Intervista a Daniel Filoni, autore di «Luci in fuga»

Intervista a Daniel Filoni, autore di «Luci in fuga»

Samuel Bossini intervista Daniel Filoni, autore di «Luci in fuga», raccolta di haiku pubblicata da Ensemble.

Come lei sostiene: Lo haiku è una composizione poetica che consta di diciassette more (unità fonetica più breve della sillaba). Queste more, riportate alla nostra grammatica, alterano la sua composizione e il suo significato?

Non influisce negativamente se la struttura metrica non si trasforma in una gabbia per la creatività del poeta, altrimenti il processo creativo si riduce ad un mero conteggio sillabico. Capisco il rispetto per la tradizione, con il quale concordo, ma non bisogna dimenticare che tutto nello haiku è un adattamento, una trasposizione, per molti aspetti forzata della sillabazione giapponese; quindi mi trovo in disaccordo con coloro che fanno del maniacale conteggio delle sillabe il fine delle loro poesie. A ben vedere, tutto ciò, quando avviene, preclude l’intuizione poetica, relegandola in una dimensione sussidiaria all’interno del processo creativo. Insomma: sì al rispetto della tradizione metrica giapponese, ma con garbo, senza nessuna ossessione maniacale. Poiché, a parer mio, prima viene l’intuizione poetica, ossia, ciò che il grande poeta tedesco F. Schiller chiamava: “disposizione musicale dell’animo”, e poi il lavoro sugli elementi formali; se così non fosse il poeta si trasformerebbe in una sorta di “ragioniere”, dedito, prevalentamente, al conteggio sillabico; e ciò allontana, secondo me, dal reale processo creativo, che, per molti aspetti, necessita più liberazione dall’io del poeta (soggettività – autocoscienza) che il totale controllo del processo compositivo che l’ipertrofica attenzione per la forma comporta.

Nel Latinoamerica lo stile Barocco ha molta presenza. Nella struttura sillabica della nostra quotidianità, per esempio. Come influiscono queste more, la cui origine come costruzione è più sobria, austera, rispetto alla nostra lingua?

Il Barocco, forse, è lo stile che più caratterizza il Latinoamerica, nel quotidiano, come nella produzione artistica, ed è per ciò che, a parer mio, il genere haiku, con la sua struttura formale austera può trovare terreno fertile, come esempio, modello di vita, volto alla misura e dedito all’amore per le cose semplici dell’esistenza. Purtroppo nella mentalità comune la semplicità è considerata sinonimo di povertà, quella semplicità che, invece, nella cultura giapponese è portatrice di senso: il senso che l’Occidente ha smarrito, a causa dell’irrompere prepotente del nichilismo, che ha annientato i valori e reso gli uomini insensibili. Ed è per tale motivo che il genere haiku risulta più che mai significativo e vigente per l’attualità degli stati occidentali.

In Latinoamerica, oltre a Borges e Lugones, il poeta messicano, Juan José Tablada (che lei cita anche nel suo articolo), introduce lo haiku nel nostro continente, secondo Octavio Paz e altri critici, anche se ciò è negato da altri ricercatori. Che relazione crede che ci possa essere tra la cultura orientale e la nostra, che a prima vista sembrano opposte e così distanti nell’adottare lo haiku?

Proprio come ogni grande cultura presenta la sua tavola di valori, apparentemente antitetici a quella a cui si contrappone, la cultura occidentale può e deve incontrarsi con le altre culture. Ecco, io direi, che più che incontrarsi, nel XXI secolo, la cultura occidentale ha il compito etico di confrontarsi e relazionarsi con le altre culture, in particolare con quella orientale, la quale può, poste le sue caratteristiche, fungere da stimolo e da modello. Sicché, secondo il mio modo di vedere, dal momento che già da alcuni secoli la cultura orientale è giunta in Occidente, grazie soprattutto al lavoro di approfondimento e di traduzione fatto dal Circolo di Jena, in particolar modo dai fratelli Schegel, noi abbiano, oggi un’occasione unica per far tesoro, in tempi di nichilismo, dei valori profondi della cultura orientale. E quale cultura come quella giapponese, con la sua profonda ed austera arte può assolvere a questo compito? Dunque, io credo che il genere haiku possa assolvere a tale necessità: fungere da modello per la cultura occidentale, e, nello stesso tempo, presentarsi come uno stimolo per la rigenerazione sentimentale, affettiva ed etica del cittadino occidentale, oramai fossilizzato e irretito a causa della fagocitante macchina consumistica, che ottunde le menti ed impoverisce i cuori.

 

Cambiano i temi dello haiku latinoamericano rispetto a quelli giapponesi?

