenza né tantomeno che, per tutto il viaggio, avrebbe inseguito me.

Rombi bassi sotto i piedi, scontri fra suoni di lingue neanche parenti, calca e afa opprimenti – eppure quanti correvano leggeri, passaporti in una mano, figli per l’altra! La frenesia dei rumori insoliti, dei corpi brulicanti mi stregava. Lì fermo a tener su la parete, puntellavo il tempo per godermi l’attimo epico del distacco dalla terra d’origine – ma dovevo essere trovato fin dall’inizio e presto la macchia bianco-nera mi strappò alla contemplazione: era un uomo immobile, simmetrico a me all’altro angolo della sala caotica, e mi fissava. Furono due secondi, ma di netto cancellarono aspettative e progetti, piazzando invece sul mio petto un largo peso. È che quegli occhi, la figura stessa erano fuori dal comune: il grande mantello che l’uomo si teneva addosso, ma anche il Fedora basso e le scarpe lucide, appuntite, erano neri; dal cappello due ali di capelli pure neri si arruffavano s’una faccia tutta spigoli, perdendosi nell’ombra delle spalle fra le quali la testa era infossata. Dal triangolo scuro – appiattito a gambe larghe l’uomo quasi scompariva nell’angolo –, venivano gli occhi inquietanti; di un verde vuoto, affilato da sopracciglia folte verso l’alto, premevano sui miei. Aveva l’aria di un incantatore muto, che richieda al prescelto nel pubblico la parola di via al sortilegio.

Mi accorsi di sorridere nonostante il disagio: la figura aveva un ché di promettente – il vuoto degli occhi attira, richiede, preme…Al mio sorriso a metà l’uomo-ombra s’era però voltato e già scivolava nel corridoio di lato, liquido sulla moquette azzurro sporco: è proprio un mantello! Chi ne ha più uno pensai, e che belle pieghe! Subito ero alle spalle delle onde nere, a ragionevole distanza, ma con passo convinto; l’uomo sembrava cercare qualcosa e i capelli spazzolavano l’aria a ritmo regolare. Un rito magico per soggiogare la nave? No, dovevo essere realista, ma cosa poteva inseguire un simile personaggio, in mantello nero a metà agosto, s’una malandata nave in partenza per un Paese dimenticato da dio? Un compagno di viaggio? Oppure doveva nascondersi, e da chi? Ma lo sguardo non aveva tradito fretta, né paura; di un biancore inespressivo aspettava, come un foglio l’inchiostro delle risposte. Forse non era ragionevole, e nemmeno sicuro, girare nel labirinto di corridoi stretti da togliere il fiato, dietro a un tizio strambo; d’altronde era il mio primo viaggio solo, finalmente libero da tutori: non avrei dormito per l’eccitazione, anzi avrei sofferto al gonfiarsi di ogni onda aspettando una scomoda ora di sonno. Invece quella notte poteva diventare speciale!, e a me, adolescente nel pieno delle forze, cosa poteva fare un attempato originale?! Falcata dopo falcata mi convincevo: è solo uno con gli occhi spiritati e un motivo per andare a caccia…e io scoprirò cosa cerca!

Quasi gli finii addosso mentre congetturavo e non guardavo avanti – gli svicolai di lato nella saletta che si apriva, con un’aria da finto indifferente e gli occhi bassi, ma riuscii a cogliere la luce straordinaria dei suoi occhi puntati avanti: sul rosso del cielo e nero del porto, una famiglia aveva varcato e veniva inquadrata da una porta d’accesso, gli sguardi accesi al primo passo sulla nave. Una specie di sollievo misto ad un orgoglio puro, non di reazione, trasfigurava quelle miserabili figure. La madre aveva una faccia tonda di montagna, che brillava per il pudore di non farsi vedere troppo felice; la bella espressione da ragazzina in gita mi rese più penosa la vista delle sue gambe, deformate da vene blu come radici avvelenate. Il padre, nella barba né lunga né corta, rivelava un volto da pastore e i due occhi stanchi rilucevano, lontani e tranquilli. Dappertutto intorno c’erano bambini, sette o otto, alcuni brutti e altri belli come solo i bambini poveri possono essere. E soprattutto, le guance rosse e gli occhi iridescenti da ninfa, la figlia maggiore sorrideva; fra i capelli lunghi fino alle mani, stese lungo i fianchi, spandeva attorno un entusiasmo senza nuvole, in un’attesa fremente e sicura.

Gli occhi dello stregone, mi chiedevo, avevano preso la luce, loro e dello sconfinato cesto di specchi ch’era il mare, oppure l’avevano data, accendendo la miccia di quella fresca ragazzina, troppo giovane per essere assaporata, ma già così profumata? In ogni caso ero piantato lì, entusiasta: c’era qualcosa di sovrannaturale in quel guardarsi, lo stregone e la ragazzina – ma più subitamente di prima l’uomo-ombra si dileguò. Tagliai di nuovo ogni pensiero per seguirlo e nello slancio sfiorai involontariamente la treccia della ragazzina, lei rise – avrei voluto fermarmi, amarla in un modo mio, le mie braccia un’incubatrice per farla crescere più in fretta, ma anche immergermi in quella famiglia: fermi, coi segni delle fatiche agli angoli degli occhi, erano sopravvissuti che emergevano dai dolori più mitici degli eroi antichi.

Troppo entusiasmo nausea dicono i vecchi del mio paesino e solo allora, con lo stomaco in subbuglio, capii cosa intendessero. Già lanciato all’inseguimento, vidi la coda del mantello voltare l’angolo, poi un altro; avevo il respiro corto, quasi correvo mentre le pareti beige mi venivano contro, mi avvolgevano, si stringevano e all’ultimo si richiudevano sulle mie spalle – il tubo digerente di un mostro marino, che mi sputerà in una tomba oceanica – bei pensieri, sognerò vomito e zombie se dormirò due minuti…Finalmente saltai all’aperto oltre una porta antipanico, una folata di vento m’investì e chiusi gli occhi; appena li riaprii intravidi il mantello avanzare verso terra. Lo stregone era sparito, s’è buttato? Mi sporsi d’istinto a osservare il fianco della nave, il mare di luce metallica, ma niente. Terra?! Alzando gli occhi vidi gru gialle, rosse, e palazzi grigi e un alto comignolo – un minareto, la cui ombra dura si proiettava sul piazzale del porto: continuai a fissarne la punta aguzza mentre nella luce crescente una terra mi veniva incontro a braccia protese, scandendo un’ambigua frase.

