"Il Silenzio, Il Segno, La Parola" // Intervista a Michele Iacono

“Il Silenzio, Il Segno, La Parola” // Intervista a Michele Iacono

Intervista di Gino Pitaro a Michele Iacono, autore del saggio “Il silenzio, il segno e la parola” (L’Epos editore) in cui prova a tracciare un’ipotesi evolutiva sulla formazione del linguaggio, del segno e della parola.Il saggio di Michele Iacono, Il silenzio, il segno e la parola, è un testo davvero interessante. La peculiarità di questa trattazione ci permette di cogliere un’ipotesi evolutiva sulla formazione del linguaggio, del segno e della parola, come appunto suggerisce il titolo. Percorso evolutivo ben proposto attraverso un’analisi logica e di carattere epistemologico sulla genesi percettiva, cognitiva e comunicativa dell’uomo. Il silenzio, il segno e la parola riesce mirabilmente in un altro intento, quello di introiettare nell’uomo moderno un cammino evolutivo di epoche remotissime, fino ad avvertire dentro di noi le sintesi di homo erectus e habilis per giungere al sapiens, nei loro primi vagiti di relazione con se stessi e con il mondo.

Una prima domanda: da cosa è nata questa esigenza di analizzare i lunghi albori della comunicazione?

Da una curiosità e da una insoddisfazione. La curiosità nasce dalla peculiare novità che rappresenta la nostra specie che, per quanto inscritta nel solco di una biologia naturale, emerge con delle caratteristiche tutte speciali; la vita esprime a tutti i livelli comunicazione ma non nelle forme a noi note. Il linguaggio, la scrittura, l’arte, la cultura (religiosa, economica, politica) nell’uomo assumono tratti così caratteristici che non possiamo, ancora oggi, non meravigliarci del posto che occupiamo all’interno del mistero della vita. L’insoddisfazione è sorta dalle risposte che i filosofi, i linguisti, i semiologi, ma anche i biologi, hanno voluto dare intorno alla comunicazione umana. Per intenderci: paghiamo lo scotto di voler a tutti i costi restare all’interno di paradigmi storici, legati ad alcuni concetti quali: modelli dualistici mente/corpo; l’idea che corre lungo tutta la storia del pensiero che il linguaggio parlato sia innato; l’incapacità di opporsi ad alcuni mostri sacri che danno per scontato ciò che non lo è, per esempio, che il pensiero sia una entità che possa esistere senza corpo.

Lei sostiene che il segno viene prima della parola. Per chi volesse approfondire con la lettura del saggio, quali sono i punti cardine sui quali sostiene questa ipotesi?

Vi sono diversi motivi: il primo, ammettendo che il linguaggio parlato sia comparso per prima, dovremmo ammettere la capacità di un ascolto da parte di un spettatore, vale a dire un linguaggio che si sia immediatamente reso disponibile con la sua sintassi, morfologia e  lessico, con delle regole grammaticali per orientare la linearità del discorso. Il secondo, dovremmo ammettere una linearità ontologica con la creazione di un Io, soggetto che organizza la scena dove svolgere il suo dialogo. Il terzo: dovremmo ammettere una linearità che va dal pensiero all’io, alla formazione sociale, il tutto coordinato secondo strutture logiche, che mi sembrano improbabili nell’uomo sapiens primitivo (a meno che non ammettiamo la regola della creazione divina). Penso che con l’avvento del bipedismo, della scomparsa dell’estro visibile nella femmina di homo, l’utilizzo dei primi utensili, sia comparsa una “scrittura” di segni che ha permesso due eventi connessi: capovolgere l’effetto della memoria (un segno è visibile e resta), creare la distinzione dei generi sessuali in maschio e femmina. La permanenza dei segni ha sollecitato un nuovo modo di “percepire” l’altro e instaurare una primissima coscienza. Sono questi segni che hanno proposto nuove proiezioni e nuovi piani percettivi di se stessi e dell’ambiente.

Forse non è opportuno parlare di osmosi? Il segno è stato focalizzato dall’uomo prima della parola, ma poi parole e segni si sono sostenuti reciprocamente nella loro costruzione complessa?

