"L'economia delle cose": conversazione con Elena Varvello

“L’economia delle cose”: conversazione con Elena Varvello

Intervista a Elena Varvello, autrice, tra le altre cose, della raccolta di racconti “L’economia delle cose” (Fandango).

Ho letto solo recentemente la tua raccolta di racconti L’economia delle cose, e devo dire che sono rimasto colpito dall’intensità di ogni storia. Davvero sei riuscita a condensare in circa duecento pagine nove racconti di rara bellezza, decisamente riusciti. Ammetto di essere stato un po’ scettico all’inizio, non saprei perché, ma mi sono dovuto ricredere. La prima domanda che ti faccio è qual è secondo te il tema conduttore di tutti i racconti. Secondo me è l’imprevisto. Chiari o impercettibili accadimenti ci dissociano dalla nostra vita di tutti i giorni e  noi li chiamiamo scelte, destino, caso. Sei d’accordo? Cosa ti senti di aggiungere?

Non c’è molto da aggiungere, in effetti. Quanto le nostre vite siano precarie, nonostante le illusioni che nutriamo riguardo alla stabilità e alla nostra presunta capacità di previsione: ecco quello che volevo raccontare. Credo che arrivi per tutti, prima o poi, il momento in cui la vita slitta più o meno bruscamente in un’altra direzione. Cosa facciamo, in quell’istante? Come reagiremo? Cosa impareremo su noi stessi? Le mie domande, da allora, non sono mai cambiate.

La cosa che mi ha colpito è questo punto di vista, che poi è anche il mio, cioè che a una scelta, un accadimento, una conquista noi attribuiamo un segno positivo o negativo, ma in realtà tutte queste cose sono solo ciò che sono, cioè sentieri che ci conducono ad altri interrogativi, per cui può succedere che quello che consideriamo infausto in realtà si riveli con il tempo una necessaria esperienza, mentre un successo ci può talvolta condurre a fronteggiare cose che magari non volevamo, non desideriamo o semplicemente non avremmo pensato. Un bivio in fin dei conti è solo un bivio, privo di tutti gli orpelli che gli attribuiamo. A noi spetta percorrere in modo creativo la strada che per scelta, fortuna o circostanze abbiamo imboccato. In La neve dietro la porta c’è un abbandono per una donna più giovane, la morte dell’uomo, la possibilità di riconciliazione, di una nuova famiglia allargata, di una diversa complicità tra tutti i membri della famiglia. Cosa pensi a tal riguardo?

Penso che uno degli aspetti più interessanti dell’esistenza di ciascuno di noi sia la nostra capacità di andare avanti, nonostante gli urti che subiamo, e di comprendere e cambiare, soprattutto. Tutto qui. Non tanto quello che ci ha fatti cadere o vacillare – l’urto – ma il modo in cui riusciamo a sollevarci o ritroviamo l’equilibrio. Non tutti sono in grado di farlo, non sempre, perlomeno. A volte purtroppo non si può: il colpo è troppo forte, e penso a Magda, per esempio, la protagonista del racconto Vieni con me. Ma voglio credere, in particolar modo quando scrivo, che questa possibilità sia sempre data, e che la vita sia una partita aperta, un’occasione. È questo quello che succede alle due protagoniste di La neve dietro la porta, quando si trovano a dover affrontare insieme una difficoltà imprevista. È quello il punto del racconto a cui speravo che arrivassero.

Mi sembra che la quarta di copertina sia troppo perentoria rispetto alle storie stesse, e forse proprio questo mi aveva lasciato perplesso. In La Corsa, il racconto dove una madre assiste all’incidente sul bob del figlio, l’epilogo rimane aperto, tranne per l’indubbia gravità dell’incidente. In Vieni con me sei riuscita a coniugare forza narrativa e un approccio diverso al problema della violenza sessuale. Abbiamo due individui, la giovanissima e obesa Magda e il maturo Giuseppe, sono entrambi disfunzionali, soprattutto lui che è affetto da gravi turbi psichiche e una visione assolutamente distorta del femminile. Eppure il finale è apertissimo. Magda illumina qualcosa nella sua vita, l’inizio di una consapevolezza diversa. La violenza forse non si consumerà. È interessante che quello che emerge tra di loro si palesa nel solo modo in cui solo potrebbe accadere, ovvero nella dimensione delle personali sensazioni, del sogno, della  metafora, non potendo capitare attraverso una confessione, perché quella allontanerebbe, come solo le parole possono allontanare (o avvicinare) in certi casi. Cosa ti ha ispirato particolarmente nelle stesura di questi due racconti?

