Riflessioni intorno a "La tribù" di Italo Svevo

Riflessioni intorno a “La tribù” di Italo Svevo

Il breve racconto scritto da Italo Svevo nel 1897, dal titolo La tribù, è una parabola sul socialismo, infatti fu scritto per la rivista di Filippo Turati, “Critica sociale”. E pone una questione cruciale per la sinistra riformista di quegli anni: quale debba essere il processo evolutivo di una società che da primitiva vuole diventare moderna pianificando una ristrutturazione economica e sociale. Nel disegno dell’arabo Achmed, protagonista del racconto, e portavoce del punto di vista riformistico caro a Turati, le tappe di sviluppo saranno le seguenti: prima l’urbanizzazione, poi l’economia capitalistica, la fabbrica, da lì il conflitto sociale e la lotta per una società migliore. La situazione a cui ci si riferisce è quella italiana discussa sulle pagine della “Critica sociale”: un paese arretrato che ha bisogno di veloci processi di modernizzazione per far sì che le classi lavoratrici prendano coscienza della loro condizione. Le sofferenze per rivendicare i propri diritti, serviranno ad accelerare la gradualità delle riforme per una società più giusta. Turati indica questo processo economico come percorso obbligato per un risveglio del proletariato. Le rivendicazioni operaie, anche quando sono fallimentari, sanno infatti creare “tutta una forza di preparazione cosciente, di solidarietà provata alla lotta, di esperienza, di adattabilità di spirito, di battaglia misurata e insieme fervente, che farà traboccare la bilancia della storia e affrettare forse di un secolo la soluzione sociale definitiva”. C’è bisogno di un alto grado di sviluppo industriale della società per rivelarne il suo punto di esasperazione e oltrepassarlo in un glorioso e faticoso progresso verso la giustizia sociale che porterà un benessere uguale per tutti. Ma la tribù alla fine rinuncerà alla fabbrica e deciderà di tornare nelle tende. Qui si apre l’enigma. Perché Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, non sarà certo osservante del credo di Turati, anzi, lo dissacrerà. Nel racconto c’è anche dell’altro.

Una tribù araba trova in mezzo al deserto un posto accogliente con acqua e ombra. Decide di fermarsi lì e senza nemmeno accorgersene la popolazione da nomade diviene stanziale: “le tende lentamente si mutarono in case, ogni membro della tribù divenne proprietario”.

Il fatto che Svevo inizi il suo apologo facendo riferimento alla fine del nomadismo è spia di altri elementi che concorrono al formularsi della metafora, e vanno al di là della questione turatiana e coinvolgono il suo rapporto con l’ebraismo e la sua concezione del mondo. La biografia dello scrittore racconta in quegli anni l’inizio di una vita stabile e borghese. L’ebreo Svevo, errante quantomeno dal punto di vista intellettuale, in viaggio da un sogno letterario all’altro, ha piantato le tende per non toglierle più: ha sposato la cugina Livia Veneziani con un matrimonio in chiesa, si è fatto battezzare e ha rinnegato la fede ebraica, peraltro mai praticata. Lo ha fatto soprattutto per far piacere alla moglie alla quale spesso ripeterà: “la cosa più bella del cattolicesimo sei tu!”. Nasce la figlia Letizia: una bella bimba dai capelli lisci. Quando giocherà con le cugine ebree, dalle folte ricce capigliature, il padre, scherzando sulle questioni di razza, le dirà: “vedi Letizia, il battesimo ti ha fatto perdere i ricci”. È chiara l’ombra della discriminazione sulla quale Svevo ironizza. Certo è che non è mai stato un cattolico. Se ad un’identità religiosa ha mai sentito di appartenere, non tanto per fede, ma per cultura familiare, è di sicuro quella ebraica. Preso dal ruolo di marito e padre devoto, Svevo ora rinuncia ad ogni velleità di scrittore e dirige l’azienda del suocero. Vive nella bella villa dei Veneziani, costruita accanto alla fabbrica e spesso di attarda a guardare dalla finestra il tumulto della vita industriale. E quell’immagine gli dà il senso del suo pieno inserimento nel processo evolutivo economico: la sua adesione a quella vita è tutta razionale e ponderata nella ricerca di una sanità morale borghese. Ora si acquietano anche quegli entusiasmi socialisti giovanili che avevano dettato alcune pagine di Senilità, già comunque velati di disincanto nelle parole della pratica Angiolina: “se tutto venisse diviso, non ci sarebbe niente per nessuno. Gli operai sono degl’invidiosi, dei fannulloni, e non riusciranno a niente”. Adesso Svevo prova a guardare il mondo senza strabismi intellettuali, ma con gli occhi ordinati di sua moglie, secondo la quale ognuno deve stare a suo posto e rispettare gli altri al loro posto (sia nel La coscienza di Zeno che nella vita di Svevo, il sano punto di vista realista sulle cose spetta sempre alle mogli).