Ad un certo punto mi sono addormentato, mi dissi scendendo rapido gli scalini e facendomi largo nella ressa di giubbini di pelle, fra puzza di plastica e fumo. Proprio come contavo di fare: ho trovato una poltrona sul ponte e, buttato lo zaino su quella affianco, sono piombato in un sonno ebbro per l’emozione e profondo grazie al mare piatto, ai viaggiatori stanchi, silenziosi. Quel pensiero che mi concedeva almeno un attimo per gioire dell’approdo, nascondeva però nodi preoccupanti: quando avrei iniziato a dormire? Infilai il sonno tra la famiglia e l’apparizione della città di D., ma non se ne parla troncò la mia testa, e così per ogni tentativo: i momenti erano legati troppo strettamente per ammettere una dormita intermedia. E se avessi dormito da prima, prima ancora di vedere lo stregone? Ma allora avevo sognato lui, la famiglia, la ragazzina; mettendo fra parentesi l’incredibile nitidezza dei volti, delle sensazioni, era ammissibile. Che mi spaccava la testa e scardinava ogni ipotesi era quella frase…ma era il mio turno.

L’ufficiale, un bel volto scuro, prese il mio passaporto con aria rude, ma dagli occhi abbassati un lampo bruciò la negatività, “Benvenuto”, “Grazie”, “E’ la prima volta in A.!”, “Sì, sì”, “Per lavoro?”, “No, sono qui per, viaggiare”, “Bene! E come ti pensi di muovere? Dico, hai una guida? Perché io conosco uno e”, “Grazie, grazie ma ho un amico, è di qui, mi aspetta”, “Ah bene alora, visita tuto eh!”, “Ci provo…”, “Ti facio un buon viagio, e atento ai mendicanti qua fuori”.

Medicanti? – la domanda s’accatastò sulle altre ingolfandomi la testa, e nella stretta toilette mi osservai attentamente allo specchio per ripartire da un punto fermo: senza dubbio ero ancora io, niente segni di sortilegi. Anzi i miei occhi mi guardavano più vigili del solito – ammetto, ma non trovo gentile l’ironia sui miei occhi da pesce lesso. Mi sciacquai, mi riguardai e ammisi: anche se non ammetterei cause sovrannaturali come spiegazione di un fatto, capitato ad altri o a maggior ragione a me, i capelli della ragazzina sul mio braccio erano così fini, così bianchi gli occhi dello stregone, tutto nitido più che se fosse reale! La frase poi! Appena possibile l’avrei raccontato a E.; immagina, gli avrei detto, di sognare una frase in cinese, e al risveglio scopri che era corretta nella grammatica, e sensata! Assurdo, soprattutto perché cos’è nostro lo sentiamo subito: una paura vergognosa, il tic del piede, persino i peggiori istinti che ripudiamo hanno il nostro odore di casa. La frase invece aveva un odore preciso, che la mia testa misconosceva anche perché l’aveva già sentito altrove: negli occhi affilati dalle sopracciglia, nella camminata ingobbita e sciolta dello stregone. E le parole, che nel medesimo istante avevo visto e udito uscire, nere, da una nebbia bianca, continuavano ad accadere: la voce le sgrossava lenta, forte, ancora ed ancora in un’ossessiva rivelazione.

Mentre inseguivo l’uscita, oltre che le parole della maledetta voce, trovai finalmente la strada, varcai la soglia, scesi le scale e la realtà spazzò via ogni considerazione: oltre una distesa di corpi scuriti e contorti, alcuni appoggiati a una stampella di fortuna, altri coi moncherini di braccia all’aria, un tronco di uomo senza mani e senza gambe, impiantato s’un vecchio skateboard, mi sorrideva sdentato all’ombra di un minareto – la frase non solo aveva un senso, ma un senso premonitore. Dietro di lui, con un sorriso a metà, E. mi aspettava.

Da più di un’ora esorcizzavo con chiacchiere inconsistenti il disagio che provavo – mutilati, strade sconnesse e quelle carcasse di case che non smettevano di correrci ai lati. Se avessi chiuso la bocca, lo sconcerto mi sarebbe uscito dalle orecchie: “Ma come?, costruite i tetti, le scale, quello che si fa alla fine, e poi mollate lì?”. Gli scheletri di due, tre piani erano vecchi con cappelli distinti e bastoni da passeggio, ma senza pelle, muscoli; c’erano solo lo scheletro ammuffito e una domanda senza voce. E. sorrideva, annuiva, mentre suo padre, che aveva insistito per confinarci entrambi sui sedili posteriori della vecchia Mercedes, guidava in silenzio da quando le imponenti montagne s’erano fatte avanti; di tanto in tanto recitava qualche verso di Shakespeare – didascalia di E., io capivo una parola sì e venti no.

Le occasioni d’imbarazzo mi avevano accolto presto: nei pressi della città di E., una vecchina con un foulard multicolore in capo e una vacca alla corda aveva attraversato la specie di autostrada che percorrevamo, e le auto s’erano fermate strombazzando con divertimento più che con astio o stupore; la vecchia non aveva neanche alzato gli occhi. Nel tentativo di non sottolineare l’assurdità della cosa dovevo aver fatto l’opposto, perché a voce forte E. aveva dovuto commentare: “Ad alcuni la strada ha tagliato a metà il campo, ad altri ha triplicato il tempo per arrivare alla stalla; così tolgono le barriere e attraversano. Ridicolo no?”, stringendomi nelle spalle emisi un sospiro indefinito.

Era ormai sera inoltrata quando mi svegliai ad uno scossone, e m’incantai per ciò che misi a fuoco: un fiume scorreva irruente, incredibilmente nero e brillante, fasciando una collina tonda e lasciandosi lambire dalla strada che percorrevamo. L’incastro di curve pulite mi fece pensare a un simbolo mistico. Attorno, dappertutto, c’erano alti monti neri senza una casa, senza una luce, e sopra un tripudio di cielo tanto affollato di stelle che pensai stesse per crollarci sulla testa. Il fiume sfrigolava di luci nel silenzio vasto e concentrato rotto soltanto, di tanto in tanto, dalle accelerazioni e dai cigolii della nostra auto, che avanzava a passo d’uomo nella strada di buche e rocce. Tutto l’universo era in quella combinazione di luoghi che attraversavamo e che mi riempiva della sua imponente, misteriosa semplicità; ammetto che mi commossi, non so bene di cosa o se fossi felice, ma dai miei pochi anni di viaggi, d’incontri, contemplavo un momento maestoso che chiedeva qualcosa a me, di prendere posto nel mondo o qualcosa di simile. Quel pensiero mi fece sentire meno inutile, ma anche meno calmo. Sono sempre stato un tipo tranquillo, ma secondo alcuni spesso scivolo nell’indolenza e non avevo mai capito cosa intendessero; per un attimo lo intuii allora, in quella faglia fra i monti smussati dagli anni, sul sedile di un’auto più vecchia di me condotta da un uomo senza sorrisi che recitava Shakespeare. Immediatamente e senza possibilità di replica la frase si collegò al momento; mi agitai, come quando ci si ricorda di avere un debito che la nostra mente, per darci respiro, ha cancellato: lo stregone, la frase, la collina nera, l’incastro di curve, di nuovo la frase.

