"Gioia" di Cristina Sparagana

“Gioia” di Cristina Sparagana

“Gioia” è un racconto inedito di Cristina Sparagana.

“Nessun processo per maleficio, che io sappia,
s’occupò mai dei sentimenti della strega; che,
anzi, veniva sempre considerata lietissima del
gran male fatto o da farsi: la felicità in persona!”

Sebastiano Vassalli “La chimera”

Palma, una donna nubile, belloccia, dai capelli giallini e un naso spiritoso, da cicogna, una di quelle donne di cui si poteva ancora dire, vedendola passare, “Non è male”, una cosetta magra, solitaria, la cui vita si svolgeva monotona, serena, ma senza slanci né soddisfazioni, nella cura di un gatto non più giovane che le portava a casa topolini e uccelletti sfigurati, decise, quel mattino, di lasciare il suo amante, un giovane dagli occhi sensuali, né attraente né brutto, un po’ tarchiato, con i capelli ricci, i peli scuri e il labbro superiore quasi del tutto privo di baffetti. A seguito di una breve conversazione svoltasi quella sera al cellulare, in cui lei l’aveva sentito in uno stato d’animo tra sazio e imbambolato e in un certo qual modo anche freddino, Palma, presa al momento in contropiede, aveva reagito con una serie di risatine amare e brevi frasi secche, misurate, che celavano un povero imbarazzo. Finita ch’ebbe la conversazione, il suo orgoglio ferito si destò, come una mosca non ancora morta, sotto un violento colpo di giornale. Una sorta di molle umiliazione, mescolata a un’asprezza che non riusciva ancora a definirsi, cominciò a prendere forma nel suo cuore. Era stata gentile, sì, gentile, troppo gentile, troppo tollerante. Più che altro, pensava, non aveva saputo dimostrargli quanto quel suo inspiegabile contegno aveva calpestato il suo orgoglio di mosca ancora viva, pronta a spiccare il volo, benché in modo pesante, strascinato, contro il vetro ove era stata colta. Quanto più ci pensava e ripensava, tanto più una rabbietta fastidiosa, un’insoddisfazione smoccolata, un senso di penosa frustrazione le si annidavano fra mente e cuore. No, non poteva proprio lasciare che le cose finissero così. Certo, domani l’avrebbe risentito, e poi dopodomani e così via. Poi si sarebbero senz’altro visti, da lui, da lei, in un piccolo albergo solitario nei pressi di un quartiere spopolato. Magari, chi lo sa, lui sarebbe tornato come prima: scapestrato, festoso, risoluto. Pure, quel breve, sciocco colloquio telefonico avrebbe penzolato tra di loro, come un pagliaccio in punto di cadere, come un acrobata dal piede in bilico su una folla delusa di bambini, e lei non sarebbe stata più capace di nascondere a lui, e ai suoi peli scuri, tanto la stizza quanto la vergogna. Ci pensava e pensava, era distratta; riandava alla condotta dell’amante, ma soprattutto a ciò ch’ella aveva risposto, senza orgoglio, al parlottio di lui, sterile, vago. Mentre metteva a cuocere la cena e versava il mangime nella piccola ciotola del gatto, con dei gesti pesanti, trattenuti da un noioso e opprimente divagare, ad un tratto capì che in questo modo non avrebbe potuto andare avanti. No, non così, lei sempre più distratta, agitando e sporcandosi le mani nel piatto della cena appena cotta, il gatto che lappava il suo mangime, la tele nel salotto sintonizzata sul telegiornale. Quel colloquio era lì, e lo sarebbe stato d’ora innanzi, a covare fra i due, a guardarli in viso con un ghigno sardonico, aspro, chino. E così, all’improvviso, Palma concepì un piano. Fu una folgorazione, un sortilegio, una sorta di ondata di passione, ove la stessa sua impulsività, la determinazione e la rivalsa non erano, nel fondo, ella lo percepiva con piacere, altro che dei fattori secondari rispetto al gusto della cattiveria, di un sadismo feroce, acido, duro, più che altro mirato a definire la sua nervosa superiorità, la noncuranza cui si abbandonava. Prese di colpo in mano il cellulare, lo maneggiò un istante, con premura, se lo accostò teneramente al seno, lo guardò, mentre un’ombra di sorriso, simile ad una smorfia sbarazzina, le affiorava alle labbra, intirizziva come un pezzo di ghiaccio sotto il tepore della scollatura, poi digitò un messaggio, uno soltanto: “Non mi chiamare più”, questo e nient’altro. Accennò un altro ghigno, esitò ancora, vi rifletté un secondo e lo inviò. Dapprima restò quasi sbalordita, come sorpresa del suo proprio gesto. Un timore sottile, impreveduto, le fece sobbalzare tutto a un tratto il piccolo apparecchio fra le mani. Un’angoscia ancor fiacca s’insinuava tra memoria e coscienza dell’agire, tra consapevolezza ed emozione. L’incertezza del dopo, del domani, crebbe come un’erbaccia inaridita sotto la curva del suo sopracciglio. Ma tutto ciò durò solo un istante. Subito, quasi inavvertitamente, una gioia, una gioia come poche, la cullò nel letargo un po’ infantile dell’orgoglio sanato, confortato, dell’amor proprio tutto rinfrescato come un ramo di rose da giardino. Era finita, e aveva vinto lei. Si era sottratta in modo asciutto, fiero, al sangue, al pus di quella vecchia piaga attaccata a cerotti di parole. “Non mi chiamare più” si ripeté. Ed incedendo altera, a testa alta, si rimise contenta a cucinare. Guardava le sue dita unte di grasso, il gatto accoccolato sul comò. E la gioia saliva, s’accresceva, le gonfiava sia il cuore che le guance, uno sputo lanciato in pieno viso, una grossa patacca di saliva sull’ampio cerchio di una luna piena. Mai, in vita sua, era stata così allegra. Forse, pensò, affettando la verdura, è proprio questa, la felicità. Perché ora, a un tratto, Palma era felice. Capì, poco per volta, che risultava ancora più gradevole, pensare ad altre cose per un po’, trascurare ogni tanto quella frase, per poi trovarsela di nuovo in mano, come una bella palla colorata, che cadeva dall’alto, che splendeva, che colmava di vita i suoi pensieri. Sì, sì, si disse, un po’ di distrazione, il segreto è distrarsi, non pensare, soprattutto calciare via il ricordo –non solo quello delle sue parole ma anche dell’immagine di lui – come una cosa inutile, un impiccio, una sorta di oggetto fastidioso, per ritornarci poi amorevolmente, e questa volta per spaccare in due, quasi quasi segare con veemenza, quel colloquio metallico, lagnoso: da una parte la voce tra moscia e supplichevole di lui, dove però la noia e l’impazienza occhieggiavano dietro la premura, dall’altra il suo bellissimo messaggio. E poi….Palma guardò contenta il cellulare. Ecco, viene il momento in cui la frase cade giù dal cielo, sferica, grande, zeppa di colori, e proprio quando meno te l’aspetti. E stranamente, allora, in un magico stato di euforia, ci si china a raccoglierla dal suolo, e non è più superflua, fastidiosa, ma sostanziale, fragile, ossessiva, una piccola bolla di cristallo. E la cosa migliore, per di più, era che questa lieve “distrazione”, questa trascuratezza così altera non doveva ubbidire a alcun comando, non era, in altri termini, un atto consapevole, voluto, dovuto ad un eccesso di fierezza, e di meticolosa asperità, ma avveniva così, spontaneamente. Lei stessa si accorgeva, mentre era assorta a compiere una serie di atti abituali, a pelare patate, a mettersi in pigiama, a strofinarsi via il rimmel dagli occhi, a cambiare il canale della tele, si era accorta che a un tratto, a sua insaputa, la cara frase si era allontanata, quasi in punta di piedi, dal suo cervello ormai rinvigorito, risanato da un farmaco di quiete ch’ella al momento non riconosceva, ma che era appunto, lo avvertiva poi, la cara assenza della frase stessa, quel suo farsi invisibile, discreta, e proprio in quanto ciò, più promettente, addirittura più rassicurante, e, più d’ogni altra cosa, velenosa, d’un veleno, comunque, non mortale, una sorta di tenero narcotico, un serpentello ancora insonnolito, acciambellato in silenziosa attesa, ai  piedi nudi dell’incantatore.  