 Ma nel momento in cui accetta quel sistema nel quotidiano se ne prende burla nelle sue fantasie e scrive un racconto come La tribù. L’inetto è colui che rimpiange la vita primitiva perché non sa adattarsi alla logica del profitto. La fabbrica è un ordigno capace di rendere il mondo invivibile. Una nostalgia quasi roussoniana per una vita naturale, pretecnologica, è presente sin dal primo romanzo Una vita che si apre con la lettera del protagonista Alfonso Nitti alla madre: “ho veramente bisogno – scrive Alfonso, rimpiangendo il rurale paese natio – di respirare la nostra buona aria pura”, mentre in città l’aria “giunge direttamente dalla fabbrica”. E dunque: “qui respirano una certa aria densa, affumicata, che, al mio arrivo, ho veduto poggiare sulla città, greve, in forma di un enorme cono, come sul nostro stagno il vapore d’inverno, il quale però si sa che cosa sia ; è più puro. Gli altri che stanno qui sono quasi tutti lieti e tranquilli perché non sanno che altrove si possa vivere tanto meglio”. Ci sono tutte le valenze simboliche in questa lettera di una perdita di innocenza: il protagonista scrive alla madre, all’origine per eccellenza, da cui però si è allontanato, è caduto in un mondo che non sa più quale sia il vero bene, rimpiange allora l’altrove mitico del borgo natio, dove ogni cosa è pura. Un tema troppo importante questo per lo scrittore perché sia un gioco solo di retorica. Svevo parla di un sincero bisogno interiore di autenticità, di un rapporto pulito con il mondo, con il proprio io, la propria coscienza. È il fulcro di tutte le sue creazioni fantastiche, e l’incubo intorno al quale avvolge le sue metafore. L’elemento che perverte la purezza originaria del rapporto io-mondo è la fabbrica, così come l’ordigno distruttivo con cui si chiude La coscienza di Zeno. Tutti prodotti degenerati della civiltà.

La tribù araba nel momento in cui decide di fermarsi e costruire una città, diventa infelice, nascono le disparità tra ricchi e poveri, perde la purezza delle proprie leggi originarie e finisce per chiudersi in se stessa. La vita nomade diviene allora la metafora di un’esistenza che si dedica alla profondità dell’essere e non al profitto. Di questo desiderio di Svevo di “nomadismo intellettuale”, errante tra libri e riflessioni, nella ricerca dei significati profondi del vivere, ce n’è un accenno in una battuta de La coscienza di Zeno, a metà tra l’ironico e il rivelatore: il protagonista, riscontrata la sua incapacità di occuparsi di affari (anche loro ordigni mascherati da civiltà), dice di volersi ritirare nella sua tenda, ossia nel suo studiolo, per dedicarsi “agli studi di religione”. E qui si apre anche un’altra possibile lettura: la tenda è un segno forte per la cultura ebraica, che evoca l’andare degli antichi patriarchi, il nomadismo di Abramo, ma anche luogo dell’incontro con il divino: prima della costruzione del Tempio, le Tavole della Legge sono custodite nella tenda eretta secondo le norme dettate in Esodo 26, Jahvè dice poi chiaramente che non ha bisogno di un tempio perché lui ha sempre dimorato nelle tende con il suo popolo. Non è un caso allora che nella “tenda”, Zeno /Svevo si dedichi alla conoscenza della religione cristiana per sentirsi più vicino alla fede della moglie Augusta. Tanto zelo di ricerca non viene compreso dalla consorte. La pratica religiosa borghese è superficiale. Vissuta nella consuetudine delle messe in chiesa la domenica e dei sacramenti, la fede cristiana, non necessita di approfondimenti