“Tutto bene?”, il guidatore non mi aveva mai rivolto direttamente la parola, ma era vissuto a lungo in Italia e di netto smise di essere, per i miei pensieri, un alieno muto.

“Sì grazie, ma…” perché no?: “ E’ che, veramente, stanotte ho fatto un sogno”.

“Un bruto sogno?”

“Strano. Alla fine c’era una frase che, ecco, non è stata pensata da me, e raccontava una cosa che è successa, nella realtà”. Non mi ricordavo d’essermi mai sentito più idiota…

“Hm, capisco”.

“So che sono stupidaggini, non creda, ma”

“Non per forza, non per forza. Esistono cose anche strane, sai bene. Sono della vita anche quelle e a te può essere sucesso qualcosa che non puoi spiegarti. Ma certo, che sei in viagio è un buon modo per cercare una risposta. Questo importa, essere in buone condizioni per cercare una risposta”.

Per lui la discussione era chiusa. Cercai di mettermi addosso il consiglio, di dirmi che le nuove impressioni erano dovute al viaggio, ma sapevo che non era così; c’era un odore di fondo che si spandeva nei miei pensieri, nuovo, ma non del tutto sconosciuto. I paesaggi vividi si succedevano in visioni la cui semplicità da disegno esigeva un’elaborazione; le montagne, i fiumi, quell’insieme preistorico mi interrogava in una lingua ignota, ma che aveva risonanze in me. Non ero abituato alla confusione mentale, volevo metterci una pietra sopra e invece l’agitazione continuava a spostarsi.

Presto ci trovammo sullo stretto crinale dei monti: a lato qualche pietra a fare da parapetto, a destra e a sinistra precipizi, uno smisurato spazio di niente e sotto, lontane, rocce nere coi profili argentati e ombre di sparuti boschetti blu. Un mare di monti sotto di me, pensai, chissà cosa nascondono in tutte le pieghe. Mi ricordai il mantello dello stregone e mi tornò la fascinazione che mi aveva spinto a seguirlo all’inizio del viaggio; in un certo senso lo seguivo ancora, come fosse disteso sotto di noi nella sua coltre nera.

L’impressionante discesa dai monti verso un lago agitato era avvenuta da circa un’ora, quando ricominciammo a salire; la mulattiera si addentrava in una foresta di fieno scuro. “Spettrale”, dissi a E. che s’era svegliato ad un rombo del motore sfiancato.

“Ci siamo quasi”.

“Se prima non ci rapisce qualche demone delle montagne”.

E. m’indicò il cartello stradale: il terzo nome, K., era l’unico ad essermi familiare; mancavano 5 chilometri. Eppure, la distanza non si consumava mai e di nuovo pensai ad un sortilegio, quando l’auto accostò e un’ombra salì: era solo una donna, lo scialle nero sulle spalle e la gonna fino a terra. Voltatasi interrogò E. e mi fece un cenno cordiale; le sue rughe erano tremende.

“Ecco la mia vecchia scuola: entriamo in paese!”. A lato della via c’era una stanza col tetto in pietre scure, piatte, e alte finestre; un’altalena le ondeggiava davanti, obliqua sul pantano. L’auto avanzava più lentamente, ma salì ancora per una stretta rampa fra case sconnesse; arrivata ad un piccolo spiazzo, dopo le molte ore di fatica ammutolì. Le orecchie mi ronzavano e avevo timore a rimettere i piedi a terra, dopo quel pranzo nel tardo pomeriggio: ecco il mio vero sbarco. Seguii in fretta E. e suo padre che muti s’erano avviati per un sentiero di pietre e fango, non prima di essersi caricati sulle spalle il primo la sua valigia, il secondo la mia; la donnina s’era dileguata nell’oscurità senza una parola. Un silenzio brulicante correva per il villaggio: le narici frementi di un asino attento, lo scricchiolio sotto un piede nottambulo, il toccarsi dei rami spogli fra le casupole, persino il crescere delle verdure negli orti mi sollecitavano con la loro anomala attività. Se fosse un villaggio stregato?, subito mi diedi dello stupido, in fondo ovunque gli asini respirano e i rami s’incrociano, ma cosa mi metteva in guardia, allora, in quel caseggiato sperduto sui monti di un Paese isolato? Le strane sensazioni mi suonavano familiari e forse questo determinava la loro bizzarria: ci univa un senso di riconoscimento che non sapevo spiegare. Presto piantai a metà ogni interrogativo perché una folla di una trentina di persone ci veniva incontro compatta, vociando; in un attimo mi trovai attorniato da mani, sorrisi con buchi di nero, suoni che non capivo e a cui rispondevo replicando gesti ieratici. E. comparve al mio fianco per identificarmi “la zia”, “mio cugino”, “anche lui”, “Ma quanti cugini hai?”, “Beh non sono proprio cugini stretti…”, “Ah! E questa signora..?”, “Questa, bah, non so!” “Ma mi bacia!”. Il sorriso che mi veniva restò però a metà non appena scorsi una sagoma nota: mi si avvicinò, il respiro mi era tornato in gola, mi strinse la mano che era molle nella sua e mi lanciò un’occhiata che non potrei definire che d’intesa – come se nascondessimo un segreto comune, insieme allegro e inconfessabile. Non ebbi la prontezza di articolare mezza domanda e quando persi la gelida stretta lui era già sparito, mentre E. era impegnato in una conversazione. “Scusate…hai visto, dico, quell’uomo, quello col mantello?”

“Mantello? Ma ci saranno trenta gradi!”

“Lo so, ma chi è? Gobbo, la testa nelle spalle, gli occhi chiarissimi, e un cappello, non puoi non averlo visto!, mi ha salutato come fosse un tuo parente o conoscente”

“Calma, no. Tu sei distrutto dal viaggio…Entriamo in casa: ti presento mia madre”.

“Ma lo stregone, dove può essere”

“Domani me lo racconti, ora vieni…stregone, ah!”.

