Rosetta Loy: «La nostra memoria siamo noi»

Rosetta Loy: «La nostra memoria siamo noi»

Conversazione con la scrittrice Rosetta Loy.

Rosetta Loy è tra quelle scrittrici che possono essere definite della “memoria”. L’importanza dei ricordi personali e familiari, il rievocare le gioie e i dolori della propria vita, spesso si sovrappongono ai ricordi di un passato collettivo più complesso. Con elegante semplicità Rosetta Loy ha tracciato i racconti della sua infanzia, della sua adolescenza. Vicende storiche commoventi  che ha immortalato nei suoi libri, tutti capolavori, tradotti in tutto il mondo,  da quello d’esordio, “La bicicletta”, a “La prima mano”, passando per  “La porta dell’acqua”,  “Le strade di polvere”, “Cioccolata da Hanselmann”, “La parola ebreo”, “Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria”.

Quelle storie terribili sullo sfondo della seconda guerra mondiale destinate a essere dimenticate, narrate con garbo e con stile, ricordano tanto quelle dei grandi narratori francesi e russi dell’Ottocento? 

Sì, è vero, io amo moltissimo gli scrittori francesi e russi  dell’Ottocento. Anche se è difficile poterlo valutare, gli autori che uno ama diventano il magma dal quale nutrirsi continuamente senza però lasciarsi travolgere dalla passione.

Quali autori hai amato di più?

Sicuramente la scoperta di Proust. Da lui ho imparato il senso della memoria e del vissuto, ma questo è stato un fatto generazionale. Poi ho amato enormemente, Virginia Woolf e in assoluto il grande Tolstoj di “Guerra e Pace”. Se penso al tema della guerra, del dolore, devo dire che solo con Dostoevskij ho capito il terrorismo, e poi, Primo Levi e la Morante, tra i più recenti.

Quanto è pesato il giudizio di Natalia Ginzburg sul tuo primo romanzo “La bicicletta”, definendolo: “un sommerso bisbiglio corale”?

Quanto ha pesato il giudizio della Ginzburg, non lo so, ma è stato un giudizio meraviglioso. Come grande è stata la gioia che lei avesse apprezzato il mio libro e me l’aveva fatto pubblicare. Forse, perché era abituata a questo tono, che poi era il suo linguaggio e la sua semplicità.

A Natalia Ginzburg ti aveva presentato Cesare Garboli.

A Garboli mi fece incontrare il mio primo romanzo “La bicicletta”, lo lesse e ne parlò con Natalia Ginzburg, che teneva in gran conto il suo giudizio. Cesare era un uomo molto affascinante, intelligente ma anche un po’ folle. Confesso però che persi la testa per lui, io che ero stata sempre fedele a mio marito.  Quando Beppe morì all’improvviso d’infarto nella nostra casa di Sperlonga sono stata molto male  e Cesare d’allora mi fu molto vicino.

I romanzi “La porta dell’acqua”, “La parola ebreo” e “La bicicletta” del tuo esordio, formulano una trilogia sul tema della memoria.

 Quando ho scritto “La parola ebreo” ho cercato di dare in questa storia proprio la forma più dura. Io pensavo che fosse l’unico libro. Immaginavo cosa avrebbero pensato i giovani soprattutto. Questo è stato il mio intento e ci ho lavorato molto. È costato un lungo lavoro di ricerca ma anche di scelta di come presentarlo.

Storie di paura e di guerra, di amore e morte, di ferite dolorose mai più rimarginabili?

Le cicatrici non si rimarginano. Comunque, io credo che molti degli orrori sono visibili anche oggi. E ciò che ci si presenta è spaventoso. È un presente terribile. Se non c’è una consapevolezza di cosa abbiamo dietro le spalle è inutile cercare di andare avanti. Prima di tutto dobbiamo fare i conti con noi stessi e solo dopo possiamo dire di essere liberi di andare avanti. La memoria infatti insegna e ammonisce.

Tu narri la borghesia italiana, cattolica e antifascista e riesci a mescolare con molta naturalezza passato e presente, dolore e amore. Ma  quanto di politica c’è in un tuo racconto?

Io vengo da una famiglia estremamente cattolica. Dopo crescendo sono rimasta affascinata da quella cultura laica. Io penso che la politica per la mia generazione è stata molto importante. Perché dopo la guerra ci siamo trovati a vivere la politica. Era un nuovo modo di cercare di migliorare il mondo. E noi giovani ci credevamo molto. Anche se non ci siamo riusciti, perché pensavamo che fosse stato molto più facile.

Nei tuoi romanzi parli della memoria e dell’infanzia, che però non è sempre la tua.