Per quanto mi riguarda – è quello che intendevo dire prima, quando accennavo a Magda – il finale di Vieni con me non è un finale ambiguo, nel senso che la violenza purtroppo si consuma. Ma Vieni con me non è solo un racconto sulla violenza esercitata da un uomo disturbato nei confronti di una ragazzina inerme: è un racconto sull’amore, sul suo mistero, sulle sue strane, e a volte pericolose, manifestazioni. E La corsa non è solo un racconto su una madre che non trova la forza di reagire quando sarebbe necessario farlo in fretta. Non so che cosa mi abbia spinta a scriverli: questa è l’unica risposta onesta che io possa davvero dare. Immagini, visioni. Paure, probabilmente. Inquietudini. C’è molto di me, è ovvio – sono stata una ragazzina timida e isolata, in cerca dell’amore, e sono madre, ormai – ma nei racconti e nei romanzi tutto prende forma in altro modo e subito incomincia a muoversi seguendo traiettorie imprevedibili. L’origine si perde e non rimane altro che la storia a cui sto lavorando: il punto è solo scriverla nel miglior modo possibile. Alla fine ci si dimentica da dove si è partiti, e questo è un bene.

In La Pistola, L’economia delle cose e L’invasione eventi apparentemente minimi o nuove percezioni possono essere indizio di molto altro (aspetto del resto presente in tutti i racconti), un po’ come quando apriamo una porta celante una stanza che sappiamo non essere vuota, di persone o di cose. Credi anche tu che il nostro quotidiano sia la cartina tornasole per capire molte cose? Che basta alzare il nostro livello di percezione per scoprire molto? A differenza di una certa cultura dominante, che invece vira verso l’alto il volume di ciò che ci circonda per farsi sentire di più e invece copre, sommerge. Se invece abbassiamo il tono scopriamo un sottobosco interessante, ricchissimo. E ciò è anche uno dei compiti dello scrittore. In questo senso tutti i tuoi racconti sono molto letterari. In La Pistola in particolare, la realtà dell’accaduto/incidente rimane avvolta nel mistero. La quotidianità nasconde la straordinarietà, che a sua volta cela altri microcosmi. Ci sono momenti, apparentemente ordinari, in cui certe cose accadono, e anche queste paiono essere ordinarie, ma non lo sono affatto. Occorre coglierne la straordinarietà, che è davvero tale, quella delle cose che accadono tra i rumori del mondo. E a volte anche una percezione stanca e invecchiata è comunque rivelatrice.

Non c’è niente che mi interessi più della quotidianità, che molti, chissà perché, considerano “banale”. La vita di tutti i giorni non è mai banale. Nessuna esperienza lo è, nessun desiderio o sogno o speranza o fallimento o piccola conquista. Le cose che contano e ci cambiano, dal mio punto di vista, accadono nei nostri soggiorni, nelle nostre cucine, sulle nostre automobili, nei nostri uffici. Questo non vuole dire che il resto non abbia alcun valore, che la Storia non abbia alcun valore, che non ce l’abbiano gli avvenimenti collettivi. Vuol dire solamente che dovremmo incominciare a guardare con attenzione quello che ci accade e le persone che ci stanno intorno, le persone che amiamo, quelle con cui abbiamo confidenza e che crediamo di conoscere, illudendoci che non riserveranno mai sorprese – e invece poi succede. Come potrebbe un mistero così grande essere banale?

Fratelli è struggente. Mi viene da pensare che la vita possa essere anche un’occasione mancata, a partire da tutte quelle situazioni che ci hanno visti insieme, ma in cui non ci siamo riposti l’uno nell’altro nel modo opportuno, come sarebbe stato possibile. Per cui un fratello e una sorella passano molto tempo a giocare a ping pong, ma in realtà coltivano dentro se stessi sogni, rivendicazioni e istanze che non emergeranno mai tra di loro, per reticenza, resistenze, incomunicabilità, pregiudizi. Il tavolo da ping pong è e sarà l’unico spazio della condivisione. Il territorio di un rammarico, di occasioni mancate, di cose che forse dovevano o non dovevano andare così. Non in ambito strettamente familiare, ma anche a me è capitato di vivere esperienze simili. C’è dell’autobiografismo in questo racconto? O in altri? Qual’è la tua esperienza in tal senso? Stranamente il gioco, gli sport o le attività adolescenziali rivelano ma pure occultano. 