La porta si chiuse pesante alle mie spalle. Un verso lunghissimo, addolorato, mi mise i brividi lungo la schiena. Per la prima volta da sempre, ebbi un vuoto enorme di paura, paura di stare solo coi miei pensieri.

L’angosciato chiu-chiu fece da metronomo al mio sonno, pesante e senza sogni; appena sveglio corsi a interrogare E., che fu a dir poco sfuggente: liquidate le mie domande con brevi frasi, singole parole e infine una risata secca, iniziò a martellare entusiasmo per il viaggio che avremmo fatto l’indomani, spiegandomi quanto ben conservata fosse B., perché fosse stata dichiarata patrimonio UNESCO – già non l’ascoltavo. Come potevo pensare ad altro? La sera prima, senza aprire bocca lo stregone mi aveva lasciato un’altra frase: staccata la mano dalla sua, nella testa ecco una catena di nove parole, verbalmente formulate, pronte, quindi non mie. Che cos’era, era telepatia, suggestione? In passato, avevo compatito fra me e me l’agitazione di un amico impressionabile cui era accaduta una stranezza, in realtà spiegabilissima, e m’ero detto: se mai capiterà a me un fatto assurdo, penserò subito se non alla follia ad alterazioni nelle mie percezioni – mai crederò a pseudostorie senza fondamento. In quel momento, tuttavia, due fatti m’impedivano di credermi pazzo: le frasi dello stregone erano legate ad eventi della realtà; il secondo, meno oggettivo, riguardava E.. Il fare del mio amico era del tutto insolito: normalmente avrebbe riso, estremizzato il mio racconto; perché si faceva scappare un’occasione di spasso così grossa? Anche lui coglieva qualcosa; perché non parlarne? Cosa poteva esserci sotto?

Durante quel primo giorno non feci che mangiare e incontrare vicini e parenti di E. I pasti benché estenuanti mi confortavano, dandomi l’occupazione fissa di scoprire i sapori: zucchero venato di legni, i dessert impregnati di melassa e granellati di noci; tremendamente acido, i succhi di frutta diluiti e i formaggi-yogurt; amarissimo fuoco, gli alcoolici che il padre di E., senza una piega in più nel volto tutto corrugato attorno al naso, trangugiava. In quanto ospite mi toccavano le porzioni più abbondanti; a cena pregai che l’onore mi fosse dispensato, ma la madre di E. scuotendo appena il capo procedeva al travaso. Era una donna piccola, senza collo e grassottella, senza la minima femminilità pur avendo bei lineamenti. I capelli dal taglio sgraziato e gli occhiali spessi, l’acuta parlata cantilenata, l’incedere goffo e dondolante me la rendevano sgradevole; il suo sguardo obliquo di occhi chiari mi braccava, mi pesava o ad ogni modo me ne dava l’impressione.

Se il cibo mi salvava è perché invece, nei momenti vuoti, mi ricadeva addosso la necessità di fronteggiare i miei pensieri; peggio però erano le visite. Zie mastodontiche, cugini giovani e vecchi, nonni, nonne, vicine si scambiavano battute a raffica, a giudicare dalle risate alle quali cercavo di adeguarmi senza avere l’aria da idiota – sapevano che non capivo, non potevo ridere a crepapelle; d’altronde non potevo restare impassibile: ne risultava un esercizio di immedesimazione frustrante, impossibile. Certo non li biasimavo: all’inizio ogni ospite interrogava E. su di me, mi faceva cenni di benvenuto; un’anziana minuta prozia, dai tratti finissimi quasi senza rughe e dagli occhi d’un azzurro porcellana, mi regalò persino una banconota – un “portafortuna”. Tuttavia il canale di comunicazione si seccava presto e, sui carboni ardenti per la sensazione di trovarmi fra extraterrestri in un asteroide lontano, caddi in contemplazione della massiccia porta in legno, animata da un continuo andarivieni: sarebbe apparso lo stregone, davanti a tutti? Era un parente di E.? Pensai anche di parlarne con suo padre che, benché laconico,  s’era dimostrato bendisposto a raccogliere le mie perplessità, ma non ne ebbi occasione.

Il fatto che a fine giornata lo stregone non si fosse presentato mi rincuorò; mi imposi di cancellare quel nomignolo e di decidere che le frasi erano frutto dei miei neuroni sovreccitati. Non posso sprecare il viaggio dietro a lui pensai, ma subito, mentre scendeva tra me e E. l’imbarazzo tipico fra due persone in confidenza, ma che dormono per le prime volte nella stessa stanza, mi accorsi che la realtà era diversa: i particolari di quei giorni si erano marcati in me più forti che mai. I dettagli, le catene di immagini, i suoni non erano più statici, ma mi adescavano come un’argilla che non potevo non plasmare, acquistando un senso e un allargamento – non sono pratico di questi aspetti, ma le mie impressioni erano entusiasmanti, per quanto irrequiete. Di certo quel fermento non era esclusivamente soggettivo; costruivo collegamenti e direzioni come un artigiano fa un mobile, il legno era lì e adatto al lavoro. Che l’uomo col mantello, con l’inquietudine che m’aveva messo addosso, stesse insomma rendendo migliore il mio viaggio? Ancora stanco per la traversata e imbottito di cibo, mi addormentai senza forze e senza una risposta.

Al mattino seguente partimmo presto, e appena saliti in auto chiesi di sedermi affianco al padre di E., che ci accompagnava in qualità di esperto, oltre che dei luoghi, delle strade accidentate. Parlò a lungo della storia del suo Paese, intrecciandola a fatti che avevano segnato la sua vita personale; parlava con tono solenne, coi piedi in tempi lontani e le mani nel presente, appena un ginocchio appoggiato all’epoca delle grandi battaglie. Il racconto epico piombava nell’auto direttamente da duemila anni fa, appeso al filo di storie tramandate oralmente. Gli scorci di paesaggio che attraversavamo rafforzavano il senso di contrasto e di spaesamento temporale: uscendo da piccoli chioschi, uomini anziani adagiavano verdure sulla polvere della strada, e l’onnipresente eroe col capretto sull’elmo, severo nel busto di marmo, le vegliava; gruppi di bunker divorati dall’edera impacciavano il lungolago mentre altri, rivoltati e dipinti, facevano da fioriere all’ingresso di palazzi sfarzosi, dalle proporzioni incoerenti; padroni dell’orizzonte extraurbano erano i cani randagi dalle costole sporgenti. Sorpassammo un grosso autobus Mercedes a fasce gialle e verdi, che avrebbero richiesto paesaggi caraibici più che quello Stato di fango e rocce – eppure così luminoso, come se tutto ribollisse…”Apri il caseto”

Ero tanto trascinato nel racconto che trasalii: “Scusi…cosa?”. E. m’indicò il portaoggetti del cruscotto, sospirando. Una pioggia di stellette di metallo mi cadde fra le dita.