Ogni trasposizione è sempre un adattamento, più o meno forzato, come nel caso della transizione dalla lingua giapponese all’italiano o allo spagnolo. I temi possono cambiare perchè la sensibilità e la cultura sono differenti, sia nei poeti latinoamericani come in quelli europei. Concioché, nonostante nella tradizione giapponese, e nel genere haiku, l’elemento naturale venga posto al  centro dell’estetica tradizionale, alcuni poeti occidentali, invece, si sentono autorizzati, per la loro diversa sensibilità, a trattare di altre realtà, come quella delle metropoli, o, addirittura, quella etico-filosofico, o, anche, politica. Pertanto, alla luce di quanto detto, i poeti occidentali fanno bene a trattare temi diversi da quelli giapponesi.

Posta l’austerità dello haiku, lo scrittore occidentale lo vede come una sfida non solo di stile, anche spirituale, al momento di scrivere haiku?

Più che una sfida lo vedo come un’oppurtinità, un motivo di confronto e di superamento dei tradizionali canoni metrici occidentali, perché solo il confronto con le altre culture offre lo stimolo per superarsi continuamente e per non restare ancorati e fossilizzati nella tradizione, che va rispettata e, tuttavia, superata allo stesso tempo. Si tratta della diffusione di elementi che stimolano e provocano la formazione di una nuova sensibilità che dopo trasforma, secondo lo spirito occidentale, il materiale culturale che proviene dall’Oriente.

Nell’eccellente articolo che lei ha pubblicato per “La Prensa”, ci dice: Lo haiku non perde vigenza, sostiene che lo haiku è una contemplazione della naturalezza. I  poeti che abbiamo citato: Tablada, Lugones, Borges, sono scrittori che hanno vissuto in città. A volte è più il vincolo con la malinconia rispetto a quello intrattenuto con la natura, dove il poeta latinoamericano percepisce la sua vicinanza allo haiku?

Capisco la sua domanda e la trovo pertinente. Tuttavia non posso rispondere precisamente, dal momento che sono argentino solo di adozione e non so esattamente se per i poeti latinoamericani risulti corretto ciò che lei chiede. Tuttavia posso cercare di risponderle dal punto di vista di un europeo, italiano, che è nato e cresciuto in una metropoli come Roma. Mentre per il genere haiku giapponese l’elemento naturalistico appare centrale, giacché questo possiede sempre una componente naturalistica, in linea con il principio zenista della quiddità, dell’essenzialità onnicomprensiva del quotidiano, per i poeti occidentali, invece, questo vincolo è meno stretto. Ecco perché, pur trovando nella natura, o come sostiene acutamente lei nella malinconia della natura (di cui hanno soltanto un vago ricordo, persi tra i fumi delle metropoli), motivo di ispirazione, si sentono, tuttavia, autorizzati a slegarsi, con garbo, dall’elemento naturalistico che l’estetica giapponese invece contempla necessariamente.

 

Spesso parla e con cura nel suo articolo, dell’origine zen dello haiku. Dottrina filosofica oggi molto diffusa. Si sono aggiunte allo haiku altre filosofie occidentali nella sua formazione?

Penso che la filosofia contemporanea occidentale, che nasce sulle rovine dei grandi sistema filosofici ottocenteschi, dia motivo al genere haiku di svilupparsi e di diffondersi in Occidente. La corrente filosofica del “Postmoderno” e quella del “Pensiero debole”, congiunte alla diffusione del nichilismo, aprono la strada all’estetica dello haiku. Davanti alla prospettiva dell’assenza di una corrente filosofica che possa restituirci, nella sua sistematicità, verità incontrovertibili circa l’Essere e al cospetto dell’assenza dei valori e della disarticolazione dei grandi sistemi filosofici, si sviluppa, in Occidente, il genere haiku. Che cosa sono, fondamentalmente, gli haiku? Io rispondo così: “semplicità, brevità e bellezza”. Gli haiku somigliano a quei fiori che crescono su terreni aridi: sanno commuovere per la loro semplice e austera bellezza. E l’Occidente, dopo la grande decadenza, che ne caratterizza la cultura contemporanea, ha bisogno di un nuovo inizio, fatto di cose semplici ma austere nello stesso tempo. E il genere haiku risponde a queste caratteristiche. Non sarà, forse, questo il motivo per il quale questo genere si sta diffondendo con grande slancio nell’Occidente?

Lei ci dice: Il sabi, o la bellezza inmediata che trova espressione nel linguaggio semplice e immediato, e che si contrappone al hanayaka (la bellezza viva e significativa delle cose mondane). Se l’Occidente è contaminato da qualcosa è dal mondano, frivolo. Trova la poesia come un luogo inaccessibile. Lo haiku come crede che possa sopravvivere nei nostri giorni, senza restare vittima di questa mondanità e di questa frivolezza? Sono attitudini di vita che possono essere legate con i temi utilizzabili dello haiku?

