“La regina di Ica” di Daniela Raimondi

Recensione di “La regina di Ica” di Daniela Raimondi, vincitrice del Premio Luzi.

La regina di Ica, da poco insignito del prestigioso premio Mario Luzi per la poesia edita, è l’ultima raccolta della scrittrice (e saggista) Daniela Raimondi. Il volume è diviso in due parti, entrambe di nuovo divise in due sezioni (La città dei morti e Pike; La riva dei sopravvissuti e La città dove si aggiustano gli uomini). La struttura del libro è tutt’altro che ornativa: fin dalle battute iniziali della prima sezione il lettore si immerge in un flusso discendente che, mai privo di una speranza circolare (e a volte pietosa), come accade nei versi finali di S’Accabbadora (pp. 22-3, «Lasciava sul letto un corpo tranquillo. / Sul volto aveva solo l’ombra di un piccolo spavento. / Qualcosa che somigliava a un sogno, / forse un sorriso»), trova un’esplicita dichiarazione di compiutezza, e una via di fuga, un passaggio di risalita ora in questa Resurrectio (pp. 56-7), dai suoni cupi e affascinante di certa poesia amerinda (pensiamo a Gioconda Belli) funzionale, soprattutto, nell’atto elettivo della memoria ancestrale vivificata (Resurrectio, vv. 33-35: «Il mio occhio meccanico / punta alla luna / e ricorda, ricorda.»); ora in elementi topici e iperletterari, come accade con il “ritorno” della Città dei vivi (pp. 77-8, v. 1 «Torniamo sempre alle città dei vivi»; v. 16 «E torniamo con le ossa stanche, il cuore azzurro»; v. 24 «Torniamo nell’ora buona e splendida»).

Illuminazioni poetiche quelle della Raimondi, autrice emigrata in Gran Bretagna, che giustificano e ‒ a minimo parere di chi scrive ‒ motivano il recente riconoscimento del premio Luzi. Poesia che si muove su un reale letterario, fatto di impressionanti leggerezze che celano in una direzione profondamente lirica (per cui densa di ambiguità) riflessioni complesse e cosmiche, espresse in significativi emblemi attivi (forse sulla direzione della lectio montaliana a cui nessun poeta contemporaneo può esimersi?), come la vibrante «luce azzurrina» portata dal vento, elemento quest’ultimo tutto naturale pronto a confortare la meraviglia dolorosa (e dolosa), ma anch’essa implicitamente tutta al naturale, della vita stessa nella poesia Geografia per comprendere il mondo (pp. 75-6).

Il compimento di questa ricerca anagogica nell’esistenza contemporanea fatta di tragedie lontane ma, ormai, almeno grazie al coinvolgimento dei mass-media, anche incredibilmente vicine, trova la sua espressione nelle descrizioni fatte con una lingua che privilegia la paratassi, quasi la giustapposizione, e in ambito retorico con fenomeni di accumulazione (a volte anche con accostamenti irregolari come in Il seme del giglio selvatico, p. 35 vv. 10-2 «Ma nel suo sangue cresceva l’urgenza del viaggio / l’embrione, l’acacia / la bocca che feconda»), tutti elementi che servono a connotare la straordinarietà dell’immagine stessa, come accade agli Eroi (vv. 1-4 «Immagina la paura che apre / per sempre la bocca dei bimbi. / Immagina la morte calva, / i cadaveri velati di gloria», dove nel verso quattro il verbo ha solo un valore nominale), elevandola quindi di per sé in piena autosufficienza, verso l’orizzonte poetico del “significato”, una biunivocità che svuotando riempie: una ricerca che si sposa perfettamente con i componimenti del Luzi civile, ma che verso la via cosmologica non disdegna di rifarsi a modelli stranieri, spesso femminili (la Anjuman, la Storni, la Plath), omaggiati, dichiarati e non (come è giusto che sia, ma ci domandiamo se un certo tipo di influsso non possa averlo avuto almeno nello stile spezzato e in certi accostamenti arditi la lirica stravolgente della Rosselli, almeno per l’ambito della letteratura italiana) nelle note a fine volume.

Di sicuro si è davanti ad una poesia impregnata di una letterarietà vivissima ma capace di dare voce anche alla visio e alla bios dell’autrice. Diversi i casi in cui emerge una verosimiglianza che non è per nulla plastica ma più che mai viva. Concludiamo proprio con alcuni versi centrali (vv. 10-3) di Le stanze segrete di Frida (pp. 26-7) dal forte valore evocativo: «Ci sono biglietti dell’autobus, / il ventaglio, il rossetto, / le piccole mani di Pablo, / un testo di Trotskij e parole d’amore».

ica