“Tropici”, un racconto di Paulina Mikol Spiechowicz
“Tropici” è un racconto di Paulina Mikol Spiechowicz.
Mi svegliai di soprassalto. La polizia aveva forzato la porta e stava entrando nella stanza d’hotel. Mi presero senza darmi la possibilità di vestirmi. Assonnato, mi ritrovai con le manette in un furgone militare tailandese. La stagione dei monsoni era arrivata il giorno prima del mio arresto. Il caldo aveva raggiunto il culmine estremo dei quaranta gradi. Aveva seguito una pioggia spessa, contenuta in un acquazzone ch’era sceso abbondante, senza più fermarsi. Da allora l’aria si era rinfrescata e l’umidità aveva preso il sopravvento sulla penisola.
Mentre il furgone mi conduceva in un luogo a me ignoto, potevo scorgere dall’unica apertura a grate del veicolo la foresta tropicale che si adattava alla nuova stagione. Scorrevano le palme da cocco (cocos nucifera, palma dioica della famiglia delle arecaceae, sottofamiglia cocoidea), le liane e alcune piante latifoglie di diverse specie. La vegetazione cresceva mentre la luce si stendeva opaca come carta di riso sulle mie palpebre. Le branche degli alberi germogliavano a vista d’occhio e si estendevano, centimetro dopo centimetro, per alzarsi verso la prima luce del nuovo giorno. Luce cristallina, coperta dalla pioggia perlacea.
Era l’alba, quando arrivai al penitenziario. L’edificio, grigio, rettangolare, dall’intonaco screpolato, aveva quattro torri agli angoli, controllate ognuna da due militari con una carabina a testa. Mi fecero indossare una divisa e mi chiusero solo dentro una cella. Passarono un giorno ed una notte. Il tempo sembrò diventare terso e diluirsi assieme al monsone. Quando ormai la mia vista si era adattata al grigiore delle pareti ed aveva perso la sensibilità delle sfumature, mi vennero a prendere per redigere un primo processo verbale.
Entrai in una stanza, monotona e quadra. Vi trovai un uomo in tenuta militare seduto ad un tavolo. Parlava uno scarso inglese di stampo labiale, tipico della pronuncia asiatica. L’interrogatorio verteva sulla sera precedente la mia incarcerazione. Dissi che mi trovavo nella mia camera di hotel. Ero solo. Non avevo testimoni. Divagavo.
Ero partito da più di un mese per stabilirmi a Bangkok. L’agenzia stampa per la quale lavoravo mi aveva inviato lì per seguire l’evoluzione del colpo di stato guidato dal capo delle forze armate, Sonthi Boonyarataglin, appoggiato dal re Bhumibol Adulyadeji. Quando ero arrivato, agli inizi di settembre, la città era sotto assedio. C’erano carri armati ad ogni angolo della strada e uomini in divisa che circolavano per le immense arterie della città. Dopo il golpe, la situazione si era ristabilita velocemente, senza nessun atto di violenza. Avevo quindi deciso di allontanarmi per qualche tempo dalla città per scrivere la mia inchiesta sulla dittatura militare, ed ero partito verso un villaggio di pescatori, Koh Panyee.
M’interruppero nuovamente. Non mi diedero nessuna spiegazione sulle ragioni della mia detenzione. Tornai nella mia cella. Ero solo. Oltre a un lavandino c’era una coperta, dove mi stesi cercando di dormire. Non sapevo più che ore fossero. Fu quando vennero a prendermi per il secondo interrogatorio che cominciai ad avere i primi sintomi di una forte influenza. Avevo iniziato a sudare freddo.
Arrivato nella stanza, sedetti dinanzi al militare della volta precedente. Mi mostrò la foto di una donna tailandese. Si trattava di Amyra Jaa. Quando l’avevo conosciuta mi aveva detto che “Amyra” significava “eclissi solare”. Avevo pensato fosse una prostituta. Si vestiva di calzoncini cortissimi e indossava maglie che lasciavano scorgere l’ombelico e piccoli seni duri. Avevamo fatto l’amore più volte, ma lei non aveva mai voluto prendere i soldi che le lasciavo.