Lo scrittore parla poco della sua identità ebraica; ma nella sua fantasia ogni tanto lascia che emergano immagini della religione dei padri, disseminate qua e là come spie di una conoscenza acquisita in un tempo lontano. Una certa educazione ebraica Svevo la ebbe nell’infanzia: frequentò insieme ai fratelli la scuola israelitica elementare tenuta dal rabbino maggiore di Trieste Sabato Raffaele Melli. Lì studiò storia, geografia, matematica e tedesco. ll fatto che l’ambiente frequentato anche fuori della scuola fosse per lo più ebraico, si ricava da nomi e cognomi citati nel diario del fratello Elio: gli amici Luzzato, Cohen, Finzi, i parenti Abramo, Samuele, Davide, Giuditta, Noemi, Levi, Fano. Ma di culto poco si parla. Solo un accenno a una festività ebraica non celebrata: “oggi intanto è Purim (carnevale ebraico, n.d.r.), ma si passa sotto silenzio per volere di papà, che non vuole feste in famiglia che non sono che ricordanze dolorose e dispiaceri”. Però la famiglia Schmitz partecipava ai riti in sinagoga: Elio riporta il fatto che “papà è eletto Hadan Bereschid” che significa sposo dell’inizio della genesi, persona qualificata e autorevole, designata a leggere nel tempio l’inizio del Pentateuco  Tra Ettore e il fratello Elio c’è una grande amicizia: sono animati dalle stesse aspirazioni letterarie. Sognano di diventare dei grandi drammaturghi e scrivono commedie che poi si correggono l’un l’altro. Non è la prima volta che gli Schmitz si dilettano nello scrivere: da bambini, insieme al fratello Adolfo avevano messo su un giornaletto di famiglia di nome L’Atodajejojade, nel quale si divertivano a registrare bizzarri episodi di vita quotidiana. Tenere un diario per Elio è una cura al suo male di vivere: è fragile nell’umore nella salute, e nella preparazione letteraria che non è certo all’altezza di quella del fratello. Ma da lui Ettore impara il valore della scrittura come atto vitale per comprendere se stessi. Fermare quotidianamente i propri pensieri sulla pagina scritta sarà per Svevo una necessità irrefrenabile: ritaglierà sempre per sé un momento a sera tardi per scrivere, anche quando sarà totalmente immerso negli affari, senza più tempo per la letteratura. A Trieste non tutti sapevano che era uno scrittore, ma tutti lo conoscevano “come una persona che teneva un diario”. Ma l’idea del diario è il per lui un punto centrale intorno al quale fa ruotare il suo concetto di scrittura: il racconto dell’io alle prese con il fuori da sé come strumento principale di indagine sul mondo. Da lì, dalla vita raccontata a se stessi, basta cogliere uno spunto anche banale per farne poi, nella affabulazione letteraria, una grande metafora della condizione umana. Dalle pagine di diario del fratello, Svevo trae il nome del personaggio riformista de La tribù. Elio si ammala di nefrite nel 1883, pensando forse che la cosa possa giovargli, parte per il Cairo dove starà presso dei parenti. Ma l’impatto con quel mondo estraneo e così diverso dal proprio è sconvolgente. Elio si sente perso: è solo “in mezzo agli Arabi o agli Europei mezzi arabizzati” scrive. Unica presenza quasi amica è un arabo di nome “Achmed”, da cui Elio si deve far comprendere a gesti. La passione letteraria che unisce i due fratelli è un grande laboratorio di immagini per il futuro Svevo. Elio morirà nel 1866, Ettore diventerà romanziere, ma le pagine intime lasciate dal fratello contribuirànno al definirsi di un concetto forte di scrittura come terapia quotidiana del vivere, che sboccerà ne La coscienza di Zeno.

Così dal diario di Elio riprenderà anche il nome per il giovane Achmed, l’arabo riformatore della tribù che vuol portare il sistema economico occidentale in terra araba, e per questo alla fine non riesce a farsi capire né a gesti né a parole dalla sua stessa gente.

