“Troppo tardi” # Racconto inedito di Giuseppe Truini
“Troppo tardi” è un racconto inedito di Giuseppe Truini.
E poi arriva il momento che è troppo tardi.
Sofia lo capisce quando il suono della sirena si arresta. Sono arrivati. Ma niente rimorsi, niente rimpianti. Solo la profonda convinzione che quello che ha fatto è assolutamente giusto. Neppure prova a rimettere ordine nella sala insegnanti, anzi, si gusta i fogli sparpagliati a terra, il computer che funziona un giorno no e un giorno male ridotto in mille pezzi, i cassetti rovesciati al centro della stanza
“Quando ci vuole ci vuole” si dice a mezza bocca. “E se quod est necessarium allora è licitum, che vengano. Li aspetto qua”.
Ma non è una minaccia, e nemmeno una promessa. È semplicemente l’anticipazione di ciò che farà da lì a due minuti. E infatti prende una sedia, la rialza, la pone al centro della stanza, si siede e chiude gli occhi.
C’è chi dice che in punto di morte la vita ci passi davanti come un film, con tanto di colonna sonora, locandina e titoli di coda. Anche a Sofia Scuolabuona avviene la stessa cosa. Solo che per fortuna lei non è in punto di morte, anzi. È giusto un po’ sudata a causa dello sforzo di mandare all’aria la sua scuola.
Ma cosa vede, allora, quando chiude gli occhi? All’inizio immagini confuse, poi appare il padre in un ricordo di tanto tempo prima. Le porgeva un mazzo di fiori stupendi e profumati: delle rose, dei girasoli, delle spighe di grano, e rideva, rideva come mai l’aveva visto nella sua vita.
“Che bello!” urlava in mezzo a tutti di fronte all’ingresso della facoltà “mia figlia s’è laureata! Si è laureata! E con centodieci e lode!” Mentre, Sofia, dopo aver discusso una tesi sul pianto eroico nelle tragedie greche, si poneva solo una domanda: “E ora? Ora che faccio?”
Poi lesse il suo nome scritto a caratteri dorati sul diploma di laurea: Dottoressa Sofia Scuolabuona. A quel punto capì: nomina sunt omina, c’è poco da fare, e decise così che cosa avrebbe fatto del resto della sua vita: la professoressa.
Anche perché le piaceva quella parola, le piaceva che fosse così lunga, e fosse così tanto più elegante di avvocatessa, giudichessa e addirittura di quell’orribile e cacofonico sindachessa. Già, professoressa, pronunciato da lei, somigliava così tanto a contessa che si emozionava soltanto ad avvicinare il titolo al suo nome.
Qualcuno bussa.
“Signorina, possiamo entrare?”
La voce è sottomessa e raccolta. Come quella di chi non osa.
“Che strano tono, preside Scartafascio” risponde prontamente Sofia irritata a causa delle fine della visione.
“Co-co-come mai?” balbetta il dirigente.
Non gli risponde niente. Vorrebbe ricordargli le parole del giorno precedente, così imperiose e arroganti – “Professoressa! Ho deciso così! Ne discuteremo di nuovo quando avrà facoltà di parola”, con una faccetta birichina che sottintendeva un “cioè mai” gigante come una casa – ma decide di ignorarlo.
Resta in silenzio, Sofia, anzi, fa finta che il preside non stia oltre quella porta, che oltre quella porta non ci sia nessuno, neppure il mondo. Solo richiude gli occhi e si concentra. Erano così belli, quei ricordi.
La seconda cosa che vede non è il primo giorno di scuola, e nemmeno il secondo. Anzi, tutti i primi anni d’insegnamento le sono sembrati un’eterna ghirlanda così brillante da non riuscire a distinguerne uno dall’altro. Tutti uguali. Tutti belli. Preparare le lezioni, studiare, approfondire, parlare con gli studenti, anche correggere i compiti: quando li vedeva preparati si sentiva come il Catone di Dante, che custodisce il Purgatorio ed indirizza verso il Paradiso. Della scuola tutto le piaceva, e si disinteressava del resto, della politica, delle elezioni, dei governi, dei ministri. Fin quando non ne è arrivato uno dalla Sardegna. Sofia ricorda la mattina in cui entrò in sala insegnanti e un collega le aveva detto: “Hai visto? Cambiano tutto, vogliono rovinare la scuola.” Sofia diede un’occhiata a quei provvedimenti. “Che disastro!” pensò, “niente più medie, niente più liceo: solo aree di indirizzo, neutre, inumane, senza storia”. E poi il finanziamento alle private, e nessuna parola sull’abbandono scolastico. “Anzi, lo favorisce!” aveva detto un collega durante un cambio d’ora. Manifestò, Sofia, scese in piazza, gridò anche qualche slogan contro il governo, ma a bassa voce, perché lei era timida, e considerava tutto quello strillare poco adatto alla sua personalità.