Esattamente. Il sabi, o la bellezza solitaria, che trova espressione nel linguaggio semplice ed immediato, è la controfigura della cultura occidentale, anche se qui più che di cultura, come hanno teorizzato, con acutezza, W. Adorno e M. Horkheimer, nella loro “Dialettica dell’illuminismo”, si dovrebbe parlare di “industria culturale”. Quindi, da un lato “l’industria culturale”, che cerca di schiacciare tutto ciò che non rientra nella cultura dello spettacolo, volta al becero consumismo, e dall’altra parte il sabi, che ci presenta una visione antitetica: il solotario/a poeta immerso/a nella spontaneità della natura. Come conciliare questi due aspetti inconciliabili?  K. Marx direbbe che la dialettica della storia si muove in questo modo: proprio quella cultura che ora ha il sopravvento genera, inconsapevolmente, i presupposti per un “rovesciamento della prassi”, cioè per un cambio di paradigma. Ecco, io non credo che si possa giungere facilmente ad una rivoluzione radicale in Occidente, ma auspico perlomeno la nascita di una nuova coscienza emergente che possa iniziare a riavvicinarsi alla natura non economicamente, ma esteticamente. Il sabi, difatti, è una strada che conduce al di là del dominio dell’ “industria culturale”, a riscoprire la bellezza della natura e del suo ciclico divenire.

Crede che la lettura, oltre alla scrittura, esige una formazione previa per addentrarsi nel suo contenuto?

Non credo che si necessiti una formazione, ma penso che sia oppurtuno, iniziare ad avvicinarsi, gradualmente, all’affascinante mondo del genere haiku, mostrando attenzione ed interesse per la sua estetica così particolare, il quale deve nascere non dalla costrizione ma da una spontanea curiosità. È chiaro che possedere la conoscenza dell’estetica haiku permette di avvicinarsi con profondità ai singoli componimenti, cosa che, senza gli strumenti opportuni, non si verificherebbe.

E l’ ogosoka, o solennità dell’esperienza sensibile, in antitesi, a questo senso del ridicolo, okoshii, che in prima istanza risulta nella dissacrazione o nel grottesco. Lei cita nel suo articolo. Quale sarebbe il limite della dissacrazione nella composizione dello haiku?

La dissacrazione è data nei componimenti haiku, a parer mio, dal sentimento che il poeta investe nei confronti della fugacità della natura. È una desacralizzazione indiretta, tuttavia efficacissima. Pur non nominando il grottesco della sottocultura dell’“industria culturale”, tuttavia, indirettamente, le dichiara guerra, mostrando, tacendo, la sua falsità e la sua arroganza. È possibile scorgere, oggi, qualcosa dietro il grottesco dell’ “industria culturale”? Ecco, il genere poetico haiku ci fa sentire che qualcos’altro è ancora possibile e che altre possibilità, oltre a quelle consumate dall’industria culturale, possono venire a manifestazione. E ce lo dice proprio come la grande arte sa fare, cioè: tacendo.

Da sempre si è parlato della differenza tra un filosofo e un poeta. María Zambrano, filosofa spagnola, ci dice che la differenza si specifica nel fatto che il filosofo ricerca la verità, mentre il poeta la bellezza. Il filosofo non sceglierà la bellezza, nemmeno un poeta la verità. Lei ci dice: el makoto (verità), indice della pienezza poetica e spirituale degli haijin che, immergendosi nella natura, si fanno uno con essa. Lo haiku ha come priorità la verità prima della bellezza?

La differenza c’è ed è sotto gli occhi di tutti. Lasciando da parte la grande filosofa spagnola, io mi rifarei alla distinzione che ne fa Aristotele nella sua “Metafisica”: pur essendo lo stesso il fine, cioè la ricerca della verità (estetica per il poeta ed ontologica per il filosofo) tuttavia le due categorie si differenziano per il metodo. Mentre il poeta lo fa con narrazioni immaginose, il filosofo la ricerca con il logos, cioè con la ragione. A parer mio, al di là di questa disamina filosofica, anche il poeta può giungere alla verità, senza escludere la bellezza. Tuttavia la verità a cui perverrà non è la verità della logica, ma quella dell’estetica, appunto, la sola verità che può farci sentire la necessità del senso, in assenza di senso, ciò che la filosofia, invece, non può fare, dal momento che agisce sul terreno esclusivo della logica (tranne alcune pochissime eccezioni).

Lei vede che lo haiku ha più diffusione nel nostro secolo XXI, che nel secolo XX? Se è così a che cosa crede che si debba?