Come a dire: “Son qui. Tu stai serena. Io sono qui, io sono il tuo serpente, il tuo fischiare, la tua terribile consolatrice”. Trascorse qualche giorno. Palma era sempre euforica, cordiale, col portiere, col gatto, coi vicini. Si scopriva a pensare: “Sicuramente lui richiamerà. Per qualche giorno starà sulle sue, si sorprenderà fiero, impermalito, ma poi si arrenderà, e richiamerà”. E immaginava allora la sua voce, impacciata dapprima, poi via via più sicura, in qualche modo anche vendicativa, rancorosa e alla fine però quasi affannata in uno sforzo di riconciliazione. Una fievole voce, una figura che pareva un curato di campagna in ginocchio, devoto, umile, chino, sulla sua spalla, al lato del suo orecchio. Che avrebbe detto il suo perduto amante? Che avrebbe fatto, che avrebbe tramato per mettere da parte l’imbarazzo, quell’impaccio nervoso, un po’ femmineo che lo teneva unito al cellulare, imbrigliato da un vischio acre, colloso, fatto tutto di pause e di parole? L’umiltà, si diceva, l’umiltà. Quell’umiltà che lui non conosceva e che l’aveva indotto a comportarsi così l’ultima volta, a rivolgersi a lei, nel cellulare, con quel distacco molle, premuroso, quel brusio di parole appiccicose, a malapena chiaro, comprensibile, quella sorta di muto carezzare ch’era in realtà il diagramma sottinteso di un graffio sozzo come un’unghia umana,  ragion per cui, oh che gioia, lei lo aveva punito, sì, punito, lei le aveva inviato quella frase… Ah, la frase…la frase, si ripeteva Palma a più riprese stropicciandosi euforica le mani, asciugandosi il naso umido ancora di un gocciolio di muco ch’era andato seccando a poco a poco nell’argilla impastata, maneggiata dal proprio avvicendarsi di pensieri. Si leccava le labbra a rammentarla. “Non mi chiamare più…non mi chiamare più” si ripeteva con avidità come stesse succhiando lentamente l’ultimo pezzo di una caramella, “non mi chiamare più…” si ripeteva, e accarezzava il gatto e si versava un goccio di liquore, quasi assorta in un brindisi cattivo, ben pasciuto, segreto, anche pudico, diretto a celebrare il suo amor proprio. Ah, la frase, la frase e la sua gioia….Intanto si era messa con cautela a analizzare i propri sentimenti. Cosa provava, si chiedeva spesso, oltre a quell’esultanza allampanata, a quel senso crudele di trionfo?  Forse lo amava ancora? E lo desiderava? Probabilmente tanta esaltazione non stava lì che a chiudere, a celare, come sotto la lampo di una borsa, il dispiacere, un dispiacere ancora inavvertito, silenzioso, sommesso, soffocato dal suo pugno di ferro, relegato in un buio cantuccio del suo cuore, ma pronto a uscire inaspettatamente, a piegare quel maglio di fierezza e d’inflessibile soddisfazione, per trascinarlo poi, volta per volta, nella stizza dapprima, e nel dolore poi, e poi, ancor peggio, nell’umiliazione? Palma rideva, invece, ed alzava il bicchiere per brindare, perché ella si era accorta, ne era anzi sicura, che ormai non la sfiorava o sorprendeva più nessuna accorata percezione, niente emozione, niente pentimento, ma soltanto una fissa, ottusa, indifferenza, sì che anche l’astio si era ormai disciolto nel cerume gialliccio del suo orecchio. No, Palma adesso non amava più. Ma aveva amato prima? Non lo sapeva. Non lo sapeva o non lo rammentava. Il suo piccolo amante, quell’omino striato, picchiettato di forfora e di peli, che ogni tanto bussava alla sua porta con le mani sudate, il fiato stanco, e lo sguardo attaccato, sfilacciato, come un capello su una saponetta, alla sua castigata scollatura, che si sedeva sulla sua poltrona, una mano al bicchiere, una alla sigaretta penzolante dal labbro quasi glabro, gli angoli bianchi, zeppi di saliva, simile al gambo fradicio di un fiore, solo, tra i fiori di uno stesso vaso, e, le chiedeva a volte un po’ di spicci, le pareva, pensando e ricordando, poco più di un insetto moribondo, un calabrone flaccido, turchino, che girava ronzando da un lato all’altro del suo pavimento, in un ultimo spasimo di bile, di dispetto, di panico, forse anche di terrore, di quel presentimento della morte che il più sudicio insetto può provare. Ed era dunque questo a far sì che la frase, che il ricordo di essa, divenissero ancora più gioiosi, quella posata consapevolezza che la soddisfazione del suo cuore, il senso solitario di vittoria non celavano nulla di grandioso, di romantico e affatto singolare, ma un pacato gioioso, fermo “nulla”. E che non era l’astio, la puntura di un veleno nascosto sordidamente dietro i suoi pensieri a fabbricare in lei quel paradiso, fatto d’angeli e santi senza mani, governato da un dio con la bocca all’ingiù, simile a un broncio, quel giallore ove il cielo e il suo colore azzurro, indaco, chiaro erano sprofondati come pietre, ma nient’altro che un umido sentore d’insofferenza, certo di fastidio, che, così privi di affettività, stavano là a tracciare tra il suo naso e il suo labbro superiore un una tronfia certezza di parole. Allora le piaceva distendersi sul letto e, come se frugasse in una grande borsa tutta piena d’impicci e cose inutili – fazzoletti di carta, occhiali a pezzi, scontrini, biglietti d’autobus scaduti – si metteva a cercare, a rimestare, finché non le pareva di estrarre con la mano ben ferma la sua frase, l’unica cosa che contasse ancora nel guazzabuglio tetro ma giulivo che era divenuta a poco a poco la sua impotente quotidianità. “Non mi cercare più….” Ah, che bellezza. Ah, che bellezza e che soddisfazione. Che nostalgica asprezza di pensieri! Ma c’era un punto che la disturbava: Palma talvolta si rendeva conto che il vuoto che credeva di provare, l’assenza piana di ogni sentimento nei confronti di lui, dei numerosi  ricordi a lui legati, si erano concretati a poco a poco, le si erano incollati sulla mente come un brutto, antiquato francobollo, l’avevano, in altri termini, abituata a loro, al ronzio che da tempo la cullava, così come talvolta, in una chiesa, l’orecchio va accettando e percependo la sordina di un organo noioso, simile a un suono che non si ode più, che si è smarrito dietro le navate e i calcinacci che ne fanno parte, che anche quel bruscolo d’acidità che le si era annidato dentro l’occhio, la sua visione fradicia e monotona, cantilenata nello stesso tempo stesso, era andato svanendo lentamente, si era, in altre parole, perduto nella notte senza stelle del suo sguardo pulito, ridestato. Palma, da qualche tempo, non lo avvertiva più, e ciò, in un certo senso, le procurava un po’ dispiacere, rendeva la rivalsa meno audace. Talora, a un tratto, inaspettatamente, le pareva di muoversi in un lago dentro il quale credeva d’annaspare per raggiungere subito la riva. L’energia defluiva, come un rivolo d’acqua prosciugato, dal suo animo lieto e dal suo cuore ansioso di vittoria. Le sembrava di essere una tigre che cercasse nel buio i propri artigli. Cerca, cerca, ma al posto della gioia, di quel moto graffiante d’euforia che aveva trascinato i primi istanti in una filastrocca birichina, trovava un’esile serenità, un incerto fermento di riposo, una quiete appagata, sonnacchiosa. Allora capitava che pensasse : “Non mi dispiacerebbe ricordarlo con una lieve punta di rimpianto, “volerlo” come un tempo, un po’ di più, e perché no, rammentare i suoi tratti, la sua bocca, certe parole che mi diceva allora”. Ma