La memoria scinde quello che vuole ricordare. Ognuno vede ciò che vuole vedere. L’infanzia è un momento importantissimo della vita. A quell’età non si hanno né pregiudizi  né giudizi e si registra quello che si vede.  Una vera memoria nei fatti non esiste, è soltanto quella del vissuto. Dimenticare poi l’orrore delle persecuzioni antisemite è molto pericoloso.

Allora ti senti una narratrice della “memoria”?

La nostra memoria siamo noi, è molto complesso l’universo della memoria, ma in qualche modo ci fa esistere. La nostra memoria sceglie e sterilizza, fa una censura anche se non ce ne accorgiamo. In molti miei libri ho dovuto tenere a freno la fantasia che voleva entrare in tutte le parti come se la mia fantasia denunciasse la sua falsità di fronte alla memoria.

Il tuo romanzo “La prima mano”, pubblicato originariamente in francese, “La première main” è un “magnifico capolavoro.”. Così, lo ha definito la critica. Un “lessico famigliare” che ci riporta alla memoria il Novecento italiano. Quello di Natalia Ginzburg uscito nel ’63 e che fu una vera e propria rivelazione.

Questo libro mi ha guarito. La prima mano è quella di mio padre che credevo eterno, un tempo forte e protettiva, mano amata e amorosa, che sorregge, cura e salva. Ma anche la prima a scomparire nei miei ricordi. C’è una guerra che sconvolge l’Italia. C’è la paura. Ci sono le vacanze al mare e in montagna. Ci sono i primi turbamenti, l’infelice consapevolezza del proprio corpo. C’è Giuseppe, mio marito, che se n’è andato troppo presto, che portò a casa mia una ventata di modernità. Mi consigliava Montale, Ungaretti e Quasimodo. Con mio padre oltre Carducci e Pascoli non si andava. Era un uomo dell’Ottocento con un grande senso dello Stato e del Piemonte.

Ma cosa è stato tuo padre per te?

Mio padre, diversamente da mia madre ha accettato tutto pur di non perdermi. Ero una bambina molto sola, indipendente, sorridente, ma non felice. Solo molto più tardi, con la maturità, capii molte cose nei confronti di mia madre. Nonostante ciò non ho mai recuperato il vero rapporto materno.

Oggi quella fantasia pare essersi bloccata ed è  nato così, dal vento nero di un “secolo sanguinario” un libretto prima con due favole tenebrose, dal titolo “Cuori infranti” e poi “Gli anni fra cane e lupo”?

I tempi di oggi sono atroci troppi delitti sconvolgenti e così mi sento di raccontare solo la realtà impossibile da trasformare. Sono due efferate storie di sangue. Due delitti della nostra storia recente raccontate quasi fossero fiabe. La strage di Erba e il delitto di Novi Ligure. Sono favole nere, comunque, in cui l’amore vince  su ogni altra cosa e nel quale ogni altra cosa è la vita degli altri. Ne “Gli anni fra cane e lupo. 1964-1994”, invece racconto l’Italia della corruzione a tutti i livelli, della totale mancanza di attenzione alla “cosa pubblica” e al disprezzo per le regole. Insomma,  un’Italia ferita a morte.

Storie come tante altre della provincia italiana “rimaste impigliate come licheni” nella memoria. Una memoria più recente che deve accompagnare alla speranza di un mondo migliore. Come il finale di ogni fiaba che si rispetti.

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Rosetta Loy è nata a Roma nel 1931 da una famiglia piemontese. Vive tra Roma, Sperlonga, Parigi. Quattro figli. Dopo l’esordio con il romanzo La bicicletta del 1974, che le è valso il premio Viareggio Opera prima, ha scritto vari romanzi, tra i quali il più importante è Le strade di polvere, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1987 e ripubblicato nel 2007, ha conseguito numerosi premi letterari, come il premio Campiello, il Super Campiello, il premio Viareggio. Nel 2005 la Loy ha vinto il premio Bagutta con Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria. Tra le altre sue opere sono da annoverare anche quelle giovanili scritte dopo La bicicletta: La porta dell’acqua (Einaudi 1976), L’estate di Letuchè (Rizzoli 1982), All’insaputa della notte (Garzanti 1984), cui sono seguite le opere più mature come Sogni d’inverno (Mondadori 1992), Cioccolata da Hanselmann (Rizzoli 1995), Ahi, Paloma (Einaudi 2000), La prima mano (Rizzoli 2009). Nel 2010 ha pubblicato anche il racconto Cuori infranti per l’editore Nottetempo. Un posto a sé nella sua produzione ha il libro a metà tra il saggio e la narrativa La parola ebreo (Einaudi 1997), che ha vinto i premi Fregene e Rapallo-Carige. Ha tradotto per Einaudi Dominique di Fromentin e La principessa di Clèves di Madame de La Fayette. Insieme alla figlia Margherita per Gallucci hanno pubblicato due libri d’arte per bambini  La cameretta di van Gogh  e Magritte. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue principali.