“La riforma è passata: è legge”, disse un giorno il Preside che ancora era Preside e non Dirigente Scolastico, “aggiornatevi.”
Che brutto l’imperativo, lascia così poco spazio all’immaginazione. Però Sofia era ligia, e cominciò a partecipare a decine di corsi sul nuovo ordinamento e sui nuovi orientamenti. Era diventata espertissima, tanto che ad un certo punto andava lei in mezza Italia a parlare della riforma, e ogni volta che si presentava si sentiva quasi in colpa per averne detto peste e corna qualche settimana prima.
Qualcuno prova ad aprire la porta.
“Chiusa!” grida lei annoiata.
“Ma come, Sofia! Ti sei ammattita? Apri, per favore!”
La Becchini, la collega di religione. “Quella che si crede la reincarnazione di Salomone” pensa Sofia, “mette bocca su tutto e comincia ogni frase con «in verità vi dico»”.
“No” risponde secca Sofia. E richiude gli occhi. Ormai è brava: in un attimo è risucchiata da un’altra visione.
Sempre in sala insegnanti, sempre di mattina, sempre prima dell’inizio delle lezioni. C’era Pernacchia, di filosofia e storia. Era il collega polemico: portava il giornale, lo abbandonava da qualche parte e aspettava che qualcuno lo sfogliasse per?”. Anche lì ancora in piazza, ancora a manifestare, ancora inutilmente. E dopo qualche mese il preside, che nel frattempo era diventato Dirigente Scolastico obbligava lei, come tutti, alla formazione. “Competenza è la parola chiave!” dicevano i formatori e “Competenza sia!” rispondeva Sofia, “Computer è la parola chiave!” e “Computer sia!”, “Imprenditorialità è la parola chiave!” e no. Stavolta no. Era troppo brutta, imprenditorialità, come parola, non era d’accordo. Ma al resto sì. E quindi Sofia passava buona parte dei suoi pomeriggi non più a preparare le lezioni, non più a rileggersi i classici e a spulciare in libreria le novità più interessanti. No: ore ed ore in aula informatica, spesso fredda, di sicuro grigia, davanti a un computer che funzionava poco, senza internet e soprattutto a fare cose inutili. “Sì” pensava Sofia. “Inutile è la quarta i della riforma, quella che si sono scordati.”
Tum, Tutum, Tututum. Qualcuno batte alla porta.
“Signorina Scuolabuona, sono il brigadiere Freccia, ci può aprire, per favore?”
“Mi chiami professoressa. Ci tengo anch’io ai titoli, sa?” risponde Sofia. “In ogni caso: no.”
E richiude gli occhi, per abbandonarsi ad un altro ricordo. Più in fretta, però, che il tempo sta per terminare.
Sempre in aula insegnanti, stavolta all’uscita. Un collega precario, di quelli che a scuola ci entrano verso metà settembre per uscirne a fine giugno con una pacca sulla spalla di colleghi e studenti blaterava con dei fogli in mano.
“Quest’altro ministro vuole distruggere la scuola! Alle elementari il maestro unico! Duecentomila tagli agli organici! À la guerre comme à la guerre!”
Ma Sofia al precario non credeva. I precari, per esperienza, erano sempre arrabbiati e guardavano gli insegnanti di ruolo come se fosse colpa loro il fatto che venivano licenziati dai governi che preferivano tenerli lì, come ruote di scorta.