Quell’esperienza di estranetià e incomunicabilità che Elio accenna in un momento di scoraggiamento, per Ettore diventa l’immagine principale intorno a cui costruire la sua parabola sullo sviluppo della civiltà. E lì per vie nascoste parla anche della sua identità ebraica.

È un meccanismo narrativo che ha bisogno di calarsi nel totalmente diverso da sé, il popolo arabo, per ritrovare qualcosa di vicinissimo al proprio io. Giacomo Debenedetti, pensava che Svevo avesse fatto del suo ebraismo una “apologia del rovescio, particolare dell’antisemitismo degli ebrei, in cui l’odio e l’amore disperati vanno commisti in un abbraccio mostruoso”. L’ebreo è un inetto, ma proprio per questo assurge a simbolo della condizione dell’uomo contemporaneo. Svevo non ha fiducia in nessun miglioramento, né in quello portato dalla politica, né in quello promesso dalla religione. Sa che la realtà dell’uomo è ben più complessa.

“Il signore Iddio si fece socialista. Abolì l’inferno e il purgatorio e pose tutti in posizione uguale in paradiso. Vi si stava bene in un’eterna beatitudine. Morì giusto allora un Creso e fu stupefatto d’essere accolto in paradiso. S’abituò però subito alla novella esistenza ed anzi, presto, incominciò a lagnarsi. Che cosa ti duole? domandò il Signore adirato.Ah! Signore! Rimandami in terra! Qui non è il paradiso ver; qui non si vede soffrire nessuno”.

Questa favoletta teologica fu scritta da Svevo nel 1897, stesso anno del racconto La tribù a conferma di come la questione etica di un socialismo nuova fede dell’umanità, fosse un tema ricorrente negli apologhi sveviani di quel periodo.

L’autorità invocata per migliorare la condizione umana qui non è Marx, ma Dio stesso che decide di ispirarsi al pensiero socialista perché tutti siano felici nell’aldilà. Il risultato però non cambia: la situazione iniziale, quella apparentemente ingiusta, la divisione tra buoni e cattivi per le anime, così come la vita nelle tende per i nomadi, risulta essere l’unica possibile perché risponde agli istinti profondi della psiche umana. Ma l’una condizione è il rovescio dell’altra: se per la tribù nel rifiuto dell’economia capitalistica c’era una volontà di ritorno ad un’età dell’oro primigenia, il cattivo Creso è ormai corrotto nell’animo e non può godere del bene altrui, ma anzi si duole del non poter vedere nessuno soffrire. Né Dio né Marx possono dare soluzioni. Religione e socialismo sono due temi che spesso stanno insieme nella riflessione di Svevo. Questioni che lo tormentano anche nella vecchiaia. Il problema della selezione, di una persecuzione è presente nei suoi ultimi racconti, in cui parla di incubi che quasi gli annunciano la tragedia del nazismo. Quasi presagisse il tormento della moglie e della figlia, quando, dopo la sua morte a stento riusciranno a fuggire alle leggi razziali, dimostrando, secondo un computo assurdo, di esse ebree solo per il 38%, e dunque non da deportare.

Quando scrisse La tribù poi, è molto probabile che Svevo avesse letto sia Marx che Engels, anche se forse non interamente: altrimenti non si spiegherebbe come potesse consigliare quei testi anche alla futura moglie.

