«La vuoi una storia questa sera piccolo Gabo?» Adìos, Gabriel Garcia Marquez

«La vuoi una storia questa sera piccolo Gabo?» Adìos, Gabriel Garcia Marquez

“C’era una stella sola e limpida nel cielo colore di rose, un battello lanciò un addio sconsolato e sentii in gola il nodo gordiano di tutti gli amori che avrebbero potuto essere e non erano stati”. (Memoria delle mie puttane tristi)

La camera da letto era illuminata da un sole caustico, quello che sembrava essere l’unico raggio giallo del mondo splendeva attraverso le finestre verdi e irrompeva sull’ultimo baluardo dell’esistenza sconsolata: un letto metallico con un lenzuolo bianco, piuttosto sudato e sporco.

I baffi rilucevano. Ogni singolo barbiglio, più lungo del solito più selvaggio di sempre, vibrava dagli spasimi di nervosismo. Era piombato nella sua pozza di fango. Sorrideva sicuro, allusivo e complice come sempre, come quella vecchia pubblicità televisiva di alcuni anni fa. Un altro viaggio davanti agli occhi, altri mille chilometri di sogno da percorrere, e la difficoltà quotidiana, almeno da alcuni anni, ma ancora improvvisa, dura come le pietre, di non riuscire a trovare il filo logico tra le parole: soledad, bigote, aqua e poi un suono gutturale che sembra configurarsi come se fosse Rodrigo, e ancora soledad, e agrio, e zapatillo e humo e quiero e amor, e tomar, e tomatillo e poi ancora soledad.

Tranquilina era lì, seduta sulla poltrona rossa, i capelli lunghi nascondevano le rughe del viso mascherando ancora di più la sua età indefinibile (poteva passare dai trenta ai cent’anni in un minuto): sembrava una venere scura, una strega, forse non era mai stata tanto bella. Nelle mani aveva delle carte da gioco che muoveva di continuo con la sicurezza di chi gode della propria potenza, dell’essenza di sapere, di vedere ciò che non ha corpo.

«La vuoi una storia questa sera piccolo Gabo?»

Il medico messicano dalla barba scura scuote la testa. Si strofina gli occhi. Ha una mano in tasca, l’altra poggiata sulla spalla di Gonzalo. Un’infezione a quasi novant’anni è una sentenza da cui non si scappa, non c’è appello che regga. Ma lui è ancora lì. Steso per terra come un pugile triste nel limbo della conta dei secondi, il vero dramma del solitario parte minuscola e viva del mondo: l’incontro è alla svolta, la fine è tratta, l’avversario indomabile, il nove è già passato. In quell’attimo di dolore che dura un anno sembra sorridere però. Le labbra d’improvviso si scuotono dal torpore delle ripetizioni. Esce un fiato leggero e nuovo e le parole prendono una lieve seppur indefinita forma. Infatti nonostante la danza elastica della labbra, i suoni non si modulano più. I pensieri sembrano assenti, ancorati a una sedia di velluto di settanta e più anni fa. A volte nella fortezza del silenzio irrompe un cuore scoperto, un ventre silenzioso di ragazza dalle gambe sinuose, dalla faccia grassa: il ricordo in chiaroscuro di una fotografia anni quaranta. Ma nessuno presta attenzione al soliloquio. Il movimento della bocca è un fatto meccanico per tutti in quella sala, quasi una vecchia lancetta di un orologio rotto e nulla più, la misteriosa agrodolce agonia dell’abbandono, la pace del figlio delle stelle.

«…Stelle! Siediti qui, che ora Tranquilina ti racconta la storia del figlio delle stelle e dell’oro del mattino. La conosci già? Oh certo che la conosci, non puoi non conoscerla se sei stato giù al canale a pescare con i bimbi delle case gialle… ma devi sapere che tra il canneto e la riva fangosa, sul lato sinistro non su quello destro, vi è una pietra della luna, che nasconde il luogo dove la vita si lascia andare a una pausa del mondo, e il profumo del mattino, quello delle frittelle e del latte caldo si mescola all’ultimo sogno di un uomo maturo, dai baffi larghi, dalle spalle ricurve sulla pancia addolorata, sdraiato per l’ultima volta su un letto. Sì. Un maestro di fiabe che si sta per svegliare nell’altro mondo. Forse è ora di accoglierlo, di scuoterlo presto da quelli spasmi, mentre è li che aspetta e spera che l’ultimo minuto sia meno complicato della primigenia goccia d’amore da donare alla donna più antica… Beh devi sapere che quella pietra…» 

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Non credo si possa dire addio in nessun modo a Gabriel Garcia Marquez, non lo credo perché nonostante l’ultimo viaggio verso la meta che tutti attende, la sua figura è stata per trent’anni, dalla vittoria del premio nobel nel 1982, il prototipo ideale di scrittore per ogni lettore del globo. Basterebbe pensare che Cent’anni di solitudine, titolo di una bellezza effimera che rimbomba pesante nel crudo realismo di una vita condotta davvero nell’impenetrabile guscio della soledad di un genio, nel 2007 è stato riconosciuto come l’opera in lingua spagnola più letta e diffusa del Novecento, nell’insieme cronologico dell’eternità si è piazzata al secondo posto, dietro al Don Chisciotte; cioè l’opera che per eccellenza rappresenta l’archetipo della letteratura spagnola, come per noi la Commedia dantesca non può che valere simbolicamente, più di ogni altro testo, la cima più alta del Parnaso letterario italiano. Ma lo scrittore colombiano non è stato solamente il narratore favolistico delle vicende immortali vissute tra natura, folklore e poesia della famiglia Buendía che tra scioperi, istituzioni nazionali (la compagnia della frutta), i tre anni della Guerra dei Mille Giorni vede la propria storia esaurirsi nello specchio del particolare assurdo tramite la nascita del frutto di un incesto: il bambino con la coda di maiale, allegoria, forse, di un degrado profondo. Il suo esordio avvenne nel 1947. Tanti furono i romanzi e di più racconti, fu tanto prolifico da attingere dalla propria esistenza pagine incredibili e uniche per la potenza sociale, come Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile (testo assurdo come la dittatura di Pinochet). Lo stile come si è avuto modo di dire è stato elogiato per il realismo magico nutrito di un’allegoria fanciullesca. L’ultimo libro da cui è tratta la citazione ad apertura di questo testo è del 2010. Quando ho saputo, questa mattina, della morte di Gabriel Garcia Marquez il breve raccontino è ciò che ho pensato.

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