“Sono per tutti i mesi che ho vinto il premio come miglior lavoratore…il più instancabile”.

“Co, complimenti”.

“Sì, così i miei figli sceglievano per primi il regalo, sai, alla festa di Natale del Partito”.

La strada era liscia, senza traffico, e la pianura che si apriva dopo il susseguirsi ininterrotto di monti era sterminata. Un vento costante piegava gli sparuti arbusti, l’erba gialla seccata dal sole, e d’improvviso riecco quel verso: ma è un uccello, che ha da lamentarsi?

“Una peligorgë”

“Cosa?”

“Peligorga, si chiama. È un uccello della pianura di qui”

“Della pianura? Quindi non posso averlo sentito da voi, a K.?”

Il padre di E. stirò la bocca e alzò le sopracciglia, e dopo poco alzò l’indice: “Eccola”.

Un fiume si faceva spazio fra due colline e dal fiume mille case bianche le risalivano: le finestre, alte fin quasi al soffitto, invadevano le pareti a cinque o sei per lato riflettendo il cielo blu e loro stesse, dall’altra sponda del fiume; i tetti erano lastre in pietra, rustiche, ma eleganti. Parcheggiata l’auto c’incamminammo all’istante, io e E. alle spalle di suo padre che saliva uno strettissimo vicolo di scale proteso in avanti, le mani dietro la schiena. Poche donne attraversavano le vie con ceste in mano, spesso in abiti neri col capo coperto da un foulard da contadine; ci fissavano con occhi spauriti, per salutarci in extremis con un cenno secco. Gli uomini stavano seduti sulle soglie di cortiletti ombreggiati da rampicanti, immancabilmente fumando sigarette una dopo l’altra. Tutti avevano un’aria afflitta, anche i giovani con vestiti e aggeggi ipermoderni ipercolorati così in contrasto con il luogo e gli abitanti anziani.

Anche a causa del caldo presto ci fermammo in un minuscolo bar che, stretto fra due case e sotto l’insegna dondolante, s’apriva in un interno profondo fino ad un cortile, da cui spirava una brezza fiacca. Io mi ritirai al bagno salendo una scala a chiocciola, e al ritorno guardai da una finestrella il panorama così insolito: il minareto e la moschea con qualche affresco, i salici che si affollavano al fiume, la corrente chiara e agitata, ma soprattutto le mute finestre. Ognuna rifletteva il tutto, quindi doveva riflettere anche me – chissà se c’ero nel panorama, e che aria avevo? Tornai da basso, ma finii in una sala scura che doveva essere la cucina: due donne anziane, una con un foulard rosso l’altra a capo scoperto, risero; entrambe avevano una sigaretta ai lati delle labbra avvizzite. Le mani nodose stendevano sfoglie sottilissime, e l’odore di tabacco si mescolò all’istante a quello dello sciroppo e delle noci. Parlai in italiano, ma immagino succedesse spesso che i clienti si perdessero, perché ancora prima che finissi la signora dal capo grigio m’indicò la direzione. Gettai un ultimo sguardo a quella scena che perdevo per sempre, e già era il ciottolìo di parole della sala da pranzo; il fumo stagnava anche lì, più denso e lungo per la luce che dal fondo lo infilava. Ero felice e oltrepassando il busto dell’eroe nazionale vidi i nostri rotolini ripieni sul tavolo, fumanti un forte odore di erbe. Mangiammo in silenzio; io ed E. ci sorridevamo di tanto in tanto, mentre suo padre alzava solo le sopracciglia e quando levai gli occhi dall’ultimo boccone era scomparso. E. mi sorrise un po’ amaro: “E’ già in auto, già ha pagato. Ha sempre fretta lui, dobbiamo vedere il castello”.

La strada per la rocca era deserta e dalla collina la cinta muraria ci venne incontro in un silenzio nebuloso; mi avvicinai e misi una mano sulla pietra, più di duemila anni di caparbietà. All’interno, iniziai subito a gironzolare ascoltando la polifonia del vento che fischiava e si ritraeva, tra la voce di due anziani seduti su una soglia e un belato regolare, lontano. Le tonalità si alternavano e, rapito dai bassorilievi lungo un portico a onda, scoprii la grande testa di Costantino, le tegole rosse del monastero e sotto il fiume tenue, i mille fanali delle finestre. Persi ogni sensazione del tempo; ogni salice piangente, ogni fiore arancione, sigaretta, donna, specchio di finestra e ciottolo mi chiamava, ed accompagnato dal crepuscolo sulle case bianche scendevo in una contemplazione ovattata, eppure ardente. Ma ero solo, lo capii quando il custode della piccola chiesa mi apostrofò in inglese – stiamo chiudendo. Alla mia destra il sentiero accidentato saliva ripidissimo, a sinistra scendeva più vertiginoso: decisi di scendere fra le pietre sconnesse, cercando di orientarmi con il panorama sotto i miei piedi. Dopo mezzora di batticuore, lo stupido cellulare scarico in mano, confluii nella spianata dell’ingresso. Stavo per tirare un sospiro di sollievo, quando nella piega buia del grande arco si aprirono due occhi bianchi. Il cuore mi ritornò in gola, ma stavolta no mi dissi e allungai la falcata. L’uomo in nero aveva appena terminato di lucidare le scarpe ad un turista e mi sorrise – brillarono due o tre denti d’oro. Mi sedetti sullo sgabello lasciato libero e cacciai gli occhi nei suoi.

“Prego”.

Allungai la scarpa scrutando i dettagli: le unghie delle mani lunghissime, il neo a lato della fronte, la pelle grinzosa e scura da indiano, la piccola bocca dura. Ormai eravamo avviluppati dall’ombra, attorno alla quale le mura chiare lanciavano bagliori rosso intenso: il sole tramontava sulla città bianca ed entravamo in un altro mondo.

“Avete pensato alle frasi?”

“Certo e ora mi deve spiegare…”

L’uomo cominciò a spazzolare come se col primo colpo spazzasse via la mia richiesta: “Spiegare, spiegare. Niente c’è da spiegare. Tutto è chiaro”.

“Forse per lei, provi a capirmi. Ho persino pensato di averla sognata, la prima volta…”

Egli scosse la testa, dedussi che il cenno fosse affermativo, ma attesi le parole.

“Sogno? Eh, potremmo anche dire così”.