no, se ne accorgeva all’improvviso, la sua memoria, o ciò che ne restava, sembrava una lavagna strofinata da un cancellino, grigio, polveroso. Mi chiamerà, si ripeteva lei, aspetterà, ma poi mi chiamerà. Lui deve essere certo, adesso, che io sia già pentita, che finisca per prendere il telefono, chiamarlo e sussurrargli qualche cosa, una battuta, forse, una sciocchezza, purché tutto riprenda come prima. Lui sta aspettando adesso che io lo chiami. Ed una volta che, trascorsi i giorni, avrà capito che non lo farò – per nulla al mondo, oh no, per nulla al mondo – cederà infine lui e sarà lui a cercarmi, a domandare…E allora…. – e il breve ghigno di piacere affiorava di nuovo alle sue labbra – e allora, oh che brutta sorpresa! che livore! che giocattolo guasto, deludente! che bel mazzo di fiori già appassito! Ella aveva adottato questa formula, per ritrovare quella prima gioia che l’aveva colmata d’allegria; a letto, soprattutto, quand’era coricata e spegneva la luce per dormire raccogliendosi al mento le coperte e aspettando che il gatto saltasse dolcemente sul suo grembo, Palma chiudeva gli occhi, si lasciava pian piano scivolare nel tepore che intanto l’avvolgeva, il bicchier d’acqua sopra il comodino, lo zampetto del gatto fra le mani come un rosario morbido, peloso, e iniziava, iniziava a immaginare. La suoneria del cellulare, ecco, appare il suo nome, ecco la voce, un filo smozzicato di parole, lui pentito, sgradevole, impacciato, e lei rigida, invece, quasi una morta che ancora sorride, una donna staccata dalla vita. “No, mi pare di essere stata chiara,” avrebbe detto con voce sicura, ma calma, piana, priva di dispetto, come se questo stesso sentore di dispetto solitario le procurasse invece una tiepida, blanda tenerezza, “Non mi chiamare più. Te l’ho già detto. Non mi chiamare più” E forse avrebbe aggiunto anche: “E’ finita”. Ah sì. “E’ finita”, solo due parole, un sintagma preciso, terminale, macroscopico e minimo al contempo! Qualcosa che i perdenti come lei- perché lei, lo sapeva, non era che una piccola perdente, tutta presa a mentire, a strombazzare, a mantenere casto il proprio orgoglio, in modo da oscurare l’umiltà – avrebbero creduto di avere ricevuto in mezzo al capo come il colpo di spada di un sovrano. O era forse un tantino fuori luogo? Forse troppo tagliente? Ci pensava. Moderare, magari, un poco il tono, strappare un filo al liuto troppo acuto da cui sgorgavano le sue parole.  Ecco, è finita, avrebbe detto questo, ma nel modo più dolce, più pacato. E poi avrebbe interrotto senza scatti, quasi con garbo, la conversazione. Era così, anche quand’era al letto o seduta tranquilla nel sofà; le pareva, alle volte, di grattarsi una crosta sul ginocchio, con un piacere ruvido, carnale, sino a farne sgorgare tutto il pus con la sua sudicia sostanza bianca picchiettata di sangue, maculata, una sorta di fradicia orchidea. Oppure di staccarsi pezzi di muco secchi dall’interno del naso un po’ assonnato, che non aveva –grazie all’atto di gioia tanto caro- avuto più bisogno di soffiare. E dopo un poco, ecco, che già dormiva. E sognava parole, facce, frasi, dette, non dette, chiuse dentro il cuore, e tutto questo le era indifferente, tutto questo pendeva dal suo sogno, ora, come da una carta moschicida. Oppure le piaceva, nei suoi lunghi, noiosi momenti di relax sulla poltrona, combinare due stati tutt’affatto diversi di piacere: ripensare alla frase pronunciata e intanto accendersi una sigaretta. Aspirava, pensava; dalla bocca e dal naso, voluttuosi, rotolavano via cerchi di fumo; l’accendino era là, tiepido ancora, ancora stretto dentro le sue dita, e la frase sbuffava fra i pensieri. Era un po’, rifletteva, come uno che voglia suicidarsi. Assapora il narcotico soave che gli procurerà la dolce morte e intanto pensa e pensa e si ripete le frasi del messaggio che ha lasciato, che feriranno i propri familiari, strappandone singhiozzi, urla, vagiti. Era terribile, lo riconosceva, terribile ma bello al tempo stesso. E i giorni trascorrevano uniformi. Palma usciva e faceva le sue spese, comprava scatolette per il gatto, qualche fiore da mettere in cucina, sigarette, riviste, surgelati. Il pomeriggio se ne stava in casa, telefonava a qualche vecchia amica che non aveva voglia di vedere, ma per di più accendeva la tivvù. Poi, via via che iniziava a farsi buio, dava un’occhiata svelta al frigorifero, pensava a qualche cosa da mangiare. Il grosso gatto le stava sempre attorno, le si strusciava addosso, miagolava. E così accadde un giorno che Palma si sorprese a essere conscia di rammentare sempre più di rado quella sua amata, saporosa frase. Era come se questa avesse cominciato a ristagnare nel labirinto delle sue abitudini, come fosse affondata poco a poco in una sorta d’arida palude da cui provasse invano a riaffiorare. E c’era un’altra cosa a infastidirla, a consumare le sue fantasie: un sospetto, un barlume di pensiero che parevano viscidi, insidiosi. Lui seguitava a non telefonare. Non che ormai a Palma interessasse tanto che il suo gracile amante già appassito, la chiamasse o evitasse di cercarla, lungi da lei sentire la mancanza di quel viavai fluviale, anche stagnante ch’ella, per prima, aveva prosciugato, quella lenta, ridicola marea che sfiorava le punte dei suoi sogni come fossero scarpe di vernice, ma c’era un dubbio che la tormentava: e se la frase, Palma si chiedeva, quella sua dura, solida reazione, quel clamore raccolto con decoro nel digitare quattro aspre parole non avesse sortito in lui altro effetto, altro sciocco, banale risultato che di facilitargli con premura un distacco che lui già programmava, pudicamente, silenziosamente, come un piccolo seme velenoso sepolto di nascosto in un cortile, forse attendendo che facesse buio? Se avesse in qualche modo fatto sì che uno stato di cose, da tempo stancamente condiviso, divenuto pesante, egro, melmoso, si risolvesse infine per il meglio senza che l’altro avesse a sopportare sensi di colpa o lievi, eppur sgradevoli rimorsi? Ah, il colmo, lei pensava, il colmo, il colmo. Se fosse andato tutto in questo modo, di qual successo lei s’era beata, da cosa era venuta, aveva lampeggiato nella stanza, come un interruttore, la sua gioia ? Lui, non ferito, lui, non umiliato, lui nemmeno sorpreso in contropiede. Ma sollevato, sì, risollevato, finalmente disciolto dai suoi dubbi e dalle sue meschine esitazioni.  Solamente un gran senso di sollievo. E difatti non si era più sentito. Sì, voleva lasciarla, da quanto tempo lei, povera sciocca, si era rifiutata di capirlo? Era stanco, era forse anche annoiato da più di quanto Palma non sapesse. Lo si avvertiva, a volte, dal tono della voce, da quel modo che aveva, in quegli ultimi giorni – forse anche mesi, sì, forse anche mesi – di strascinar su e giù per il suo corpo quelle piccole mani irsute e scure, di sbadigliare, chiederle dell’acqua, smozzicare qua e là sulla sua guancia dei complimenti detti e ripetuti, che lasciavano in lei, immancabilmente, un gran senso di tedio e delusione. Del resto, il loro amore era durato solamente un anno, anno durante il quale Palma aveva compreso, con un caldo subbuglio di piacere, che non esistono soltanto i gatti, e che al mattino, tutte le mattine, al di là della doccia con il suo bagnoschiuma preferito all’essenza di rosa e gelsomino, e del caffè nella tazzina a fiori, sorbito sorso a sorso sul divano con le notizie del telegiornale, possono aversi anche altre emozioni. Tutto ciò era finito, sì, finito. Ma adesso a lei cosa gliene importava? Si rallegrava invece nel sentire che il suo cuore restava così buono, integro e liscio come une una grossa fetta di melone, che ignorasse i sobbalzi, le punture, che il ritornare alla ciclicità di una vita che in fondo l’annoiava, non poteva recare alcuna dolorosa mutazione nel corso docile dei suoi pensieri e dei suoi passatempi d’ogni giorno. Ma la frase, pensava contrariata, quel modello di frase così pura dalla quale si era sentita avvolta, giorno per giorno, ora dopo ora, come dal velo bianco di una sposa mescolato a un bucato steso al sole, dov’era andata a finire quella frase? Si era forse interrata a poco a poco nel noioso trascorrere dei giorni, o era stata piuttosto la sua risolutezza, la sua orgogliosa puntigliosità a sospingerla al fondo dei pensieri?  