"Il paese delle meraviglie" di Giuseppe Culicchia

“Il paese delle meraviglie” di Giuseppe Culicchia

Recensione di “Il paese delle meraviglie”, un romanzo di Giuseppe Culicchia edito da Garzanti.

E forse doveva capitare in qualche modo. Un amico mi mette in mano questo libro di Culicchia e mi dice “Guarda che qui c’è tanto di noi”. “Noi?” dico. “Si, davvero, ne sono sicuro” mi risponde ostentando certezze. Ma noi chi? penso nella mia testa, e anche Eppoi noi dove? E quando? Penso! Apro una pagina a caso e trovo scritto BEVO JAEGERMEISTER PERCHE A SEVESO C’E’ LA DIOSSINA, quindi m’illumino! poi leggo la quarta di copertina e scopro che è la storia di Zazzi e Attilio, denominato ‘Attila’ dal primo, e che i due protagonisti, amici ma molto diversi tra loro, sono adolescenti di primo pelo dell’hinterland torinese, frequentano la ragioneria con indolenza. Zazzi è fascistoide, anarcoide, aggressivo e a suo modo punk, un misto di idee confuse, mentre ‘Attila’ è alla ricerca di se stesso. Non può essere diversamente a quell’età. Sogna di fare il batterista e va spesso a trovare il nonno, un soggetto un po’ spostato, dispensatore di saggezze, che ha fatto la Resistenza…. in quale modo. Attila ha un padre che lavora in una fabbrica dell’indotto Fiat, una madre che probabilmente ciula con il parroco Don Curio e una sorella a Milano che studia all’università.

In effetti, mi dico, non è proprio il quadro della mia adolescenza, che esplode negli anni 80′. Ero un bambino quando Attila era un quindicenne, eppure i ricordi vividi sono molti, le interazioni pure, questo perché il libro di Culicchia risulta aneddotico: un collage di episodi e situazioni divertenti, emozionanti, agrodolci o amare che sono pertinenti alla generazione dei nativi degli anni 70′, Culicchia invece è classe 65′. Che ne sai tu di un campo di grano cantava Battisti. Ma che ne sai invece tu, di un fustino di Dash conteso con il coltello fra i denti ai fratelli maggiori per farne una batteria rock?

Che ne sai dei primi turbamenti sessuali, coadiuvati dalle immagini di un catalogo Vestro o Postal Market? dove i coetanei più arguti riuscivano a riconoscere anche a distanza di molte pagine gli stessi corpi femminili fotomontati in visi differenti (altro che test di neuroscienze cognitive!)… per poi fare il grande salto a Blitz o a Le Ore, rigorosamente incartati dai giornalai, e presenti sotto i banchi di scuola. Una sfida occulta al sistema. E le timidezze inenarrabili, quelle che rimangono sempre, come un fondo di una tazzina di caffè. Che non si può lavare! La paura di salutare le ragazze, i corteggiamenti affidati all’organizzazione di strampalate feste o al passaparola.

E il sogno di prendere a calci una lattina o una pietra, riuscendo a fare il giro dell’isolato o verso una meta lontana, senza mai perderla. Per la cronaca rammento con orgoglio, che io e un mio amico siamo stati forse gli unici di sempre a Bologna, seppur coadiuvati da una pallone vero, a farci il tragitto a passaggi – non sostando neppure un attimo e senza commettere ‘errori’ – da Piazza Maggiore fino alla Stazione, con pallonata finale che entrava nell’atrio di quest’ultima. Luogo e memoria di una strage insoluta.

I ricordi e gli episodi di Culicchia richiamano un’infinità di altre memorie, simili o diverse, intense o effimere.

Davvero magistrale il tema di Zazzi, che fraintendendo IL VOLGARE E LA LINGUA ITALIANA, ovvero la lingua che succede al latino, scrive sull’uso della parola ‘cazzo’. CAZZO! Lo sapevo che quella troia della Cavalla (la professoressa, nda) mirava a fregarmi, diokén! dice ad Attila, dopo che quest’ultimo gli chiarisce il senso della traccia.

E gli inverni più freddi. E il televisore a colori che porta il cancro! comparso proprio nel 77′, l’anno in cui è ambientato il romanzo, ma a casa mia si è visto solo nell’85’. E i nuovi e più efficienti frigoriferi, che appunto portano il cancro! E il telefono? Niente affatto presente in tutte le case, nella mia solo dal 78′. Anche quello porta il cancro, come poi il cellulare. I Sex Pistols, i Clash! cancerogeni pure loro E i vestiti e le acconciature un po’ alla ‘figli dei fiori’, qualche tappeto o arredo che fa tanto London Town.

Il cancro però lo avrebbe portato un certo materiale conosciuto come amianto, di cui avevano fatto bella foggia gli spot, proponendolo anche in formato mattonelle all’interno delle case! Diokén!!!

Il Toro di Pulici è una leggenda e il calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi viene ucciso dal proprietario di una gioielleria mentre per scherzo minaccia una rapina. Boiafaus!

Un’Italia povera – più di quello che si crede e dov’è ancora forte l’emigrazione – ma non miserabile, perché essere povero non significava appunto essere miserabile.

E poi arriva il finale forte e amaro di Culicchia (uno Jaegermeister o un Fernet Branca), che si aggrappa all’anima, che non se ne va via nemmeno a distanza di giorni, come rimangono anche le tante crepe aperte dagli altri personaggi. Zazzi su tutti. Un libro e un finale che lavorano dentro, diokén.

E oggi che in tivvù o in rete si dice i consumi regrediscono a quelli del 91, dell’85, del 77, comprendiamo che quella che noi oggi chiamiamo povertà allora era ricchezza. Cos’è che è cambiato? Il modo in cui gli italiani percepiscono se stessi in una prospettiva di crescita ed evoluzione. Eppure la crisi era endemica anche allora: le uccisioni, le tensioni politiche, le minacce di colpi di stato, le BR, tutte onnipresenti nella nostra esistenza di ragazzini. Ottima inoltre la descrizione del clima quotidiano di quell’epoca, assieme alla carrellata di alcuni fatti importanti, che si tessono con le vicende o i sentimenti dei protagonisti e nostri. E che dire dell’industria? Un calvario infinito degno dei prodromi della rivoluzione industriale e una fucina di morti e feriti. Un’umanità minata nella salute. Eppure questi problemi, questa tensione non ci ingrigivano, non ci appesantivano, neanche gli adulti erano oppressi. Non siamo stati traumatizzabili.

Andavi a mare a qualche chilometro da casa, passando la serata con una pizza al taglio fredda e due arancini e ti sembrava di esserti recato alle Maldive. Il sogno esotico si realizzava, coronato poi da un gelato-cornetto negli anni 80′ e da una Vespa, per chi ce l’aveva.

Il paese delle meraviglie è anche un romanzo per scoprire com’è cambiato l’orizzonte emotivo ed intellettuale degli italiani, ma anche uno sprone per ritrovare nelle enormi potenzialità presenti e nelle caratteristiche del nostro Paese i presupposti di una più significativa rinascita. Perché il nostro, paese delle meraviglie non lo è mai divenuto, e quello che si chiama lavoro o la stabilità sono stati il frutto di una circostanza – magari anche affermata e difesa -, di un affarismo non necessariamente di bassa lega, quando esternalizzare non si poteva neanche volendo. Ma proprio per questo, leggendo, ci si rende conto di come in parte diverse debbano essere le battaglie di oggi. C’è tutto un Paese da pensare e ri-costruire.

Giuseppe Culicchia