“La sto sognando, ora?”

“Certo che no. Sentite la mia spazzola sulle scarpe? Le troverete pulite, posso garantire”.

“Che non faccio sogni da matto mi consola, ma allora resta da capire tutto. E io non posso capire le frasi, non so se siano indovinelli, proverbi…”

“Niente indovinelli, quelli sono per bambini. Diciamo che è saggezza, sì, ma è per voi”.

“Intende che è proprio per me? E come mai, io non la conoscevo?, ma prima di tutto, per favore: l’ho sognata, sulla nave? Il minareto all’alba, lei era lì?”

“Certo che c’ero. Prima non so se voi avete dormito o no, ma so che mi avete seguito. Che importa se nel sonno o no?”.

“Beh…ma come, come fate con le frasi? Insomma io non credo a, diciamo a”

“Alla stregoneria? Ecco terza e ultima frase”

Un’illuminazione precaria si era condensata su di noi e gli occhi dell’uomo nero rifulgevano fissandomi: una parola si srotolò, poi altre, ma lo stregone di schianto sprofondò nell’ombra – alle mie spalle comparve E., sfiancato: “Ti cerchiamo da un’ora, dov’eri?”

“Quell’uomo col mantello, di cui ti parlavo, è qui e”.

“Ok, ok, ma ora andiamo che mio padre è spazientito, è ora di tornare”.

“Scusa, mi sono fatto prendere dalla curiosità”.

“Non ti facevo così spirituale…”

“Cosa intendi?”

“Sì, ti sei fatto prendere dai luoghi, te li sei goduti”

“Però”, cercai con foga di ritornare al punto: “quell’uomo era qui, mi ha lucidato le scarpe e mi ha parlato”. E. si fermò, mi si avvicinò e dopo aver lanciato uno sguardo all’auto che faceva capolino da dietro l’arco, mi sussurrò: “Senti, ignora quel tizio e basta”.

“Ma tu lo conosci? Dimmi solo chi è”.

“Non è nessuno, è un fallito. Non importa, devi solo”

“Certo che importa”

“No!”, E. si sforzava di non alzare la voce: “Ti dico che è un povero idiota, ok?, non pensare a quello che ti dice e goditi il tuo viaggio”. Mi mollò lì e la sua rabbia inaspettata mi contagiò – avrei voluto mandarlo al diavolo, ma d’altronde non potevo che seguirlo.

La stretta che mi aveva preso, quando sulla cima della rocca avevo dovuto seguire E., non se ne andava. Mi sentii prigioniero su quei binari di cibo, parenti, comportamenti inderogabili; sbarre dorate, come aggiungere la beffa al danno mi dissi soffocando il malcontento in una sorsata di grappa, tenendo su a fatica l’ebete sorriso di prassi. Dopo aver cercato per buona parte della cena di interpretare i volti, i gesti degli ospiti, avevo lasciato perdere, mi dedicavo a ciò che era accaduto e soprattutto mi chiedevo: che motivo poteva avere E., così mite, per diventare tanto brusco? E perché al suo arrivo l’uomo col mantello era scappato? M’innervosivo sempre più, ma rigirando domande e pensieri vidi sulla credenza una foto scostata dalle altre: era voltata quasi di schiena e immersa nell’ombra. A casa di E. c’erano solo foto istituzionali, nozze e battesimi, mentre nella casa dov’eravamo ospiti avevo notato dal primo giorno immagini più spontanee, scherzi estivi fra bambini o ritratti vivaci di vecchissimi parenti. Senza pensarci oltre mi alzai, gettai un’occhiata alla foto e andai in cucina, dove la madre di E. muoveva mille braccia fra stoviglie e grosse teglie di carne: “Scusi…”

“Oh!, che paura! Che ci fai qui in cucina, tu?!”

“Le serve una mano?”

“Ma pensa, cosa succederà se ti lascio fare qualcosa qui? Ospite sei, e guarda lì invece!”

La fetta di dolce comparsa sul tavolo – come, quando?! – era il prezzo da pagare: “Grazie. Volevo solo, solo chiederle una cosa, se conosce l’uomo col mantello che il primo giorno era là, dico fra i parenti e amici…proprio la notte in cui siamo arrivati”.

La madre di E. appoggiò al tavolo la teglia che stava vigorosamente spazzolando. Mi dava le spalle, ma intuii gli occhi bassi, un sospiro: “Sì, sì che lo conosco. Perché mi chiedi?”

“Perché mi racconta frasi interessanti. Forse sono detti locali”

“Forse sì. Lui è una persona che ha studiato e che sa molte cose, ha viagiato molto”

“E’ un parente?”

“Lontano, lontano”.

“Ho visto una piccola foto, di là sul mobile. Voi avete, gli occhi…Non è suo fratello?”

La donna si voltò e mi lanciò un lungo sguardo indefinibile, tra l’addolorato e il furioso: cercai di sorriderle, lei chiuse di slancio la porta della cucina e mi si sedette di fronte: “Veloci, non posso dirti molto. Era mio fratello”

“Come ‘era’? E’ vivo!”

“Sì, ma lui è…strano, diciamo”.

Non capivo cosa intendesse, ma poi m’illuminò un lampo di evidenza: quell’uomo era pazzo!, e forse voleva coinvolgermi in qualche sua mitomania. “Ha problemi, mentali?”

“Io non so, non so niente di questo. Una disgrazia, ecco cos’è. So solo questo”.

“Ma si può, cioè: se ha qualche problema può essere curato…”

“Ha, noi abbiamo provato, lo abbiamo cocolato in casa per più di trenta anni, ma lui è sempre stato strano, ha sempre fatto discorsi non da normale e”

“Ma è davvero malato? Intendo, cosa, cosa”, non volevo giudicare come la famiglia avesse affrontato la cosa, ma dovevo andare a fondo: “E’ stato visitato da un medico?”

“Medico, medico, lì non serve il medico, è una malattia dell’anima!”

La fissai con intensità perché il punto centrale emergeva: pazzo o meno, quell’uomo aveva in sé qualcosa di eccezionale. “E cos’è successo? Perché non l’avete più tenuto con voi?”

Si strinse nelle spalle e si versò un generoso bicchiere di grappa: “Beh io mi sono sposata e mio marito non voleva altri in casa, e i miei genitori sono vecchi”.

Ero convinto che mi stesse mentendo su quel fatto, ma era una sensazione non spiegabile e c’era poco tempo: “Dove vive ora, suo fratello? E cosa fa, come si mantiene?”

“Non so niente più, perché lui, lui è quello che è:…un demonio!”