La sera prima del mio arresto non avevo visto Amyra al bar. al bar. Erano più di due settimane che non sapevo dove fosse. Il militare s’innervosì bruscamente e si alzò di scatto facendo ribaltare il tavolo, che urtò uno dei miei ginocchi. Sentivo nel frattempo che mi stava montando la febbre. Mi riportarono in cella. Tremavo.
Per giorni rimasi immobile, sdraiato per terra con la sola coperta addosso, sudando freddo. Ero in stato confusionale. Lentamente mi si stava annebbiando la testa e al grigiore della cella si andava sovrapponendo il torpore del mio sguardo, sempre più miope e stordito.
Mi mandarono un dottore. Dopo aver sentito il polso, guardato la lingua e ascoltato i bronchi, disse che si trattava di malaria. Mi dette una compressa da ingoiare il giorno stesso.
Il mio processo era stato fissato a un mese dopo. Trascorsi giorni, settimane visionarie. Le ombre si mescolavano alla luce, dando forma a strani e incontrollabili barbagli di colore. Dominavano il bianco e le sfumature dell’avorio.
Poco prima di essere arrestato avevo scoperto che Amyra era la figlia di uno dei generali del golpe. Al porto mi avevano detto che era scappata di casa. Aveva solamente sedici anni. A me aveva detto di averne venti. Mi avevano mostrato un comunicato con una sua foto dove si prometteva una ricompensa di cinquecentomila baht alla persona che l’avesse ritrovata. Le avevo posto delle domande a proposito, ma lei aveva negato. Poi era scomparsa.
L’indomani, quando avevo chiamato l’agenzia stampa per comunicargli il mio ultimo articolo sulla dittatura tailandese, mi era sembrato di percepire una terza persona intromettersi nella linea telefonica. Attaccai il telefono velocemente e scelsi che avrei fatto passare la notizia altrimenti.
Avevo preso la decisione di tornare a Bankgog dopo una settimana che non vedevo più Amyra. Avevo raccolto materiale importante sulla dittatura militare ma avevo ancora bisogno di qualche ulteriore testimonianza prima di inviare il tutto all’agenzia stampa. Contemporaneamente ero stato contattato dalle Nazioni Unite, che mi chiedevano un resoconto dettagliato della situazione politica.
All’alba presi un traghetto che mi riportò sulla terra ferma, poi un autobus. In tutto il viaggio durò quasi cinque ore. Più volte mi era parso che una moto ci seguisse. L’avevo osservata, senza farmi accorgere. Per qualche tempo poi non l’avevo più vista. Allora mi ero assopito. Al mio risveglio la borsa di cuoio nera che portavo con me, contenente la documentazione della mia inchiesta, era sparita assieme al mio passaporto. Cercai di parlare con l’autista, spiegandogli che mi avevano derubato, inutilmente.
A Bankgog trascorsi parte delle mie giornate in una camera di hotel cercando di ricostruire il materiale perduto. Il resto del tempo girovagavo per la città per avere delle notizie di Amyra. Mi avevano detto che a sua volta era partita per la capitale.
Dopo qualche giorno dalla sua scomparsa ero riuscito a contattare una persona che la conosceva. Avevo pagato una somma importante per incontrarla. Necessitavo però di un interprete: la donna in questione, un’anziana governante al servizio del generale, parlava solamente thailandese. La concordanza degli avvenimenti mi aveva fatto agire in modo frettoloso e non ero riuscito a trovare nessuno di fiducia che avrebbe potuto tradurmi l’intervista. Non riuscii a scoprire nulla su Amyra, tranne ch’era andata via di casa dopo un violento litigio per una storia con un narcotrafficante. Volli sapere di più, ma la governante esitava. Mi parlò del Bolivia e del Venezuela. Mi venne il sospetto che anche l’interprete fosse una spia.