Mi sembra che il XXI secolo sia, per le ragioni filosofiche che ho espresso sopra, più conforme/disposto a dare spazio ad un genere poetico come quello dello haiku, che fa della brevità, della semplicità e della bellezza i lineamenti della propria estetica. Forse, la cultura occidentale nel XX secolo, non era ancora giunta a quel grado di maturità e per certi aspetti di degenerazione della tradizione che soltanto può spingere i nuovi poeti a battere strade non ancora percorse. Le due guerre mondiali dovevano completare la distruzione non soltanto materiale ma anche culturale per la rinascita di una nuova sensibilità, che la diffusione del genere haiku presuppone.

Octavio Paz nel suo testo nella traduzione che ha fatto con Eikichi Hayashiya, di Oku no Hosomichi,all’inizio del 1956 ci dice: La diversità e anche la contapposizione tra il punto di vista contemporaneo e del primo quarto del secolo non impedisce che un ponte unisca questi due momenti: né prima né adesso il Giappone è stato per noi una scuola di dottrine, sistemi o filosofie, piuttosto di sensibilità. Il contrario dell’India: non ci ha insegnato a pensare ma a sentire. Lei è d’accordo?

Concordo con Octavio Paz nel senso che la cultura giapponese con la sua profondità, con la sua austerità e con il suo rispetto per l’educazione può, veramente, rappresentare un paradigma per una società come quella occidentale, oramai asettica ed anestetizzata, perché irrettita dai miraggi della società consumistica, che, il più delle volte, non sa mantenere ciò che promette. Pertanto, ben vengano tutti quegli stimoli che motivano e che spingono a gettare le basi per la rigenerazione della cultura. Dobbiamo, quindi, accoglierla a braccia aperte, ancora più intensamente quando ci si riferisce a culture profonde come quella giapponese.

Come crede lei che è la migliore forma di affrontare la traduzione di un haiku, avendo a mente un campo d’interpretazione così amplio come la contemplazione?

Ancor prima della traduzione, io credo sia più importante la disposizione con la quale si affronta la lettura di un haiku. Per esempio, se non si capisce che non si possono leggere venti haiku nel giro di pochi secondi non si arriverà mai a comprendere il senso di una siffatta lettura. Difatti, ho intitolato il mio secondo libro di haiku: “Tempo ritrovato”, proprio perchè la lettura  di un haiku necessita ritrovare tempo per la partecipazione e per la contemplazione della realtà, abitudine questa che noi occidentali abbiamo perduto, a causa dei ritmi frenetici impostici dalla società rapidissima in cui viviamo. Il tempo dello haiku è il tempo della bellezza, della lentezza e della partecipazione contemplativa. Anche qui abbiamo da imparare dalla cultura giapponese.

Ayako Kisshimoto, membro della Fondazione culturale argentino-giapponese, in un’intervista sostiene: il contatto con l’Occidente ha fatto sí che i giapponesi si sono trovati a dare risposte alle domande occidentali e si sono sforzati per capire i loro costumi. Lei crede che l’Occidente ha dato e dà risposta ai costumi orientali e questi a quelli degli occidentali? O entrambe si muovono nell’equivoco, soprattutto la cultura occidentale per la sua idea dell’orientale, proprio rispetto al Giappone in particolare?

Molto interesante. Al di là degli studi comparati moderni (filosofia, letteratura e religione) mi piacerebbe spiegare ciò che lei mi sta chiedendo con una descrizione icastica. Certamente il contatto tra culture provoca un incontro-scontro, cioè una dialettica. Il segreto, a mio modo di vedere, è quello di non porsi rispetto ad un’altra cultura in una posizione superiore, giacché non esiste superiorità di alcuna cultura rispetto ad altra. Forse, la chiave di volta, è porsi nei confronti delle culture diverse con un atteggiamento filosofico (erotico). Come i primi filosofi greci pur essendo stati consapevoli di non poter raggiungere la sapienza (perché sapienti sono solo gli dei) erano mossi dal desiderio della conoscenza perché privi di quest’ultima, allo stesso modo dovrebbero porsi coloro che si avvicinano ad una cultura differente, ovvero: consapevoli dell’impossibilità di comprenderla definitivamente, devono, mossi dall’amore della conoscenza, cercare di avvicinarsi il più possibile ai segreti e alla bellezza di quest’ultima. Sicché, una volta che le culture entrano in contatto, risulta più agevole prendere il meglio che ognuna di queste può offrire.

Che posto crede che spetti allo haiku nel Giappone di oggi, essendo un paese del cosiddetto Primo Mondo, così tecnologico e moderno, creatore di robots e case automatiche?

Bella domanda. Il genere poetico haiku dovrebbe essere il contraltare di questa cultura tecnologica. Ossia, deve mostrare che anche nel nostro mondo ipertecnologizzato, la poesia può farci sentire il mondo in modo non economico, cioè estetico. Ecco questo credo sia il posto che spetti al genere poetico haiku rispetto alla contemporaneità: continuare a farci sentire la semplice bellezza della natura in divenire non in modo economico ma estetico.

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