Palma stava seduta sul divano, e ciancicava la sua sigaretta. Palma andava cercando la sua frase, ma come chi non trova più le chiavi al momento di entrare dentro casa, si ritrovava con le mani vuote. Vi erano sì, tuttora, dei momenti in cui la gioia allora assaporata, poi gustata, poi riposta in un angolo del cuore come una suppellettile preziosa, ma ormai vecchia e sbrecciata, custodita in solaio con cautela, per un gusto dolciastro, famigliare dell’oggetto in se stesso, della “cosa” che nessuno oserebbe buttar via, si faceva sentire in tempi lunghi, via via più distanziati tra di loro, a seconda del volgere dei giorni. E lei allora afferrava, tratteneva, riconosceva quei cari momenti, come fragili stati di nirvana, fasi di beatitudine, di estasi, solidi, e effimeri allo stesso tempo. Capitava, ad esempio, e lei sapeva ch’era molto bello, che trascorresse la metà di un mese, serenamente, monotonamente, in un flusso di piccoli piaceri, di diversivi, di soddisfazioni, giorni in cui Palma era contenta, allegra, pur senza che il ricordo della frase affiorasse una volta alla sua mente. Allora, quando a un tratto, la memoria assopita si destava, quando pareva stropicciarsi gli occhi da un sonno privo d’incubi, serena, riposata, le guance rosee, fresche, ecco, la gioia, il lampo del ricordo, che tornava così, a manifestarsi, tanto al suo cuore quanto alla memoria. Dov’era mai finita, la sua gioia, dove si era acquattata in quel dolce periodo di letargo e di nuova, compiuta segretezza, di rinnovata sensibilità? Ma sì, eccola dunque che arrivava, un fiammifero acceso, rosso, azzurro, una candela smossa dalla brezza della sua notte ciclica, solare, un chiarore nel buio nell’uniformità di una gran sala rischiarata da un ampio plenilunio. E allora tutto, frase, gioia, istanti, si presentava con un maggior vigore a quel senso di orgoglio molle infine, ormai forse anche troppo consumato, come la crosta di una caramella. Sì, era stata contenta, lei, appagata; giorno per giorno, attimo per attimo, si era distratta in altre occupazioni che l’avevano resa assai felice, della felicità delle bambine, senza sbocco, potente, rituale: hobbies, interessi, placide abitudini a cui le dispiaceva rinunciare: una serata al cinema, un pomeriggio a spasso con le amiche, un maglioncino in saldo, provato e riprovato nel camerino bianco di un negozio. E intanto i giorni si erano susseguiti, ora per ora, attimo per attimo, e lei si era allontanata da se stessa, senza che mai una volta, mai una sola, la gioia, quella antica, primitiva, trovasse posto fra tante altre emozioni, così inermi al confronto, così blande, eppure, confortevoli, fedeli. E poi, d’un tratto, quando riaffiorava, ravvivando la mente già predisposta alla felicità dal sereno trascorrere del tempo, era un dono dal cielo, un omaggio inatteso, inaspettato. E l’orgoglio ormai noto si destava, tanto più forte, tanto più tenace, in quanto ella sapeva, che s’era fatto ormai così distante il periodo in cui l’anima e il suo cuore avevano dovuto alimentarsi di quello stesso orgoglio, così più vivo allora, più crudele, che l’aveva poi indotta, volta a volta, a voler far spallucce, a ridacchiare pure, al bisogno di rabbia e di fierezza. E ora, tanto più morbide avvertiva le sue proprie cordiali percezioni, quelle che componevano con cura la sua vita interiore d’ogni giorno, quanto più disarmata, più docile, e, in un certo qual senso, anche più mite le pareva d’un tratto di sentirsi, quanto più non poteva non sentire che il rosso degli artigli di una volta aveva ritrovato un po’ di vita, quel residuo di vita che precede la delicata morte di ogni cosa, simile a una ferita rosicchiata che riprende pian piano a sanguinare. “Non mi chiamare più” si ripeteva, e tornava a ripetersi a ripetersi quella frase severa, lapidaria, fino alla rabbia e all’esasperazione. “Non mi chiamare più”, si rammentava, quasi dovesse rammentarlo a “lui”, digitare  parola per parola la sua gioia d’un tratto ridestata, digitarla, di nuovo, carezzarla, dondolarla su e giù nel cellulare che era ormai parte della propria mente. E il momento era fatto di due fasi: nella prima, le sue quattro, minute, aspre parole erano allegramente ripetute, succhiate con vigore e così a lungo, e con tanta viziosa avidità da divenire come un lecca-lecca il cui antico colore va sbiadendo, perdendo il suo sapore birichino a forza di passarlo sul palato; nella seconda, Palma s’arrestava, cominciava a riflettere, a pensare, ed era questa la fase più vorace, cui seguiva un nervoso appagamento, uno stato sereno e intermittente in cui dubbi, sospetti, supposizioni, ipotesi, pensieri, sembravano bruciare tutti insieme nel fiammifero acceso fra le dita che sfolgorava ad ogni percezione, ogni nuovo schiarirsi del ricordo e del trionfo che ne conseguiva, mai del tutto, però, scevro di un aspro senso di dispetto, d’una sorta di mutilo rancore turbinante tra veglia e sonnolenza. Era passato già diverso tempo, quasi due mesi, contava, calcolava, e lui non si era fatto più sentire. Ed ecco, immaginava il suo buffo dolore da sconfitto, e la sua atona disperazione che la rassegnazione, l’abitudine, il ripetersi esatto dei suoi gesti, forse neanche l’orgoglio, neppure l’amor proprio calpestato avrebbero potuto mai sanare. Certo, lei si diceva, una piccola parte del suo amante avrebbe volentieri preso di nuovo in mano il cellulare, volentieri le avrebbe mandato un messaggino, o uno squillo impacciato, accennato, poi ancora ripetuto, timidamente, goffamente, sì, a cui, oh gioia così cara, lei, Palma, non avrebbe risposto, né tanto meno, è chiaro, fatto caso, ed era appunto questo “non far caso”, non badare neppure a un avanzo di brulla cortesia, o di urbana, educata compassione – ignorare il mittente, le parole – a infiammare di nuovo, a destare daccapo la sua gioia. O forse, si diceva controvoglia, era passato così tanto tempo che egli poteva avere ormai perduto non la risolutezza di una volta legata al suo svogliato desiderio, ma il coraggio, l’audacia, la fermezza e Palma allora se lo immaginava simile a un soldatino senza gamba, privo di cuore, privo di baffetti, un pezzetto di stagno ancora in piedi che non è neanche in grado di soffrire, di gettarsi nel fuoco del camino. Certe volte accadeva che tutti i suoi pensieri e le sue idee imboccassero a vanvera, per caso, un corso opposto a quello precedente, ch’era poi quello cui lei stessa ambiva. Difatti, si chiedeva all’improvviso, con un timido moto di paura, cosa voleva dire quel silenzio? E se invece di arresa, di dolore, stesse a significare che il giorno stesso in cui quella sua frase, così salda, precisa, dignitosa, quella sorta di pugno a metà cuore l’avevano per sempre imprigionato in una sorta d’acida agonia, in un bolso malessere