Ma Svevo nel racconto La tribù non prende di mira Marx che invece è un bersaglio solo di riflesso, in quanto parte di una questione antropologica che sta dietro qualsiasi progetto sociale: è Darwin che vuole colpire, è della sua teoria che svela le tragica complessità. L’evoluzionismo gli appare, quasi in termini leopardiani, come una condanna cosmica alla lotta dell’uomo per il progresso: è lì che vanno ricercate le cause dell’infelicità umana. È per colpa di Darwin che ha condannato l’uomo all’agone evoluzionistico, che il lottatore Creso non riesce a sentirsi in paradiso se non vede qualcuno soffrire, e l’inetta tribù non sa inserirsi nel produttivismo economico. Ma Darwin ha dato nome a ciò che da sempre è presente nella storia umana: la lotta per la sopravvivenza. Lo stesso morbo di Basedow di cui è affetta Ada ne La coscienza di Zeno non è altro che un’accelerazione parossistica delle leggi dell’evoluzionismo, che procura “un folle consumo della forza vitale a ritmo precipitoso”, per cui “la società procede perché i basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono” Così Svevo decostruisce Darwin facendo una sorta di “apologia del rovescio” della teoria evoluzionistica per arrivare ad esaltare la figura dell’inetto. La capacità della specie umana di adattarsi all’ambiente ha dei limiti ben precisi ma questo è un punto di forza e non è un difetto : “nella maggior parte degli uomini lo sviluppo per loro fortuna e per fortuna dell’ambiente sociale, sia arresta. (…) Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo”. L’uomo meno specializzato, meno fattivo nella società, è più mobile, aperto duttile ai cambiamenti. L’inettitudine allora, come per Zeno, risulta un comportamento vincente, come lo è il nomadismo rispetto alla vita stanziale per la tribù. Anche qui l’irrisione lo spinge ad un apologo teologico in cui gioca a conciliare le tesi creazionista della Bibbia con quella di Darwin: “il signor Iddio aveva conchiusa la sua opera di creazione. Stancatosi dell’immane lavoro riposò dopo aver detto: Io riposerò ma la mia creazione continuerà a ricreare se stessa”. Dio è intervenuto all’inizio, poi tutto è stato affidato all’evoluzione. Così “nacque il malcontento e torvo uomo”. Era “imperfettissimo”, “animale disgraziatissimo” come da eco leopardiana. Ma qui la colpa non è di una natura matrigna, ma dell’animo umano. L’uomo infatti “voleva tutto, sempre tutto. (…) La bestia nuova era nata e le sue membra, invece che perfezionarsi quali ordigni, divennero capaci di maneggiare quelli ch’essa creò”. Nacque così “l’ordinamento sociale e economico, cioè un metodo per far convivere in una guerra dall’aspetto di pace il triste e malvagio animale guerresco”. Il pessimismo di Svevo ricorda quello di Leopardi di Schopenauer, è universale, astorico, al di là delle teorie politiche marxiste.

