“Santo Genet”: l'evento teatrale della Compagnia della Fortezza firmato da Armando Punzo

“Santo Genet”: l’evento teatrale della Compagnia della Fortezza firmato da Armando Punzo

“Santo Genet” è l’evento teatrale prodotto dalla Compagnia della Fortezza per l’anno 2014, con drammaturgia e regia di Armando Punzo, presentato per la prima volta al pubblico nel luglio scorso in occasione del Festival VolterraTeatro.

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Sabato, 8 novembre, ore 20:45 circa: si apre la stagione della prosa al Teatro Verdi di Pisa.
Un’atmosfera onirica e di magia sta avvolgendo e catturando gli spettatori prima ancora che la rappresentazione abbia inizio, prima ancora che sia possibile capire di cosa si tratti, cosa di lì a breve accadrà.
Le vetrate della porta d’accesso all’altra metà del foyer sono ancora chiuse al passaggio del pubblico, tuttavia è possibile intravedere statue variopinte, un trono ‘mariano’, marinai e filibustieri in circolazione.
In questo, d’altra parte, era consistita la poetica di Jean Genet: un universo di guappi, uomini di mare, scaricatori di porto rozzi e volgari sublimato ed eternato in un linguaggio forte e potente, non tanto nei significanti quanto nel suo significato. Le azioni di questi uomini avevano ottenuto da Genet la loro santificazione in quanto prodotti di pulsioni antisociali. Per lui, nelle virtù virili degli uomini violenti si realizzava una forma di perfezione. Perfezione che risiedeva in un’anima ‘vera’, considerata ‘impresentabile’ al cospetto della società.
Ed ecco che dall’altra parte del foyer, anticamera al palcoscenico e all’evento, si sta per rendere presentabile ‘l’impresentabile’.
Le vetrate si aprono, e le hostess chiedono che venga loro esibito il biglietto. Dietro di me, una ragazzina di nove o dieci anni esclama entusiasta: «Mamma, guarda! Ma quello è un attore!» «Oh, lo conosco. Lui e gli altri. Li conosco dal carcere».
I detenuti-attori di Armando Punzo ci si porgono dinnanzi man mano che facciamo ingresso nell’altra metà del foyer, ci ripetono spezzoni delle loro parti guardandoci negli occhi, ci vengono incontro in tutta la loro schiettezza e ‘verità’. Da questo momento non sono più attori. Sono personaggi. Sono ‘i personaggi’ di Genet risorti a nuova vita, riemersi dall’oscurità, per noi, in questa serata che già si prospetta magica.
Il pubblico, gradualmente, entra in platea tra due colonne di marinai che ci accolgono con movimenti sincroni fissandosi di tanto in tanto in inquadrature neutre di fermo immagine, e dentro il teatro, avvolto da una tenue luce azzurra e da un’atmosfera fatta di fumi soffusi, ai piedi del palcoscenico, troviamo ‘lui’. ‘Lui’ o meglio ‘lei’, non più Armando Punzo ma Irma, la tenutaria del “bordello meno elegante che si conosca”, ad accoglierci con il suo sorriso, avvincendo e dirigendo su di sé lo sguardo degli spettatori con il movimento di un ventaglio nero che ci saluta come fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. Lei, figura ambigua tra un illusionista e un elegante ruffiano, teatro popolato al completo, su una musica lenta e struggente, carezzevolmente seducente eppure a tratti nostalgica e malinconica, ad accompagnarci in una dimensione di estrema bellezza decadente, sarà coordinatrice dei personaggi che interagiranno con noi più che tra loro stessi.
Dopo che un giapponese ha cosparso di unguento profumato i corridoi tra i sedili della platea a bordo dei suoi sandali di legno, il rito può dirsi in procinto d’iniziare.

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«Possiamo considerare questo luogo come la nostra anima».
Visitare le stanze e i salotti di Irma sarà dunque come visitare la propria anima e le proprie pulsioni.
Il palcoscenico, la stanza più importante, contiene le cose più segrete, che tutti abbiamo, ma che non tutti sono in grado di guardare in faccia.
«Per arrivare a questo luogo bisogna aver vissuto a lungo in esilio».