febbrile, il suo lungo delirio tumescente avesse poi finito per recargli visioni d’angeli e di prati in fiore, di pace, sì, di pace, di un sentiero percorso in solitudine, libero, lieto, privo di legami, a contatto di uccelli e di colori, sogno connesso alla banalità di una vita tornata con onore ai suoi cari costumi di una volta? Se, in altri termini, pensava lei, a imporgli quel silenzio in cui egli da tempo si accaniva, non fosse stato neanche un doloroso avanzo d’amor proprio, un’inflessibile rassegnazione, dovuta al senso della libertà, più forte della sua, della sua propria, che poggiava su valli aride e irsute, su risaie mangiate, consumate dall’umidità e dalle zanzare, ma la smorfia grottesca, compiaciuta, un’insonnia sospesa sull’ovale della faccia del vero vincitore? E  allora l’afferrava l’inquietudine, ecco, allora guardava il cellulare. E anche se era sicura di non provare più alcun sentimento, era tentata di prenderlo in mano, di digitare il numero, aspettare, con il cuore in tumulto, la gola secca, la parola morta,  prima ancora di esser proferita. Cosa gli avrebbe detto? Con che tono di voce avrebbe pronunciato le sue frasi? Avrebbe riso, oppure, semplicemente, si sarebbe mostrata distaccata, annoiata, persino un po’ delusa? E il disagio, il problema si ponevano qui nella necessità di dimostrare, o meglio ancora, di lasciar intendere, che l’aveva cercato unicamente mossa da un’umidiccia compassione; che l’ansia, l’inquietudine, ciò che restava in lei dell’emozione delle brevi chiamate di una volta, non avevano più nessun valore, non vi giocavano nessuna parte. E lui, e lui, che cosa avrebbe detto, come avrebbe reagito a questa suo ridicola, impreveduta piccola sorpresa? Sì, perché forse, Palma rifletteva, cercarlo adesso, dopo la  gran frase, dopo che era trascorso tanto tempo, dopo tutto il silenzio ch’era seguito a quella sua esplosione – contenuta, d’accordo, ma comunque crudele, conclusiva – aveva in sé qualcosa di farsesco e forse di studiato, di atteggiato, e, perché no, anche di commovente. Si prendeva la testa tra le mani, si pentiva, mai troppo, grazie a Dio, di avere digitato quel messaggio, di aver fotocopiato tanta arguzia sul suo vecchio, obsoleto cellulare. Perché se arguzia poi, non fosse stata? Se fosse stata solo il gesto breve di schiacciare una pulce con un dito, o almeno tale fosse parsa allora al suo destinatario, così pigro, distratto, anche indolente, qualcosa come un tic, una contrazione, quasi uno spasmo a cui non fare caso?  Qualcosa, si diceva, certo indegno di destare la sua curiosità, di tracciare nell’animo di lui la domanda dettata dall’orgoglio, uno sbiadito punto interrogativo in fondo al tremolare di una frase? Poi, dopo pochi istanti, ritornava al suo stato abituale, e ancor più si beava, si esaltava, delle sue secche, rigide parole. E le accadeva a volte, se un dolore piegava la sua vita, la sua cara esistenza di ogni giorno, una perdita, un lutto, un’afflizione, di soffocare in fretta la causa e il fine di tanto soffrire, come dentro una mano premuta sulla bocca, nel ricordo ormai vizzo della gioia, di quella gioia già tanto gustata che si faceva sempre più lontana. Passò un mese, passarono due mesi. Il cellulare non suonava ancora. E la vita di Palma trascorreva in una semplice serenità che a volte l’induceva a mangiarsi le dita delle mani, a rimpiangere non la frase in sé, che riaffiorava ormai calma e discreta, senza coinvolgerla che parzialmente nel suo folle delirio di grandezza, ma di aver dato un taglio a certe cose, dai momenti più dolci, più beati, sino alle più cocenti umiliazioni  che, oltre a spezzare la melanconia in cui si susseguivano i suoi giorni, avrebbero potuto stuzzicare il suo orgoglio appagato ancor di più, metterle fra le mani rinsecchite un gran fascio di rose rosso sangue. C’era, sì, certo la consolazione –consolazione, non soddisfazione – e questo urtava il senso delicato del su ormai familiare appagamento  – di aver dimenticato, cancellato la persona e la faccia del suo amante. Si provava, alle volte, mentre era assorta nell’aridità dei suoi piccoli gesti quotidiani, a farselo tornare alla memoria. Vedeva un uomo piccolo, meschino, una frantume di specchio un po’ appannato dove spuntavano dei ciuffi neri e i peluzzi sul labbro superiore erano radi, quasi inesistenti; e rifletteva, adesso, che quell’uomo aveva colto al volo l’occasione di udire poche misere parole, che pure le suonavano ancor pregne di un orgoglio sudato, battagliero, di cui non si era mai smarrito il suono, per chiudere per sempre, quietamente, la loro vuota, sciatta relazione, fatta d’alberghi sudici e di amplessi strappati qua e là nel salottino ove teneva i fiori o da lei, o nello studio polveroso dove egli conservava le sue carte. Ma il guaio, il guaio vero, era che alfine, mese dopo mese, la frase s’era andata assomigliando a una vecchia campana sfilacciata di cui non s’intravede né il battaglio né il rozzo campanile, oscurata com’è da una bufera sempre al punto di esplodere, ruggire, ma reclusa nel buio di una nube; la frase e la sua gioia erano insomma ormai quasi scomparse, non solo questo, ma nei lunghi istanti in cui lei si applicava ad altre cose, e il ricordo nervoso della sua propria voce, della frase, si mescolava a tratti, fiaccamente, alla stizza medesima con cui la volontà vi si applicava, essa recava in sé qualcosa di umiliante, di umiliante e di mesto, doloroso. Ciononostante, non gliene importava. E ora avrebbe voluto che la rabbia si destasse di nuovo, tutta intera, ma non per fustigare o tormentare ciò che in lui riteneva essere la radice d’ogni colpa, bensì per accanirsi su lei stessa, per farla sobbalzare, trasalire di tanto in tanto, anche un po’ goffamente, simile a una puntura di zanzara che l’avrebbe destata con fastidio dal sonno grigio della sua esistenza, dispettoso, sereno, cadenzato, ch’era talmente privo di visioni –demoni, spettri, teste senza volto –  da sembrare un terrazzo ormai in rovina. E dove stava, dove si annidava quella sua piccola serenità? Nel guardare contenta, soddisfatta il gatto divorare il suo mangime, nel dare acqua alle piante, soprattutto ai gerani del balcone, nel coricarsi con i denti freschi, sbiancati dallo stesso dentifricio, quello che Palma comperava sempre dopo averne parlato col dentista. Ma se fosse riuscita, si diceva, a far sì che il suo cuore avvizzisse di nuovo ancora un po’, se la frase tornasse a pizzicarla, a colmarle di nuovo bocca e gola di una sabbia agrodolce, anche cattiva, se agisse ancora sui suoi sentimenti? Palma provava allora il suo piccolo, noto dispiacere, e ora di tanto in tanto le accadeva di gettare un’occhiata al cellulare, ove solo un’amica, una cugina le lasciava, talvolta, un messaggino privo d’importanza, una frase cordiale, spiritosa. “Non mi chiamare più….” Si ripeteva risoluta lei. Eppure…eppure….Che gliene importava? Che le importava soprattutto adesso che sapeva, che era ormai sicura che la gioia di quelle sue parole altro non era stata per quell’uomo che un breve, rapido salvacondotto buono a uscire da un flaccido legame della cui persistenza, il cui pallore, erano in fondo entrambi consapevoli? La collera, il rimpianto, il pentimento, tutto ciò l’assaliva allora d’improvviso insieme a una legnosa vacuità, a un’insensibilità dura, precisa, ch’era come una notte senza stelle. Ah, perché aveva scritto quella frase? Pure, ancora qualcosa la feriva, la scuoteva nel letto in piena notte o, mentre stava comoda in poltrona, un rotocalco aperto sulle gambe, le