La morale del nomade ha una purezza originaria da buon selvaggio che non prevede la proprietà e le ingiustizie ad essa connesse. Dunque non fu possibile legiferare: l’intera tribù si accorse che le proprie leggi erano inadeguate al nuovo sistema sociale. Hussein, stabilì che fosse inviato un membro della comunità per “studiare l’organizzazione dei popoli che vivono da secoli nell’assetto che noi conosciamo soltanto da anni. Costoro hanno certamente leggi che regolano i diritti di chi lavora e di chi possiede”. Il giovane Achmed fu eletto all’unanimità dagli anziani per andare presso quei paesi civili che da secoli avevano una civiltà stanziale e dunque leggi più progredite. Il ragazzo partì con le migliori intenzioni dicendo ai suoi: patria mia, io ti porterò la giustizia. Achmed vuole imparare tutto dall’Europa, importare a tappe forzate la civiltà occidentale e soppiantare del tutto i valori tribali. Così “per lunghi anni studiò, tanto che di lui si diceva: Achmed studia come un’intera tribù”. Ma quando pieno del suo sapere tornò nel deserto dalla sua gente, trovò le cose profondamente cambiate, perché “la legge economica non perdeva della sua forza neppure al centro del deserto; le piccole linde casette, che avevano da prima sostituito le tende, erano scomparse per far posto a sontuosi palazzi e luride catapecchie. Passavano uomini seminudi ed altri coperti di stoffe preziose”. Lo sviluppo economico di tipo occidentale, fedele ai principi darwiniani e a quelli della dialettica marxista, aveva portato enormi disparità sociali: il panorama era quello di una moderna attuale metropoli del Terzo Mondo, il Cairo, Nairobi, o Delhi, dove lusso estremo e cruda povertà delle baracche convivono ad ogni angolo. Svevo certo non sapeva di tratteggiare gli effetti del neocolonialismo economico della seconda metà del Novecento. Il grande capo Hussein disse affranto ad Achmed che oramai di leggi ne avevano e anche troppe: “pareva che queste leggi dovessero condurci alla felicità, e invece la tribù di eroi, che hai lasciata, s’è mutata in un agglomerato di vili schiavi e prepotenti padroni”. Il vecchio Hussein rimpiange la vita nomade, e vuole tornare al passato. Ma lancia una sfida ad Achmed: “se tu ci saprai raccontare di un popolo, che toltosi alla vita nomade abbia saputo vivere più felicemente di noi, allora ti farò contare i tuoi interessi degli interessi. Altrimenti tu non riceverai nulla, e noi, così almeno io spero, torneremo alla vita nomade”. In Europa Achmed è andato alla scuola di Turati, sa che secondo quel modello di vita la via per la conquista della felicità sociale è irta di conflitti: ciò che manca alla sua tribù per intraprendere il cammino verso il progresso è solo una bella fabbrica. Marx, le regole del capitalismo e il darwinismo sociale prevedono che sia così. Infatti spiega Achmed “la storia della tribù non era altro che la storia dell’umanità. Prima, finché nomade, la tribù costituiva un solo individuo che lottava per la vita; ora, nel progresso, ogni suo membro era divenuto lottatore per proprio conto. I più forti vincevano e soggiogavano i più deboli. Era bene che così fosse. Hussein si mostrava poco degno del suo posto, piangendo sulla sorte dei vinti. Ogni membro ragguardevole sarà un vero e proprio trionfatore e l’intera razza diverrà più forte e sosterrà facilmente il paragone con gli altri popoli nel conflitto economico”. Così “i diseredati, uniti dalle fabbriche – la loro sventura- si coalizzeranno e, pieni di speranza, vedranno avanzarsi i nuovo tempi e vi si prepareranno. Poi, giunti i nuovi tempi, il pane, la felicità e il lavoro saranno di tutti”. È chiaro l’intento ironico e dissacratorio di Svevo, nel descrivere in termini trionfalistici, se non addirittura messianici, il processo che porterà come dice Turati alla “soluzione sociale definitiva”. Sin dai tempi di Una vita la fabbrica era un simbolo negativo, un ordigno malefico nell’immaginario di Svevo anche se invece nella vita reale era una presenza quotidiana e rassicurante del benessere acquisito. Qui ancora una volta lo scrittore affida alla letteratura il compito di essere lo specchio della coscienza, il rovescio della medaglia, la possibilità di dire quello che nella vita non si può dire. Il racconto La tribù non è solo, come è stato più volte interpretato, un contributo sui generis alla dialettica tra massimalismo e minimalismo che contraddistingueva il socialismo di quegli anni. È piuttosto l’affermazione di un ironico, totale distacco dall’intero sistema economico. Il punto di vista che risulta vincente alla fine del racconto, è quello del capo Hussein che si prende gioco delle teorie di Achmed e infatti risponde al giovane che la tribù vuole incominciare il suo processo evolutivo “dalla fine”, cioè dalla felicità raggiunta. Ma per far questo deve tornare alle origini, perché quella è stata la loro età felice secondo Hussein, e le origini sono la vita nomade. Allora il cerchio si chiude e il finale sbaraglia il lettore e lo lascia in una selva di interrogativi. Passano gli anni. “Un europeo stanco della sventura del proprio paese, bussò un giorno alla porta di Hussein e chiede di essere ammesso a far parte di quella tribù felice Impossibile! disse Hussein Abbiamo sperimentato che la nostra organizzazione non fa per voi europei. Offeso l’europeo osservò:Non siamo stati noi ad immaginare le vostre leggi? .

Le avete immaginate ma non sapete comprenderle né viverle. Abbiamo dovuto scacciare da noi persino un arabo, un certo Achmed che aveva la sfortuna di essere educato da voi“. Subito dopo la fine della I Guerra Mondiale Svevo scrisse: “L’Italia dovrebbe esigere che accanto alla Lega delle Nazioni sia istituita una Sezione dedicata allo studio della teoria della pace. Ed esigerà che tale compito sia affidato non a diplomatici usi a considerare la opportunità del periodo breve, ma a delegati di Università, scienziati che sanno che il periodo breve è insensato e che la legge storica ha bisogno dei secoli per manifestarsi. E solo gli scienziati possono sapere che cosa sia il mondo animale e quali siano le sue esigenze. Tutto il problema è umano e non internazionale”. Ancora Darwin, come se la sua teoria fosse la maledizione del vivere: il problema per Svevo non è nella politica, ma nella lotta dell’uomo per la proprietà, nell’animo dell’uomo.

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