Una sera, il telefono squillò. Era Amyra. Le chiesi dove fosse. Non volle rispondermi. Disse che dovevo andarmene al più presto. Poi qualcuno le fece riattaccare bruscamente la cornetta del telefono. Rimasi un istante inerme, guardando la vecchia moquette impolverata della mia stanza d’hotel, la finestra che dava sui grattacieli svettanti, singolari mostri moderni della solitudine. Iniziai a raccogliere le mie cose e decisi che sarei partito l’indomani.
A notte inoltrata arrivò la polizia a prendermi.
Dopo un mese trascorso nella cella traspirante il monsone dovetti presentarmi in un’aula fredda e umida per l’udienza. A stento riuscivo a tenermi in piedi. Il mio avvocato, un certo Chaiyo Yeo, mi guardava di tanto in tanto con aria disinteressata. Sentivo le palpebre degli occhi diventarmi sempre più pesanti. Ogni volta che mi addormentavo il militare addetto alla mia guardia mi dava un forte scossone che mi faceva nuovamente aprire gli occhi. Mi porsero innumerevoli domande. Erano convinti che fossi colombiano. Cercai invece di spiegarli che ero spagnolo. Dicevano poi che avevo un figlio. Smentii Cercai nuovamente. di smentire. Fu poi questione di droga. Qualcuno aveva fatto recapitare nella mia camera delle tonnellate di roba il giorno stesso del mio arresto. Finalmente mi condannarono all’ergastolo per traffico internazionale di cocaina.
Mi presero di forza. Fuori pioveva sempre. Il penitenziario si trovava su di un’isola che sembrava una scatola di cartone marcia, sempre più gravida di acqua. Nella mia cella, sdraiato a terra, guardavo il vuoto plumbeo del soffitto. Stavo perdendo le ultime forze che mi erano rimaste.
Dormii per un tempo indefinito. In maniera consecutiva e bulimica. Dopo qualche settimana le medicine dovettero iniziare a fare effetto, poiché iniziai a riacquisire lentamente conoscenza. Il monsone era terminato. Dalla mia cella vedevo nuovamente il caldo ispessirsi e impossessarsi della vegetazione, il sentimento dell’aria diventare denso.
Per passare il tempo chiesi alla guardia se poteva procurarmi carta e penna. Iniziai a scrivere. Cercai di stabilire con esattezza i fatti, ricostruendo il complotto che mi vedeva incarcerato ormai da mesi.
Scrissi giorno e notte. In poco tempo ne venne fuori un racconto fitto denso dove descrivevo le vicende che mi avevano condotto a essere condannato all’ergastolo.
Poi una notte ci fu una brusca esplosione. Entrarono a quattro nella mia cella. Mi misero velocemente un cappuccio nero in testa e mi portarono via con loro. Mi fecero salire sopra un furgone, e successivamente su di un gommone che partì in fretta. Solamente allora mi tolsero il cappuccio.
Mi ritrovai in mare aperto con quattro colombiani. Mi guardarono storditi. Iniziarono a scambiarsi frasi di stupore tra di loro. Il tono della discussione si fece violento. Mi chiesero come mi chiamassi. José, dissi. José Maria Del Carmelo. Mi rimisero il cappuccio in testa e qualcuno mi colpì violentemente alla nuca, facendomi svenire.
Da allora nella mia memoria si sono accatastate immagini mutevoli, irrazionali.
Dovettero buttarmi in mare quando ormai eravamo vicini alla costa.
L’acqua mi entrava nei polmoni a fiotti e riuscivo a stento a respirare. Quando finalmente toccai il fondo, mi lasciai lentamente andare fino al bordo, perdendo gradualmente conoscenza, ritrovandomi su di una spiaggia sconosciuta ormai senza alcuna possibilità di muovermi. Mi svegliai con il sole che mi batteva forte contro il volto e con il capo che pulsava prepotentemente. Mi guardai attorno. Era mezzogiorno. La spiaggia era deserta. In lontananza, qualche yacht stazionava in mare aperto. Il manoscritto era prodigiosamente accanto a me e, benché le pagine fossero un poco consumate, era ancora leggibile. Cercai di alzarmi, inutilmente. Rimasi sdraiato a osservar le palme, l’orizzonte stendersi sereno e perdersi nel fitto blu tropicale.