Recensione di "Fuorivia" di Luigi Manzi a cura di Maria Lenti

Recensione di “Fuorivia” di Luigi Manzi a cura di Maria Lenti

Recensione di “Fuorivia” di Luigi Manzi a cura di Maria Lenti.

La poesia ha le sue strade spontanee e libere da schemi, non prefissate se non a scapito della sua essenza. Eppure, anche fuori da costrizioni, talora una domanda mi si impone leggendo la poesia di oggi vòlta più a comunicare esperienze che a segnalare, in tali esperienze, lo stato dell’esserci.

Esistono e non esistono il mondo tangibile, questo nostro paese ridotto al lumicino, la realtà da vivere, la possibile da inventare immersi come si è in eventi precipitosi e intercambiabili nella loro inamovibilità semantica, stretti tra ieri e oggi, tra il passato povero ma ricco di umanità e di incontri, di territori non estranei e cari al cuore, e il presente vuoto di tutto e arido?

Esiste l’anima, il pensiero che respira negli stati d’animo deprivati  di ogni consolazione e in un deserto da far paura, che intimorisce perché non se ne sa la fine, essendo che la fine è questo stesso deserto?

Gli uni e gli altri esistono, e scorrono, a volte pianamente a volte con una lucidità da cui affiora angoscia, in Fuorivia di Luigi Manzi, che torna alla poesia dopo una decina d’anni. Nell’alternanza dei trascorsi e dei corsi odierni, si snoda il filo del giornaliero e del pensiero, del possibile un tempo e del non più, mentre il più – situato nel desiderio che esso sia – si sfibra sapendone la caduta.

L’alternanza (espressa anche nel differente carattere tipografico: tondo e corsivo nella sezione “Detriti”) è detta al presente indicativo: un tempo che sta a racchiudere i versanti dell’esistenza, la loro immobilità e la loro mobilità come una fissità ma anche come un dono in cui si concentrano ricordi, atti, ottativi. « Ovunque / io traccio un segno dove tu sei, / pure sottratta al peso, a ogni orpello…». Stasi e ripresa, non è un paradosso  perché paradosso non sono le cose tutte della vita, dell’esistenza. Ma, certamente, paradosso per il deserto provocato, voluto, e non riconosciuto come tale.

Vari piani, nella poesia di Luigi Manzi. L’evidenza (ciò che non è) va a significare da un lato ciò che mancherebbe (la perduta innocenza di sé ed anche di uno stare insieme senza orpelli come un tempo, quanto tempo fa?, è accaduto nel crescere alla vita), dall’altro ne posta il limite rimasto fermo a quegli anni, ché se fosse proseguito non sarebbe stato adeguato alle aspettative, alle necessità. A procedere, quel mancare manca in toto perché gli si è sostituito il niente, o nel migliore dei casi, un pallido sole, uno spicinìo di umanità.

Dove sia finito il tutto è domanda non interrogativa, ossia conseguenza logica, e crudele però, di tempi, uomini, persone, fino ad arrivare ad un sé immedicato.

Una sorta di aridità ne è il risultato. In questa si sta, estranei gli uni agli altri, fuori di ogni ascolto del/dal profondo, galleggianti su una fluidità  sociale e della polis molto simile all’indifferenza («I vivi seppelliscono i morti / con gli ovuli in bocca. I redivivi / si toccano in petto, si assegnano l’un l’altro / un numero di fuoco»), non diradata per ripetitività coattiva e comunicativa.

Nei vuoti si rintracciano i silenzi per induzione contestuale, le sottrazioni esistenziali, gli azzeramenti calati da poteri proditori. Nemmeno nominati, i poteri, perché inafferrabili o perché innominabili nella loro sfuggenza: un alito soffiato addosso e sparito. Si è creduto ad un cambiamento? E come doveva essere tale cambiamento?

«Testimonianza e presagio», scrive – tra altre osservazioni critiche di rilievo – in quarta di copertina l’editore Gëzim Hajdari, «tanto da fare di Manzi l’unica voce, nel panorama della poesia contemporanea italiana, capace di rinnovare la tradizione visioniaria».

Unicità, anche a mio parere, della figura poetica di Luigi Manzi. Nel non dire apertis verbis, e dunque non direttamente innervato nella denuncia e nel sarcasmo, si affida al paesaggio umano nell’assenza che lo deturpa.

Chi vive, sentendo fino in fondo l’assenza di sé nel fuori di sé e l’incombenza di un vacuo fuori di sé che sovrasta e riempie il sé, del calore della perdita e quello del desiderio. E un senso di desolazione. Che stringe, fino a costringerli, i fianchi. Che trattiene i passi che pure non vorrebbero arrestarsi. Che si nutre di fantasmi di vissuto, per un futuro che non si delinea, in un presente che, nel delinearsi un volto credibile, ne risulta privo. E se ne va “fuorivia” nel bel Fuorivia di Luigi Manzi.