L’ultima parola fu stritolata dal cigolio della porta; lo sguardo di E. era severo quando si posò su sua madre, ma si fece più conciliante su di me. “Se ti va andiamo a dormire”

“Non ha finito il suo dolce”.

“Vedrai che non morirà”.

Dal giorno successivo il clima cambiò nella famiglia di E.: sua madre non alzò più neanche gli occhi su di me, suo padre era una guida sempre più incalzante e frettolosa e E. mi sommergeva di scherzi e confidenze – superficialmente potevo svagarmi, ma sotto macinavo senza sosta ipotesi e considerazioni. Ospiti di uno zio di terzo o quarto grado di E., da quella cittadina centrale potevamo spostarci con maggior agio e rientrare ogni sera; negli attraversamenti di montagne e cittadine in costante rovina, scoprivo sempre più la nuova attitudine che mi ritrovavo: sovvertivo ciò che vedevo, combinavo quello che sovvertivo. Nel ribollire penetravo nel mondo e di rimando ricevevo una potenza, un senso di riconoscimento mai provato; chissà di cosa avrei potuto accorgermi, di fronte al quadro vivente del vecchio nonno di E. dagli occhi neri col bambino in braccio! E l’abside tonda e rossa di V., tutta incoronata da un bianco abbaglio? E la bottega di quell’artigiano con gli anelli d’argento filigranati, le brocche color amaranto? In un circolo continuo i momenti, i volti colavano in me, si fondevano e dall’amalgama filtravo letture, direzioni. Con il mio ridicolo lessico rivolgevo la parola a tutti e a sera le ricostruzioni sull’uomo col mantello non mi lasciavano dormire, perché coinvolgevano la mia stessa personalità; arrivai a chiedermi se non stessi rivoluzionando tutto me stesso, e troppo.

Fu con sollievo ma con un penoso rimpianto che accolsi la mattina del penultimo giorno: presto il viaggio sarebbe stato passato, chissà se rivestito dalla patina epica e tragica che, in quel paese, avvolgeva tutto. Una prova di resistenza, però, mi aspettava in quella giornata di luglio: pianificando il viaggio insieme ad E., avevamo fatto in modo che coincidesse, negli ultimi giorni, con il matrimonio di sua cugina; intuivo sarebbe stata una maratona di balli, discorsi più o meno retorici e naturalmente cibo. Da tre giorni una schiera di donne stendeva sfoglie di pasta sottilissime su candidi lenzuoli, aperti in tutta la casa su divani e tavoli; riempite le enormi teglie, le consegnavano al fornaio della cittadina, per assicurarsi che il dolce venisse ben cotto. Infine, lo conservavano in un enorme frigorifero che, mi dissero, era comproprietà di tutta la famiglia. La preparazione non aveva sempre questi toni bucolici: il mattino precedente, preparandomi per l’ultimo viaggio, avevo lanciato un urlo quando, entrato al bagno, m’ero trovato faccia a faccia con quello che credevo fosse un cane scuoiato. Era un capretto, uno dei tanti che avrebbero gocciolato sangue nella vasca, appesi per le zampe posteriori allo spruzzino della doccia – potevamo lavarci nel bagno di sopra, mi disse senza scomporre lo sguardo la mamma di E.

Il fervore di preparativi finì per mettermi a disagio: io me ne andavo a zonzo per cappelle e musei abbandonati con gli uomini della famiglia, mentre le donne facevano il turno continuo in cucina. ” Domani”, mi disse la madre di E.: “ci sarà un po’ da fare anche per te…”. Il padre di E. rise in modo inquietante; m’immaginai una vertiginosa piramide di olive e un capretto mostruosamente grosso adagiati s’un vassoio da giganti.

Il fatidico giorno la solita fetta di dolce mi aspettava in cucina e tutti mi salutarono con emozione, ma le attività erano già frenetiche. Mi diedi subito da fare per aiutare ad allestire la grande sala della cerimonia; tutto veniva addobbato in modo piuttosto vistoso, ma quel giorno mi piaceva quell’eccesso. L’ebbrezza sprizzava dalle voci e dai colori, la madre della sposa non la smetteva di piangere tra un’indicazione e un saluto, ma anche il suo pianto era eccitato. Presto mi ritrovai a saltellare spostando tavoli e tendaggi, e mi sembrò tutto pronto incredibilmente in fretta, ma E. mi mostrò l’orologio: le due di pomeriggio, presto sarebbero arrivati gli sposi. La sala cominciò a riempirsi di giovani spavaldi e di ragazze abbastanza appariscenti perché mi perdessi a fissarne qualcuna. Arrivarono anche i parenti più anziani che non persero tempo e, sedutisi ai tavoli più centrali, iniziarono un’intensa sessione di commenti: “Parlano della sposa timida, loro dello sposo serio, intelligente…”, mi spiegò E. Chissà se è vero, ma oggi do fiducia: brindo alla sposa casta e allo sposo intelligente!

La cerimonia in comune s’era da poco conclusa – io ed E. ci eravamo sottratti con la scusa dell’allestimento: vidi quindi la sposa per la prima volta quando varcò la soglia. Coinvolto dalla gioia generale e liberato di ogni preoccupazione dai bicchieri di vino denso, restai strabiliato: la sposa apparve dal vuoto, semplicemente splendida nell’abito esagerato. Dalla pelle candida gli occhi rilucevano di un blu opaco, i capelli erano tanto scuri che avevano essi stessi riflessi blu; le labbra appena sorridevano. Era del tutto conscia di essere irresistibile; bianca e rosa e nera, le guance accaldate, gli occhi di luce, così giovane, mi passò accanto e mi baciò dopo che E. mi ebbe presentato. Non seppi far altro che stringere mollemente la mano al marito, ma continuai a guardarla. L’avrei voluta rapire lì, su due piedi, a rischio di venir trucidato dal clan dei parenti, non solo per la bellezza: c’era una piega oscura, indecifrata alla fine delle sue palpebre – la terza frase dell’uomo col mantello era stata mozzata, quindi più che una premonizione mi martellava un rebus: avevo trovato la mia chiave? Mi obbligai a tornare al concreto, perché nemmeno sapevo cosa fosse l’uomo in nero: un mitomane convinto di essere uno stregone? Un essere percettivo che in una società tradizionale aveva stonato come un insulto, un obbrobrio? La sua pazzia mi aveva contagiato? Di certo mi sentivo ancora in tensione: la giornata non aveva toccato il culmine con l’apparizione della sposa.