scaldava una guancia all’improvviso, l’induceva a voltarsi e a trasalire, come il debole fiato di un parente a cui, da vivo, si è voluto bene. Era il senso d’abisso, d’incertezza, del nulla, sì, del nulla, che la gioia lasciava dietro a sé. Gioia che già si risolveva in fumo, dopo averle lasciato sanguinare, goccia su goccia, misuratamente, come lo squarcio di un bicchiere rotto, gli occhi, il cuore, la mente, i sentimenti, tutti pieni di colla e di stupore. Dunque, pensava Palma tra sé e sé, lui si è già rassegnato, lui mi avrà escluso dalla propria vita, ma per l’appunto la rassegnazione non sarà stata allora, e sarà ancora, un perpetuo momento di sollievo, un sentore d’eterno compimento e, senza ch’egli se ne renda conto, uno sgarbo voluto e anche innocente, una definizione del sorriso come del ghigno e della serietà, in altri termini una decisione presa contro di lei, di lei che gongolava, da quanti giorni, ormai, da quanti mesi all’idea che egli stesse macerandosi, soffrendo ancora per il proprio smacco e, perché no, per troppa solitudine, per un senso feroce d’abbandono? E c’era anche dell’altro: quella gioia violenta, appiccicosa, scaturita dal tono della frase, quella piccola gioia maturata dalla formalità di un’ingiunzione così minuta, fatta di parole, soppesate, pensate una per una, e al tempo stesso uscite come un lampo da un’insensibile impulsività,  le era stata più utile –ah, sì, quanto – a dare un taglio alla monotonia del suo molle vissuto quotidiano, che non il transitorio, anche fugace, senso di beatitudine appagata di quel loro legame d’altri tempi, quel legame che sempre si attaccava a poltrone e divani senza luce, pronti a insinuarsi dentro le fessure dei caffè e degli alberghi dove il fumo e lo zucchero vecchio e la vernice si frapponevano tra i loro baci, passioncina usurata, senza vita, che insisteva a accanirsi piano piano, strombazzando ogni tanto, come in una battaglia di bambini, una nota di vago desiderio nei due loro accaldati cellulari. Giorni di attesa, giorni di speranza, non di rado anche giorni d’emozione, e cosa aveva avuto da quei giorni? Una noia inquadrata nella noia, come certe marine, mal dipinte, dai colori violenti e anche sbavati, in una cornicetta a poco prezzo; un sonno dentro un sonno, lo stropicciato foglio di un diario dentro il rettangolo di un altro foglio, sporco, rotto, macchiato, malandato, mentre invece la gioia, “quella” gioia! Il piacere di dirsi: “Ho vinto io! Ti ho lasciato di colpo, su due piedi, quando tu, caro mio, meno te l’aspettavi! Ho punito la tua mediocrità, i tuoi indotti, malsani atti d’amore!” Ah, che cosa più solida, più viva, che trama di romanzo appassionato, molto più appassionato, anche se breve, di quel loro incrociarsi, coccolarsi, su letti sconosciuti o familiari…. Ma no, ma no, si ripeteva all’improvviso Palma, lui senz’altro è rimasto così ferito dalle mie parole da non aver più la forza di reagire. Ora è distrutto, è un uomo senza voce, un uomo così affranto dal dolore, da non trovar più il modo di annaspare, di aggrapparsi al vestito acre, vischioso del grande angelo sterminatore. E ci pensava, allora, e ci pensava. E quanto più pensava a tutto ciò, quanto più al posto di due grandi ali, le pareva di scorgere, nel buio, sventolare due orecchie da somaro e sotto ad esse un bimbo inginocchiato, uno zero stampato sulla fronte. Ma egli forse ora è lì, a riandare ai ricordi, alle emozioni, a ficcare la testa nel guanciale, a scervellarsi per venire a capo di questa sua condotta secondo lui inspiegabile, cattiva, del suo agire inatteso, proditorio, sotterraneo e crudele al tempo stesso. Palma, però, si soffermava in ciò non già per consolarsi del silenzio di lui, del suo assentire, che durava oramai da troppo tempo, ma per far sì di accendere di nuovo quella piccola frase acida, breve, come un povero resto di candela che aveva già iniziato a smoccolare su una tavola mezzo sparecchiata, per far sì che l’orgoglio, non già quello mordace, inferocito, ma quello appena appena velenoso, non la serpe, cioè, ma la zanzara, le tornasse a ronzare intorno al capo, a segnare di piccole vesciche la sua pelle da poco risanata. Perché era lei, era lei, Palma ne era sicura – più che sicura ne era tutta ansiosa – che doveva soffrire ancor di più, strofinarsi le bolle una per una, avvertirne il bruciore, il pizzicore, e poi infine quel senso di piacere dovuto dall’atto stesso del grattarsi. V’erano dei momenti in cui ella provava il desiderio di raccontare tutto a una sua amica, una donnetta piccola, fidata, che viveva vicino a casa sua e per cui le sembrava di provare una sorta d’ignoto sentimento, un’insensibile affettività che la legava stretta al suo sorriso ove i lunghi canini e gli incisivi fiammeggiavano sporchi di rossetto, al colletto bordeaux di quella blusa che le sembrava non cambiasse mai. Sarebbe stato bello riferire, e nell’atto medesimo di farlo, sorprendersi di nuovo a formulare, a pronunciare l’adorata frase; forse allora la gioia si sarebbe scaldata all’improvviso tanto nel cuore quanto nella voce, forse il brivido cupo di quel fradicio istante volitivo, così remoto ormai, così indolore, l’avrebbe risospinta verso il cielo. E ogni cosa sarebbe ritornata: l’amarezza appagata, la rivalsa, quella felicità gialla, volpina, che pareva strapparle la camicia come l’unghia focosa di un amante. Ma poi, ella si chiedeva, se la sua amica avesse immaginato, avesse anche intuito, sospettato, che la frase di lei fosse scattata solo per forza di disperazione, per finirla, cioè, con una storia che non poteva ormai più proseguire? Oh, avrebbe riso allora tra sé e sé. Quella sua bocca rossa come un morso avrebbe senza dubbio malcelato allo sguardo vorace dell’amica una muta, segreta percezione di compassione e di comicità che questa non avrebbe tollerato. Meglio allora tacere, lasciar tutto sospeso in un silenzio tanto più vago quanto decoroso, tanto più decoroso quanto vago, un cifrario, un teorema, un’equazione, che, una volta risolti, diventano precisi, anche triviali, ma finché sono senza soluzione, galleggiano in un mare d’incertezza che conferisce loro un fascino maggiore, un magenta genetico, una tara, una nobile assenza di struttura. E allora meglio dire: “E’ finita, non so, non saprei dirti, no, non vale la pena di parlartene. Ti dico, anzi, che non ne ho neanche voglia”. Palma adesso, talora, teneva a lungo spento il cellulare. Le piaceva sentire trascorrere i secondi, minuti, i quarti d’ora, le ore, molte ore, a volte addirittura alcuni giorni, e lasciare l’oggetto qua e là, una chiazza sul letto, sulla sedia, una piccola mano chiusa a pugno dove la vita non pulsava più, all’ombra di una pentola, in cucina, o in un angolo sporco del divano. Era un po’ la sua forma di umiliare tanto “la cosa” quanto il suo nemico, ma anche di allevare di nascosto una segreta, pallida illusione, di cui il suo io più solido, cosciente, ancorato alle antiche decisioni, ignorava del tutto l’esistenza o meglio, si ostinava ad ignorarla. Guardava l’orologio, si eccitava: le due, le tre, le quattro. “Ah, che bellezza, si ripeteva allora suo malgrado, se provasse a chiamarmi, a riprovarci…” Immaginava la faccia di lui, la sua piccola bocca muscolosa contrarsi come in un esercizio, e la soffice maschera di cera che esprimeva amarezza e umiliazione. “Sai che bella sorpresa,” si diceva, “quando alla fine ci si proverà e troverà che ho il cellulare spento”. E poi c’era il piacere di riaccenderlo, un’emozione acuta, un tuffo al cuore, la frustata