“Ancora le 3 i?” rispondeva sarcastica Sofia, prima di essere obbligata a seguire altri corsi. Stavolta sulla Lim, la lavagna interattiva multimediale, che basta la parola a proiettare la scuola nell’avvenire, e a leggere saggi sui ragazzi che, poveri, da somari erano diventati di colpo dislessici, disgrafici e disgraziati. “Sì”, provava a dire, “ma lo stare in classe non conta più?” “E come non conta? Perché, pensi di no?” rispondeva la Spedia, la collega di italiano dinamica e scattante, pronta ad assemblare moduli e unità d’apprendimento come se non ci fosse un domani. “Perdonami, Sofia, è che tu hai smesso di crederci, nell’insegnamento, sei stanca” le diceva. “Sei vecchia” sottintendeva. Ma Sofia non si dava per vinta: il cooperative learning divenne il suo pane quotidiano, le funzioni strumentali il suo companatico. I learning object, la fad e le mappe concettuali dolce, caffè e ammazzacaffè. Però, ogni tanto, tra mille cose si affacciava un pensiero che il suo nuovo Io fatto di competenze non riusciva a respingere: “E la metafora? Come gli spiego la metafora? Come gli spiego che ci sono cose inafferrabili, evanescenti, che non generano capacità, che non si risolvono in abilità? Cose che superano l’idea di conoscenza? Come gli faccio capire che ci sono cose belle e basta? Ecco: la bellezza, come gliela spiego?”
Ma aveva paura di parlarne con chiunque. “E se poi lo dicono al Dirigente Scolastico, che ho questi dubbi?”
La porta cede, irrompono nella stanza. Il preside inizia ad urlare, la Becchini a starnazzargli intorno. Sofia è ancora seduta, come niente fosse. Richiude gli occhi, stavolta il ricordo è vicino, arriva subito. La stessa mattina era arrivata a scuola per il collegio docenti.
“Guarda prof, le nuove linee guida per la scuola si chiamano come te” le aveva detto la Becchini.
Lei si era avvicinata incuriosita. La scuola buona, facciamo crescere il paese aveva letto. “Interessante”. Però poi aveva letto che parlava di formazione – “Wow, originale” – sistema di crediti – “E cosa sono una carta Conad?” – che cade solo sul sessantasei percento degli insegnanti – “Sì, e magari si decide durante la tombolata di Natale.”
Pian piano la professoressa Sofia Scuolabuona aveva sentito una strana sensazione scatenarsi intorno alle vertebre lombari. Pian piano quella sensazione si era diffusa, allargata a tutta la schiena fino alla testa, alle gambe e alle braccia.
“Rabbia” aveva pensato. “Questa è rabbia.”
Perché a un certo punto, più o meno a pagina settantaquattro, su quel documento c’era scritto “Abbiamo investito in tecnologie troppo pesanti, come le LIM, che hanno da una parte ipotecato l’uso delle risorse, dall’altra ingombrato le nostre classi, spaventando alcuni docenti”.
“Ipotecato risorse, Ingombrato le classi. Ma come” pensò Sofia, “sono venti anni che passo i miei pomeriggi a sentire gente che mi spiega come devo lavorare senza che lei sia mai entrata in una classe in vita sua, sono vent’anni che mi aggiorno, che leggo riviste specializzate e mi confronto con i colleghi. Sono vent’anni che mi prendo cura dei miei ragazzi, che li alleno alla vita, che mi preoccupo di insegnargli a costruire il futuro nonostante le vostre decisioni. Sono vent’anni che difendo la scuola contro chi la maltratta, che difendo lo Stato e le sue istituzioni nonostante tutto. Io sono cinque lustri che mi formo. Ogni giorni, dentro e fuori la scuola. Tecnologie pesanti, spaventato docenti. E ora mi dite che le cose che ho fatto sono state inutili.”
Dal pensiero all’azione è un attimo. Il primo foglio strappato è liberatorio. Il secondo di più. Il registro che vola dall’altra parte della stanza è un gesto di vendetta contro ogni cosa a cui lei è stata costretta. Ma non perché fosse inutile, di cose inutili ne facciamo tante. È che gliel’hanno detto dopo. Prima, la professoressa Sofia Scuolabuona era stata solo illusa.
“Professoré” gli chiede uno dei carabinieri suo ex allievo, “ma perché l’ha fatto?”
“Caro mio, perché mi hanno fatto perdere tempo. E nella vita, soprattutto se la dedichi ad un’idea più alta di te, ogni secondo è prezioso.”