Mi accorsi che E. e sua madre, seduti alla mia destra e sinistra, si lanciavano occhiate e persino gesti appena abbassavo il capo. Attorno al rustico tavolo tondo saremmo stati in venti, e di fronte avevo il padre di E. che invece sorrideva pacificamente; d’improvviso però si alzò e andò incontro ad un cameriere vestito di nero. Subito sobbalzai: era lui! Pensai di essere in un sogno, lo stesso che risaliva da sotto il reale a ondate – nella traversata, all’arrivo, alla rocca e ora. I due uomini, reggendo uno il vassoio uno una forchetta, mi si avvicinavano incuranti dell’ira negli occhi di E., e mi deposero in faccia, sulla tavola, la portata: una testa di ovino, un montone?, del tutto integra. Saltai indietro, gli occhi dell’animale mi guardavano, temetti avrebbe parlato decretando finalmente la mia pazzia, ma il padre di E. mi mise una mano sulla spalla e con voce bassa dichiarò: “Parola di B. che sono io: qua c’è la soluzione per quelo che dicevi. Ascolta me: mangia l’ochio”, la mia espressione allarmata lo indusse ad accucciarsi: “Non aver paura se vuoi capire: sii uomo e mangia!”

“Può aiutarmi un occhio?! Non credo di volerlo mangiare…”, intanto guardavo dal basso l’uomo col mantello che faceva cenni distinti, manierosi, ai parenti convenuti.

“Il tuo problema è guardare, vuoi risolvere? Qui c’è il coragio per guardare!”.

Senza indugi infilzò con la forchetta splendente l’occhio destro della bestia, e già lo masticava. Ebbi un conato di vomito, ma l’ebrezza, l’attesa mi spingevano all’impresa e di più la promessa: avrei visto di più – il mistero dell’uomo in nero e il mio. Egli si avvicinò mentre B. si eclissò, mi fissò con gli occhi nei quali il bianco dilagava, e due punte di nero mi inchiodarono – di slancio addentai la forchetta che mi veniva allungata. Non masticai quasi e bevvi il sorso di raki dal bicchiere già pronto. Tutti applaudirono e le danze iniziarono. Sarebbero durate moltissimo, bastò che le degnassi di uno sguardo e l’uomo in nero era sparito – non mi stupii. Elton mi prese il braccio: “Non eri obbligato, anzi scusa soprattutto mio padre…non so perché si presti sempre alle bravate di mio zio…”

“Perché non mi hai detto che è tuo zio?”

“Guarda Cesare, non mi va di parlarne oggi”

“Neanche oggi…”

“Lo so, hai ragione. Ti prometto che quando saremo in Italia ti racconterò quello che vuoi. Qua non riesco, davvero”. Elton sorrise: “In Albania la memoria è impossibile”.

Non gli credetti nonostante la sua indubbia buonafede: al suo ritorno, qualche settimana dopo di me, la storia non si sarebbe più potuta riaprire. Quando era lontano l’Albania era improponibile con la sua antichità senza misura; impossibile pensarla da dentro di essa, da lontano sprofondava nelle nebbie del tempo, della polvere.

I balli s’infiammavano e l’orchestra era in estasi; non c’erano più musicisti e strumenti e persone che danzavano, ma un’unica catena che rimetteva in scena un tempo, un’identità imprendibile rendendola reale. Avevo le vertigini, ma quando la bella sposa venne verso di me tendendomi le mani ero già in piedi. Mi guidò nelle figure, nelle pose, in quel ballo rappresentazione di un mondo parallelo; mi misi a braccia aperte, un ginocchio a terra, e lei si sedette sull’altro. Il suo corpetto era pieno di banconote verdi, il suo sorriso di abbagli, gli occhi avevano insospettati riflessi di corvo. Agitando un tovagliolo teso mi stava incatenando alla sua bellezza, me la faceva respirare, finché apparve lui: “Volevi sapere chi sono: sono uno stregone se vuoi, sono un pazzo, o uno scienziato! E alora, che fai di me? Di te? Dei amici turbati che hai, dei pensieri in ombra? Della ve – ri – tà?!”

Non ci pensavo neanche a rispondere: mi tenevo stretta quella ragazza meravigliosa; lei mi guardava con una malizia che mi bruciava, del tutto consentita e del tutto vietata.

“E ora coragio, finisci il viaggio: prendi in mano i momenti e i colori, il corpo caldo del mondo, entra in lei”, aveva spalancato dietro Manjola il mantello e lo faceva ondeggiare – la piega d’ombra incombeva pericolosa e ardente su di noi. Piccole ali d’ombra si disegnavano sulle guance di Manjola: più vividi gli occhi e le labbra colore delle pesche, più neri del nero i capelli, non avrei dovuto far altro che sospingerla e saremmo caduti tutti e due in quella piega di mondo, nel mantello stregato ch’era la cosa che avevo cercato fin dall’inizio – forse non era la verità, ma una irresistibile possibilità: “Finché guardi il minareto e non lo storpio non l’avrai”. Manjola abbassava lo sguardo e poi lo alzava languida fra le onde del mantello, ma c’era anche lo stregone che lo possedeva, e i dubbi e l’angoscia: “Entra nella verità, falla tua, ma” – mi tratteneva la rottura della terza frase.

Fu un secondo a decidere tutto. I fondi colpi dei lodra, la dolcezza stanca degli zurla e le serpeggianti voci mi diedero la vertigine di essere su quel crinale nel mezzo dei Balcani, di qua e di là lo sterminato mondo. Lo stregone è scomparso, io e Manjola stretti abbiamo ai nostri piedi il mondo che canta polifonie di fiumi, di rocce dai movimenti impercettibili, di fruscii della basse sassifraghe. Alle sue spalle il mantello si piega ad angolo, la sua ombra è sempre più pericolosa e ardente e in un secondo qualcuno lo fa scoccare, tutto s’illumina e ricordo la seconda frase: “La peligorga canta che lo sconvolgimento è già stato”. Avanzo verso Manjola chiudendo le braccia dietro di lei, avvolgendo me e lei nell’ombra del mantello e nella vertigine senza ritorno.

Quando alzai il capo tutti ballavano come se non fosse successo nulla, molti uomini bevevano, molte donne parlavano, ma io avevo un calore nuovo per il corpo. Un brivido mi percorse mentre lei si allontanava per sempre e senza mantello – non poteva che essere in me. Lo stregone mi ha cacciato e trovato, o sono stato io? Mentre le armonie di voci si componevano e riannodavano e gli albanesi in giacca e cravatta facevano balli millenari, mentre la notte scendeva dura sulla terra della pietra, del fango e di qualche aquila, mi sentii per la prima volta cacciatore.