Tecnicamente la risposta è si. E tuttavia anche questa risposta è mal formulata e lo è perché noi abbiamo difficoltà a considerare le risposte in sé e le vogliamo inquadrare all’interno di categorie. Per cui non avrebbe importanza ciò che è nato prima ma l’uso o utilizzo che ne facciamo. Faccio un esempio: la parola Logos nell’immaginario collettivo è legata alla Parola,  e sia nel pensiero greco che in quello cristiano assumono la dimensione della Voce, di una entità che crea dal nulla, di contro, presupporre quel lento lavorio che la nostra specie ha compiuto appare meno nobile rispetto  ad una origine divina. Ricordo poi come per Platone la scrittura fosse inferiore e cristallizzava il pensiero mentre la lingua parlata assumeva la dimensione della superiorità intellettuale. Per De Saussurre la scrittura era mero strumento, la lingua autentica era quella parlata che, però, stranamente si fondava su quella scritta (la capacità umana di rendere ambiguo il pensiero è straordinaria). Ancora oggi, se non avessimo la scrittura su cosa potremmo poggiare la nostra conoscenza? È possibile costruire la matematica senza segni?

Cosa ha perso l’uomo moderno della sacralità della parola? E del segno?

Creare segni è letteralmente creare mondi reali, tangibili, corporei. Creare segni costa fatica, significa produrli dal nulla e mostrarli nel loro significato. Ma significa anche creare relazioni, i segni sono sempre per altri che devono essere visti e scambiati. I primi segni sono stati impressi nel corpo dell’uomo per manifestare una differenza dal resto del mondo e legare i possessori ad un’identità di relazione (il Symbolon era un oggetto diviso in due che le parti in relazioni si scambiavano). I famosi riti d’iniziazione sono chiaramente una palese affermazione di identità tribale. Ma i segni (totem, ecc.) manifestano la sacralità del divino con il loro affermarsi e devono essere visti. È probabile che una delle prime esperienze umane sia stata quella religiosa in contrapposizione ad una natura violenta e distruttiva. Ebbene, produrre segni, oggetti, manufatti era un modo per opporsi a forze nefaste e silenziose. La parola di contro viola la regola della produzione, nel senso che crea mondi virtuali, irreali e non corporei, non ha, per certi aspetti natura corporea perché si è staccato dall’originario legame con il segno. Un esempio è l’algebra, dove non c’è più la necessità di ancorarsi ad oggetti e una lettera può rappresentare entità diverse.  Quando la parola si sgancia dal segno resta un simulacro vuoto, che gira su se stessa perché non ha referenti reali. Il mondo   moderno affida alla finanza la sua economia che specula, riflettendo, su qualcosa che non esiste.

Il linguista Chomsky sostiene che il linguaggio sia innato, su quali basi contesta gli studi dello statunitense?

In realtà non è solo Chomsky a considerare l’innatezza del linguaggio; è in buona compagnia, ad iniziare da Platone, Aristotele, passando da Cartesio, dalla scuola di Port Royal a De Saussurre e infine arrivare a Chomsky e aggiungerei tutti gli adepti della cosiddetta scuola I.A . (Intelligenza Artificiale). In tutti questi pensatori è presente la dualità di mente/corpo e tutti sono razionalisti (tranne Aristotele che però crede nel linguaggio innato). Si ammette in alcuni casi una sorta di Logos che si manifesta nell’uomo o in chiave moderna si implementa con strutture cognitive innate ad un certo punto della storia dell’uomo. Addirittura si suppone che il pensiero possa esistere al di fuori dei corpi come nell’Intelligenza Artificiale (differenza tra software e hardware). Noi siamo della stessa natura di tutti gli altri esseri viventi e necessariamente dobbiamo fare i conti con questa natura. Ammettere un linguaggio innato, lo ripeto, è ammettere una costruzione a priori delle cosiddette strutture cognitive ed è in immangiabile che  homo sapiens sia potuto nascere all’improvviso, così come dal cervello di Zeus è venuta fuori Athena. È pensabile che vi sia stata, invece, una costruzione  per gradi e passando da una sorta di “scrittura” che lasciando segni ha modificato la nostra memoria.

