Recensione di "Nuovomondo" di Tomaso Pieragnolo

Recensione di “Nuovomondo” di Tomaso Pieragnolo

Recensione di “Nuovomondo” (Passigli) , raccolta poetica di Tomaso Pieragnolo.

Ho un debito nei confronti di Tomaso Pieragnolo perché questa recensione sarebbe dovuta uscire molto prima di ora. Non per la stima del “poeta” e del “traduttore” né per rispondere a dinamiche di velocità tra uscita del libro (ormai di qualche anno fa) e segnalazione della rivista, ma per la qualità altissima di questi versi.

“Nuovomondo”, in una forma poema più iberica o sudamericana che italiana o europea, lascia al lettore – soprattutto quello attento alla ricerca poetica – una sensazione al tempo stesso di “totalità” ed “estraneità” nei confronti della realtà circostante.

Un’opera complessa e difficile ma armoniosa che di dipana tra le pagine come una sinfonia perfetta anche nelle sue imperfezioni e cerca di riportare in superficie la forza titanica dei sentimenti.

Si aziona, attraverso la voce poetica, un vero e proprio cerchio temporale – ora interiore ora esterno – che però ribalta le ideali stagioni. Cominciando dalla fine per chiudere con l’inizio, si attua immediatamente (e ciclicamente) la dichiarazione d’intenti dell’autore: “[…] aggrappata / a possibile vita ancora così / mi regali per annusare il mondo / un nuovo fiore”.

Creazione e distruzione, vita e morte, amore e odio. Tutte le pulsioni, evidenziate dalle loro estremità e dai loro opposti in continua associazione e separazione, ci accompagnano in un viaggio che è in primis individuale (con una forte, ricercata, ossessiva estroflessione dell’io) e, in seconda analisi, collettivo. In esso vi è tutta la forza e la vitalità che è insita nell’erranza e nell’io-mondo.

Anche nell’apparente disordine c’è un ordine che sovrasta ogni cosa: un ordine che in nome dell’Amore, forza invisibile ma palpabile fino all’eccesso diventa grammatica della vita e humus di un terreno fertile che aspetta soltanto di essere coltivato.

E da quei semi, piantati con la giusta dovizia, che il nostro tempo potrà finalmente muovere le vele verso il nuovo mondo.

 

Forse il primo uomo e la prima donna
di colpo due colombe nella fitta
orditura, due strappi nella ripetizione
del castigo, scalzi appena eretti allo sbaraglio
della precaria luce immaginano
precipui un luogo futuro, bestiali
e spaventati ancora da improvvise
estinzioni e pazze circolazioni
di stormi, metalli e distanze;
così nudi addiacciano in strapiombi di gole
indurite e nel prodigo divenire
in frammento, mentre un bilico rapido
d’urgenze minaccia la disgregata
moltitudine e un perenne vento verde
colma franate frontiere e nascite
continuamente offerte. Caparbiamente
avanzano fra tutte le cose prescelti
con fortunale criterio, erranti giorno
dopo giorno e sopravvissuti al possente
stallo innescano l’impronta numerosa
che l’aperta asprezza muta, il corpo scricchiolante
contro l’ora e l’ereditato disordine,
bruciando ancora la netta cicatrice
che il giorno definisce in precipitosi
vertici. Ma gioioso è il creato nei suoi
molteplici fermenti, dilunga lingue mute
e selve commoventi.