Certo, ci sono le occasioni mancate, e ci sono i rimpianti, le cose che avrei voluto dire e non ho detto. Chi non ne ha? La scrittura rimette in ordine e dà senso, anche se solo per un attimo. Ogni mia storia è autobiografica, non perché mi sia accaduto nei minimi dettagli quello che racconto, ma perché anch’io, appunto, ho le mie occasioni mancate e i miei rimpianti, i miei rimorsi: so di che si tratta, e devo farci i conti. L’unico modo che conosca è scrivere. Comunque, non ho mai considerato la scrittura un gesto terapeutico. Le cose che ho bisogno di ordinare, di guardare da vicino e di capire, sono soltanto una porta che si apre, spingendomi dentro una stanza che ancora non conosco. Funziona così. È lì che voglio andare. Scrivere un racconto o un romanzo significa restare un po’ di tempo in quella stanza, insieme ai personaggi che la riempiono. Da quale porta ci sia entrata, che cosa mi abbia spinta, lo ripeto, non è così importante.

In Cosa manca? mi piace moltissimo come descrivi attraverso la storia un aspetto in modo ammirabile, che anche io trovo condivisibile, ovvero come una vita possa imperniarsi sui dei racconti stessi, e poco importa che essi siano reali, parzialmente tali o inventati. A un certo punto diventano veri, condizionano la nostra esistenza, o semplicemente finiamo per crederci. E ci sono racconti fantasiosi più veri della realtà. Un racconto, una narrazione, un accadimento immaginario o reale (azzardata divisione) sono anche qualcosa su cui imperniare un’esistenza. Questa donna che narra al proprio bambino d’aver sentito molti anni prima la voce di Dio, entra proprio nel cuore. Elena, dove si spinge e dove ci può portare il piacere, la necessità e la voglia di narrare? Attraverso il potere della narrazione possiamo scoprire davvero nuovi confini? Qual è la tua idea?

“Nel parlare del nostro passato, mentiamo a ogni respiro”, scriveva William Maxwell nel romanzo Ciao, a domani, uno dei libri più belli che io abbia mai letto. Non credo che Maxwell intendesse dire che lo facciamo apposta – anche se per qualcuno può essere così. Credo piuttosto si riferisse al fatto che siamo tutti narratori, che non possiamo non esserlo, e che il nostro passato diventa subito una storia che raccontiamo e che ci raccontiamo e che poi cambia con il tempo. Sono d’accordo. La nostra vita è ciò che raccontiamo, sono le storie su noi stessi che inventiamo. Inventare significa trovare, no? Trovare un senso, per esempio, e non è poco. Ci sono i fatti, chiaramente – il matrimonio, il giorno della laurea, il giorno in cui abbiamo perso una persona cara, il giorno in cui è nato nostro figlio – ma tutti i dettagli e le impressioni, le sensazioni, sono un patrimonio narrativo. Quante volte ci chiediamo: “Ma ho reagito così? Davvero? Era così che la pensavo allora?”. Per questo poco importa che la protagonista di Cosa manca? abbia sentito o meno la voce di Dio. Il semplice fatto che lo racconti al figlio significa che, in qualche modo, anche se solo nella sua immaginazione, dev’essere accaduto, e questo dice comunque qualcosa di lei, di quello che desidera, ed è perciò una verità, in senso narrativo. È questa la verità che m’interessa, quando scrivo. Il resto – mi riferisco ai fatti – è fuori discussione, ma è quello che Wislawa Szymborska definiva “curriculum”. È importante, certo, ma non ci porta mai molto lontano.

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Elena Varvello esordisce nella poesia con le sillogi Perseveranza è salutare (Portofranco, 2002) e Atlanti (Canopo, 2004). Con la raccolta di racconti L’economia delle cose (Fandango, 2007), nel 2007 ha vinto il Premio Settembrini ed è stata finalista del Premio Strega, mentre nel 2008 si è aggiudicata il Premio Bagutta nella sezione Opera prima. Nel 2011 pubblica sempre con Fandango il suo primo romanzo, La luce perfetta del giorno. Insegna Racconto e Romanzo alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Pino Torinese.