Cosa ha scoperto dunque Chomsky?

La grammatica generativa e la struttura profonda. Un insieme di regole che chi parla una lingua segue inconsciamente. Insomma, esistono delle costanti linguistiche che compongono la grammatica universale. Esistono dei moduli (come afferma Fodor, un suo allievo)  già implementati nella nostra specie che ci indicano il modo di procedere con competenza nel linguaggio. Stranamente, un bambino che fino a quattro anni non sente il linguaggio attorno a lui, non parlerà mai. Se fosse implementato nel cervello in qualsiasi caso dovrebbe parlare, ma così non è. Il modulo cognitivo prevede che ad ogni casella si sa già cosa c’è, un soggetto, un predicato un complemento. Questo lo sapevamo già. Non aggiunge niente di nuovo che la scuola di Port Royal non avesse già detto. In un recente articolo rilasciato qui in Italia ha anche dichiarato che “i segni grafici non sono collegati all’origine del linguaggio” e non potrebbe fare altrimenti poiché verrebbe meno l’ipotesi di costanti linguistiche neurologicamente innate.

Esiste una grammatica della mente?

Credo proprio di no, nel senso che, se non ci fosse continuamente un ambiente culturale (cosa negata da Chomsky e dai razionalisti) in cui si manifesta il linguaggio, neanche parleremmo. Ogni nuovo nato deve ricostruire la grammatica presente nella cultura in cui vive, attraverso segni che codificano la conoscenza. Per esempio, perché non ammettere che all’inizio della storia di Homo, non avesse senso il significato di  Io e che le azioni non iniziassero con lui in qualità di soggetto ma subisse l’azione, essendo il termine ultimo delle cose accadute? Noi diamo per scontato, oggi, che si proceda lungo una linearità che va dal pensiero all’io all’azione, e quindi un soggetto che compie una azione, ma è per davvero così? Ammettiamo una psicologia a partire da homo sapiens o addirittura da erectus? Non credo possiamo affermarlo.

Il significante ha un significato specifico? Da cosa dipende la scelta di un significante? (suoni, fonemi, n.d.a) Non è qualcosa di misterioso e affascinate?

Sì, penso che sia proprio misteriosa e affascinante, la voce umana. Nel libro scrivo che deve essere stato uno dei momenti più incredibili della storia umana. Rendere con un flatus un’emozione, un pensiero, un oggetto, credo sia stato sconvolgente per i primi homines. Vi è tutta una magia nell’uso della voce, pensiamo al canto, alle cantilene, alle ritualità ripetute. Al di là degli aspetti prettamente anatomici (abbassamento della laringe, modularità della lingua, ecc.) alcuni aspetti mi vengono in mente; l’intenzionalità (aspetto poco curato dai fautori del linguaggio innato o della I.A.) dell’azione umana, e la voce che si  è plasmata sugli oggetti e sui segni che venivano realizzati. La lente educazione umana, durata milioni di anni, è dovuta passare dal crogiolo dell’esperienza e accompagnare con i mezzi che possedeva questa grande scoperta: esprimere significati attraverso la voce. Il linguaggio esplosivo con le occlusive, le spiranti o le nasali, mostrano modalità che possono accompagnare stati d’animo, domande, risposte. La voce deve in qualche modo accompagnare il processo di costruzione del mondo, che passa attraverso ciò che realizza. E cosa c’è di più misterioso e affascinante, se non creare immagini del mondo attraverso segni e voci che accompagnano tali segni?

Michele Iacono (Termini Imerese 1954) ha conseguito la laurea in Pedagogia presso la Facoltà di Magistero di Palermo. Ha collaborato con enti e fondazioni e attualmente lavora per l’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, occupandosi di Tossicodipendenze e prevenzione. Ha al suo attivo ricerche  sulle dipendenze da internet e articoli di saggistica.