sottile, contagiosa del tentacolo viscido di un polpo, il graffio soffice di una medusa, la speranza, intagliata nel furore, nel guardare se c’erano messaggi: se, mentre il cellulare stava inerte, condannato a una piccola espiazione, egli aveva tentato di chiamarla. Lo afferrava fremendo con le mani, gli occhi uniti in un punto acuto, solo, simili ai due gemelli di un polsino, il respiro sospeso, irregolare, e contava un minuto, due minuti, ah, se avesse tentato….forse…ora… Palma alzava il telefono, aspettava, ma non si udiva mai neanche un messaggio. Giunse al punto, una volta, di sospettare ch’egli fosse morto, o che fosse finito in ospedale. Ma anche in quei casi, si affliggeva, cosa gliene importava in fin dei conti? Lei non lo amava più, se mai un giorno l’avesse pure amato, e neanche lui l’amava, ne era certa. Un’attesa, la sua, fatta di nulla, di una sorta di tedio un po’ solare che rasentava la serenità e talvolta persino l’allegria, un coma desto, grigio, sfaccendato, custodito in un sudicio sacchetto, che preservava tutti i loro ieri, il disagio reciproco, la fiacca, la fatica di dirsi, perlomeno due volte a settimana, che si desideravano l’un l’altra, gli indumenti medesimi, tolti in fretta nei moti di passione e afflosciati sul letto alla rinfusa, come impronte di scarpe sulla neve: mutande, cinghie, vecchi pantaloni, calzini dal tallone consumato, gonne piatte e stirate, da zitella, calze di donna simili a serpenti, sotto il piede annoiato, un po’ calloso, smurato dal fruscio di una Madonna tutta ingiallita dalle sigarette. E intanto i giorni, le notti trascorrevano. E di notte ogni sogno recava a Palma, in forma intermittente, qualche povera immagine d’amplesso da dove il capo chino, un po’ arruffato del suo piccolo amante appassionato sbucava fuori come da un fagiolo, labbra sulle sue labbra, risa, baci, barzellette e sorsate di liquore trafugato da mobili e credenze. Lei si alzava agitata, anche irritata, e ogni volta provava e riprovava la sgradevole, vaga sensazione che i piedi mal lavati di qualcuno avessero cercato, avidamente, di far breccia, di notte, in casa sua, che avessero lordato le lenzuola. Non provava rimpianto, né timore, solo quella svogliata irritazione mescolata a una calda sonnolenza. Allora si appoggiava alla testiera, si annusava le ascelle inumidite, si metteva a fumare, a canticchiare, guardava l’orologio sul comò, poi lanciava un’occhiata al cellulare. E il display non mostrava alcun messaggio. Certo, a quest’ora, Palma rifletteva, lui doveva ronfare, sì, ronfare coricato tranquillo nel suo letto. La frase, si diceva, “quella” frase, era stata per lui non un dispetto, ma un regalo bellissimo, inatteso, come quelli che strappano ai bambini gridolini festosi, di sorpresa. Sì, proprio qui era il punto: la sorpresa. Lei che aveva da sempre immaginato che si trattasse di una delusione, scopriva adesso che nel suo regalo si celava un giocattolo stupendo; no, non un soldatino senza gamba, ma un intero squadrone di soldati, e tutti, poi, della migliore marca, della più generosa qualità!  Se soltanto, talora si diceva, avesse un po’ aspettato, civettato… se l’avesse chiamato un giorno solo, fosse stata carina, riguardosa, per poi lasciar passare altri tre giorni, e via così sino a allungare i tempi. Farlo sperare, farlo spasimare, quasi tremare, saltar su ad ogni squillo … Ma così, in questo modo, così, tacendo a lungo, troppo a lungo, edificando un muro di silenzio ove non si scorgeva luce alcuna, ove tutto mostrava, rivelava una stizza rachitica in agguato dietro uno spazio anonimo, incolore, sì, lei con le sue mani unte, sudate, consumate da cicche e detersivi, aveva fabbricato, anche innalzato, mummificato il placito di lui, resa più dolce la sua accettazione, aveva, in altri termini, sciolta la ragnatela di disagio e di stupide parole in cui da tempo lui si dibatteva, e non l’aveva sciolta con le mani, unghia per unghia, nodo dopo nodo, ma col colpo violento di una spada che si era persa ormai, forse per sempre, tra mutande, pensieri, mozziconi, bicchierini di vino rovesciati. Ora non rimaneva che voltarsi a rivangare un poco sulla fine, quel frantume di rozza conclusione contro cui non restava alcun rimedio. L’assaliva una rabbia così oscura, così diversa da quella sua prima, quella seguita al buttar giù la frase ch’era andata sbocciando, maturando, come un bel fascio di frumento nuovo, trasformandosi prima in esultanza, poi in orgoglio, amor proprio, eccitazione, e poi infine in qualcosa che somigliava in modo vivo, alacre, ad una gioia pura, ad un gioire del gioire medesimo, a un clamore, e infine, forse, alla felicità. Sì, quella gioia, la felicità…Oh, com’era diversa da quest’arida forma d’impazienza, da questa sua accigliata aciditàche brancolava adesso fra i suoi dubbi e i suoi brandelli di supposizione, quel suo moto d’orgoglio così sano, acre, forse, forse anche velenoso, ma sbocciato, cresciuto come un fiore dentro il cortile delle sue certezze, nel bel mezzo di un prato secco, sì, e tuttavia vermiglio di papaveri ove a volte rotava, s’avventava il pungiglione nobile di un’ape. Adesso, invece, se ascoltava il suo cuore, se dava spazio ai propri sentimenti, altro non avvertiva che il fragore di uno sbattere sordo, fastidioso, in qualche modo caricaturale, della croce furente di due lame che picchiavano, acciaio contro acciaio, senza che ne sgorgasse alcuna piaga. Sì, pensava tra sé, in un certo senso, lei era stata assordata, anche annullata, da quel suono sommesso di fioretti, di cui il suo solo, in fondo, conosceva, mentre l’altro non era, lo sentiva, che una raffica goffa, solitaria, impigliata a una testa e a una tonsura che ne oscuravano l’identità, ma non l’ampio grottesco della fronte. E ora che avrebbe voluto sanguinare, avvertire qualcosa fra le gambe, come il flusso perpetuo di un ovario, che le inondasse il corpo, gli occhi, il viso, si guardava le mani così pure, e sentiva crollare a una a una le sue piccole, stupide ambizioni a un amore tremendo, castigato, ricacciato dal fulmine di Dio sul catrame degli esseri meschini. E pian piano trascorsero tre mesi. Palma viveva adesso attaccata al suo vecchio cellulare, che non suonava altro che per recarle telefonate di cugine o amiche. La sua mente pareva un palcoscenico separato in due nitide metà dalla parete di una tenda rotta: da una parte la luce, una luce invernale, esile, breve, che illuminava il suono e il ciel sereno dei suoi soliti giorni dispettosi e dei suoi confortanti rituali, dall’altra, dietro, un’aspra oscurità dove si mescolavano i ricordi. Quella tenda non era mai tirata. E ora Palma riandava col pensiero alla sua gioia già così lontana, ora sentiva in sé un dubbio crudele che pareva impregnato di certezza. “Non mi chiamare più….Non mi chiamare più…” Ora questa certezza, lo sentiva, era tutta follia, comicità. Ora aveva qualcosa di malsano. Ricordava il suo amante. Piccolo, dalle labbra sensuali, e dai capelli untuosi, quasi radi, quell’ombra di baffetti  mai accennati che parevano uscire come steli per ripiegarsi, morti, su se stessi. Come avrebbe potuto lui, pensava, e la vergogna le mozzava il fiato, come avrebbe potuto soltanto concepire, immaginare che dopo avere scritto una piccola frase così sciocca, così patetica, così banale, lei avrebbe cominciato a lambiccarsi il capo per qualcosa che non aveva avuto su di lui nient’altro che un effetto forse anche positivo e comunque mediocre, rinfrancante? Una frase, una gioia così amara, sterile, goffa, senza conseguenze, simile