Pavese e il suo vizio assurdo

Pavese e il suo vizio assurdo

Sessantacinque anni fa moriva suicida il grande scrittore delle Langhe Cesare Pavese.

Sono trascorsi sessant’anni anni da quel tragico pomeriggio del 27 agosto del 1950, quando Cesare Pavese mise fine alla sua vita con sedici bustine di sonnifero in una camera dell’albergo Roma a Torino. Solo un’annotazione a penna, sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, sul comodino: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” Aveva quarantadue anni. Pavese era nato il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino sulle colline langhesi in provincia di Cuneo che assieme alla Torino della vita adulta divennero teatro del suo disagio interiore e di inadeguatezza nei confronti della vita. Così quelle colline natie e la città adottiva videro come protagonista più la sua coscienza che non la realtà esterna accentuando la sua irrequietezza di vivere.

Davide Lajolo, suo grande amico, nel libro “Il vizio assurdo”  tese ad evidenziare oltre, la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre, proprio la tendenza a quel “vizio assurdo”, ovvero, la vocazione suicida.  Quella mania suicida, accennata in quasi tutte le lettere del periodo liceale e dirette soprattutto all’amico Mario Sturani.

“Ogni suicida ha una ragione particolare, un suo movente personale- scrive Lajolo- ma chi non avrebbe ragione per farlo? Questi pensieri picchiano nella testa di Pavese come tanti martelli. Passata la commozione, superata la disperazione, subentra il ragionamento. Ma è ancora il ‘vizio assurdo’ della morte che continua ad affascinarlo.”

L’ossessione della morte, così l’universo mitico della collina e la solitudine di chiara matrice decadente,  sono la “summa” di  motivi umani e poetici che la critica ha ritenuto accordare al suo ultimo romanzo “La luna e i falò”. Allora, vivere diventa “mestiere” da apprendere con grande pena e senza risultati. L’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza: “Ho imparato a scrivere, non a vivere”, ma anche come la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici: “Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”, dice Pavese.  Le crisi politiche e religiose ripresero a sconvolgerlo, lo sgomento e l’angoscia lo assalirono, nonostante i successi letterari de “Lavorare stanca” (1936), de “Il compagno” (1947), di “Paesi tuoi” (1941),  de “La bella estate” (1949). Alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto Pavese non riuscì più a reagire.

Quella solitudine annotata in  “Il mestiere di vivere”, il diario uscito postumo nel 1952. “Certo avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire e ti scalda e t’accompagna (8 febbraio 1946); Ogni sera, finito l’ufficio, finita l’osteria, andate le compagnie – torna la feroce gioia, il refrigerio d’essere solo. È l’unico vero bene quotidiano. (25 aprile 1946)”.

Simbolo tragicamente irrisolto dell’impegno politico e culturale antifascista, del disagio esistenziale, Pavese resta uno degli scrittori nodali del ventennio che va dal 1930 al 1950.

Il 1950 è l’anno della sua morte. Ma è anche l’anno dello “Strega”, per la trilogia narrativa di “La bella estate”, che riuniva racconti scritti in periodi diversi, e di “La luna e i falò”, considerato il suo miglior romanzo. Qui Pavese nel ripercorrere le tappe della sua tormentata ricerca narrativa, ritrova i simboli nell’ambiente originario delle colline e delle Langhe, i luoghi mitici dell’infanzia. Ma erano simboli di distruzione e di morte. Per il personaggio Anguilla, tornato dall’America, i falò d’un tempo, si sono mutati da rito propiziatorio a simbolo di orrori e ingiustizie, ed è costretto a constatare che “crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com’era adesso”.

Segnato dal senso angoscioso della propria solitudine, dal desiderio di superare tale condizione e la reiterata consapevolezza di non riuscire, ad aggravare lo stato di disagio e a radicare l’idea del suicidio come unica forma di liberazione furono poi per lo scrittore piemontese delle ragioni sentimentali. Come il rapporto impossibile con l’attrice americana Constance Dowling. A lei dedicò la breve raccolta poetica “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Una delusione amorosa che si aggiunse a quella di “disperata frustrazione” vissuta al suo ritorno dal confino nel 1935, quando trovò la donna amata, una militante del partito comunista clandestino, sposata ad un altro.

“La sua disperazione non era vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quell’interezza di vita che desiderava”, ebbe a dire l’amico Italo Calvino. Qualche giorno prima della tragedia, il 21 agosto, Pavese annoterà nel suo “diario”: “Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”