Dall’alto scendono specchi e lampadari portatori di luce, mentre sul palcoscenico sempre più nitidamente è possibile distinguere colonne, tombe, elementi marmorei tipicamente cimiteriali e due figure mariane: una vestita di bianco e velo scuro che rimarrà muta per il resto del tempo di rappresentazione, un’altra vestita di azzurro con velo bianco che però farà ingresso più tardi.
Si succedono parate, di delicate ruffiane dalla voce suadente e dai movimenti languidi e moderatamente melliflui, di angeli dalle ali dorate e dalle tuniche nere, di aspetto efebico, di giovani marinai. Tutto ciò, però, non ha niente di semplicemente esornativo; la gioia degli occhi aiuta l’immedesimazione, ma non è solo di questo che si tratta.
Uno dei temi del “Santo Genet” è, infatti, la ‘bellezza’. La ‘bellezza’ in quanto proiezione della bruttezza. E nella realizzazione dell’intento di questa proiezione, quindi, non esistono fronzoli né ornamenti che siano superflui o che tentino di raccontare qualcosa di più del dovuto.

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È la parata della seduzione, attorno alla quale si costruisce un altro motivo, che è la grande metafora portata in scena in questo evento: la ‘verità’ del ‘fare teatro’ secondo la Compagnia della Fortezza. Una ‘verità’ secondo la quale il teatro è la macchina che serve per uccidere il proprio se stesso quotidiano e sospendere il proprio tempo ordinario. È il procedimento necessario a svuotarsi di ogni forma di autoreferenzialità e primadonnaggine. Con una precisazione, però: non si tratta di una via di fuga. Serve a cercare e trovare altri aspetti di sé. È questa la sfida.

«La morte non segue la caduta, ma precede la nostra apparizione sul filo».

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D’altra parte, è ciò che viene suggerito dalla presenza concreta, materiale, di tutti gli specchi: morire a se stessi riflettendosi, restando presenti al fatto che è impossibile uscire del tutto da sé.

Guappi e filibustieri ci parlano ora da sopra, ora da sotto il sipario; inizialmente pare che ci insultino, mentre la luce dei fanali alle due estremità del loggione punta agli spettatori permettendo loro di non sentirsi in una dimensione astratta, ma di rimanere presenti a se stessi, in una funzione secondo me coadiuvante a quella degli specchi.

È, così, necessario guardare e guardarsi: qualcuno resterà incredulo, «…ma è un male minore che ci sia chi non ci crede, piuttosto che privare del beneficio dovuto coloro che ci credono».
L’esperienza di questa proiezione della propria anima, composta, per sua natura, di vizi che Genet non condanna ma anzi santifica, risulterà un qualcosa che ogni spettatore farà in autonomia ma al tempo stesso in collettività. In questo, quindi, ci si sentirà parte di un tutto, ci si scoprirà in altri aspetti del nostro essere, aspetti veri.
Il momento del walzer dei personaggi di Genet con il pubblico segna e realizza una richiesta di reazione e interazione, un do ut des in cui non c’è chi dà di più e chi dà di meno, perché lo spettatore potrà avere l’occasione di scrollarsi di ogni ipocrisia e della consueta ‘maschera quotidiana’ per scoprirsi in comunione col mondo.
«Quando tornerete a casa, vedrete che tutto è più falso di ciò che avete visto qui».

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Questo evento teatrale si conclude con un ultimo gesto rituale: a dieci minuti dalla fine, due angeli in tunica nera e ali dorate si dividono le due metà della platea consegnando un fiore a chi, tra il pubblico, deciderà di raccoglierlo. Quel fiore, al termine della rappresentazione, sarà lanciato dallo spettatore sul sipario, dove saranno rimasti, immobilizzati in un’ultima immagine di congedo, i personaggi di Genet fino a quel momento risorti. Il lancio del fiore può significare un semplice gesto di gradimento dello spettacolo, oppure il saluto che si fa ad una salma poco prima della sua sepoltura, oppure, credo, il sigillo dell’avvenuta compiutezza del do ut des congenito al mondo del teatro. Il Teatro offre una catarsi, lo spettatore gli risponde con la gratitudine, la sua più profonda riconoscenza.

«Grazie».

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Ringrazio inoltre la Fondazione Teatro Verdi di Pisa per la gentile concessione della fotografia che compare in qualità di immagine in evidenza

Santo Genet

evento teatrale ispirato all’opera di Jean Genet

una produzione Compagnia della Fortezza

drammaturgia e regia Armando Punzo

scene Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo

costumi Emanuela Dall’Aglio

musiche originali e sound design Andrea Salvadori

aiuto regia Laura Cleri

movimenti Pascale Piscina

assistente alla regia Alice Toccacieli

video Lavinia Baroni

aiuto scenografo Yuri Punzo