al moncherino di una mano, su cui lei aveva a lungo fabbricato tutta una serie di castelli in aria popolati di vinti e vincitori, di mortificatori e di umiliati, di amor proprio ferito e riscattato, di folli gesti di sottomissione? Non solo, ma che avrebbe organizzato, stabilito la sua propria esistenza, la sua squallida vita quotidiana – tutto un sistema di sopravvivenza- sull’ombra consumata di una gioia infilata a un diagramma di parole come una fede d’oro a un anulare, e sull’orgoglio che ne aveva tratto? Ora per ora, giorno dopo giorno, quella terribile serenità, coi suoi momenti di soddisfazione, l’eterno impulso a trascinarsi avanti, quale un povero treno scalcagnato, tirato via dalla locomotiva, i desideri stessi, i più banali, come bere un caffè, chiamare per telefono un’amica, farsi un bel bagno caldo, spizzicare qua e là tra un  pasto e l’altro, tutto, tutto, era stato regolato dal segreto, dall’intimo, dal caro, delizioso ricordo della frase e dalla gioia che ne conseguiva. E lui che certamente, lei ne era ormai sicura, lui che ignorava tutto, dal suo moto d’orgoglio alla sua conseguente esaltazione, dall’euforia ai momenti di dispetto subito contenuti con audacia nel bicchiere di un brindisi felice, dall’aspetto ordinario, dozzinale, lui, si diceva Palma, dal cui cervello, dalla cui memoria, quella frase di certo era fuggita, sgattaiolata via rapidamente, come un sorcio da un pezzo di tagliola? “Non mi cercare più…” si ripeteva adesso in un modo monotono, ossessivo. “Non mi cercare più…” Perché? Perché – e guardava, guardava il cellulare – aveva formulato quella frase? Cosa l’era passato per la testa? Chi mai aveva creduto di ferire? E così, a poco a poco sulle prime, poi d’un tratto, di colpo, come una pentecoste smoccolata, come un battesimo di fango nero, lei fu travolta dalla sua intuizione, e comprese che in tutta quella storia, in quel suo soliloquio un po’ teatrale, ma che aveva voluto, e non di rado aveva anche creduto, di essere spontaneo, agro, istintivo, non si era umiliata altro che lei, che lei soltanto ne era uscita vinta, che aveva trasformato in un romanzo o in un film col suo bel colpo di scena la sua inflessibile imbecillità, la pacata menzogna dei suoi giorni E tanto più ella se ne vergognava, in quanto questo senso di sconfitta la faceva crollare dal suo acume, dal punto più nevoso di una montagna ritta sugli abissi, come una statua bianca, fatta a pezzi, tolta al candore del suo piedistallo, ma non da Dio, non da una gran bufera, non dal colpo di un’aquila reale, bensì  da una manina quasi inerte, che somigliava a quella del suo amante, con il dorso peloso come un istrice e una anello pacchiano al dito medio: gesticolava, ridacchiava, pure, le tirava i capelli con dispetto, le pizzicava il sommo delle guance, le gettava sul viso, come un gran ciottolo o un ortaggio guasto, le sue stesse mutande a fiorellini, le sue sciatte mutande di cotone da lei acquistate nella merceria della cui proprietaria era cugina. E la statua cadeva, ruzzolava, e ruzzolando, ecco, rimpiccioliva, diveniva una palla, poi una biglia, la prendevano in mano dei monelli con le ascelle bagnate di sudore, e la neve era sudicia, insozzata, e la neve era sporca di scarponi. Un furore ridicolo la invase, poi una sorta di tragico pudore, quindi un’ansia violenta, una trepidazione senza fine. Andò a cercare il suo cellulare. Era sul comodino, lo guardò. Una piccola mummia imbalsamata, che però ancora a tratti sorrideva nel rigor mortis che gli sollevava le pur tiepide punte delle labbra, fra dileggio, gravezza, derisione. Lei lo afferrò, lo tirò su, lo strinse, lo guardò, poi lo strinse nuovamente, con più forza, stavolta, con passione. Se lo pigiò sul seno, se lo pigiò contro la scollatura. Poi cominciò a cercare, a digitare, a frugare con furia tra i messaggi, tra le chiamate perse e ricevute. Faceva tutto ciò con una bambinesca frenesia, l’animava uno slancio da scolara, una penosa irrazionalità. E seguitò così, per più di un’ora. E gemeva e gridava, e s’arrabbiava e premeva le dita sui comandi fino a farsi dolere i polpastrelli. In tre mesi neppure un suo messaggio. In tre mesi neppure una chiamata che lei sicuramente avrebbe udito, ma che aveva, pensava tra sé e sé, a ogni buon conto forse trascurato, smarrito nel suo turbine di sogni, di fantasie che adesso le sembravano ali stecchite al fondo in una gabbia. E il sipario cascò, cadde pesantemente, con disagio, con impaccio, con rabbia e impudicizia, mescolando nel rosso le due parti, quella fatta di facce conosciute, con quella popolata di fantasmi, senza cuore e polmoni, senza naso. E tutto adesso si era unito in volo, il passato e il presente, il vecchio e il nuovo, l’antica stizza e la serenità, il romanzo d’amore e il quotidiano, l’esultanza e la sorda umiliazione. La statua seguitava a ruzzolare, il cellulare non dava alcun segnale. Il sipario a brandelli era caduto, giaceva in terra come una sottana. E ora, dalla platea, risuonavano fischi, fischi, fischi…Ma dov’era la gioia in tutto ciò? La sua ansiosa, la sua cara, avida gioia? E Palma realizzò ch’era scomparsa, era svanita delicatamente e al tempo stesso con un tonfo sordo, come un corpo svanisce nella neve. E guardò il cellulare, lo guardò, e avvertì tutte insieme, audacemente, la cecità, la sordità, il mutismo di quel piccolo oggetto senza amore. Ebbe allora, così, improvvisamene, un moto tragico di ribellione, una specie di pallida rivolta contro se stessa, contro il cellulare, contro ciò che di “lui” serbava ancora in un vecchio cassetto della mente, e la sua mente stanca si sorprese a immaginare una fotografia, una foto con tanto di cornice che appariva consunta, butterata. C’era lei, c’era lui, c’era un mucchio di facce conosciute che nell’atto medesimo, però, di far da sfondo a quella loro posa, si mutava in un’orda di fantasmi, c’era anche un’immagine di cielo, un residuo di cielo ch’era come un violento strisciare di pennelli. E vide poi se stessa, sola, stavolta, sola, col cellulare stretto fra le mani, mani che ora le parvero vecchie, rimpicciolite, anche avvizzite nel gesto stesso di tenerlo stretto, tutte tese e sbiancate sulle nocche. E allora percepì, simile a un’eco, come un gesto di beffa solitaria, sola, in un clima di coralità, la vittoria sgorgata tempo prima dall’elastica forma del suo ghigno, l’ilarità legata alla sua gioia, ch’era come un clamore di risate, di risate di un pubblico alto, in piedi, che lei non era non era in grado di vedere. Gettò a terra l’oggetto, bruscamente, si raccolse la gonna, saltellò, e cominciò a pestare, a calpestare, a sgambettare freneticamente finché la cosa non fu andata in pezzi. E Palma la guardò, la contemplò, le due mani sui fianchi, come una donna a un ballo di paese, e le guance paonazze, anche sudate, il cuore che le balzava dentro il petto. Poi, finalmente, ritornò la pace, e con la pace, la soddisfazione, e con questa un gran senso di benessere che, poco a poco, snaturò, cambiò, si mutò in un accesso di trionfo. E lei si mise le due mani al cuore. E respirò affannata, stanca, affranta, finché qualcosa non la illuminò, non le arrestò il respiro, la travolse. Certo, si disse con il fiato in gola, era “lei”, era “lei” che riappariva. Esultò allora, oh, come ne esultò. Si ricompose, sospirò, soffiava. Guardò ancora i pezzetti sparsi al suolo, un cimitero di frammenti scuri, una fossa comune nera, illune. Ora capiva, ora realizzava. Ora sentiva che, forse per sempre, la sua gioia era infine ritornata.

(aprile-maggio 2014)