Gëzim Hajdari, quando la letteratura ritrova il suo senso aulico: Nûr, la madre.

Gëzim Hajdari, quando la letteratura ritrova il suo senso aulico: Nûr, la madre.

Gëzim Hajdari, quando la letteratura ritrova il suo senso aulico: Nûr, la madre.

Raramente capita di fare una grande scoperta letteraria. Nûr di  Gëzim  Hajdari lo è, come del resto tutta la sua bibliografia, e per un preciso motivo. L’ultima opera del grande poeta contemporaneo ed esule albanese appartiene alla grande letteratura epica. L’epica che risiede in un’area antropologicamente definita come quella degli “albanesi delle montagne”, che mai sono stati piegati dalle varie invasioni nel paese delle aquile, e il loro codice, il Kanun. Una summa di leggi che regolamentano i rapporti nella comunità, la buona vicinanza, la pace, la guerra, il trattamento del nemico, le quali hanno alla loro base il concetto di fis (stirpe). Al centro della vita ogni albanese malsor (montanaro) c’è la besa, ovvero l’onore, la parola data, l’aderenza alle proprie convinzioni. C’è una besa per la comunità e c’è una besa con i nemici vinti.

C’è anche una regola per la vendetta, che lungi dal fomentarla, ha rappresentato per queste comunità un modo di regolamentare i conti, in assenza delle regole democratiche, o meglio ancora, il kanun rappresenta un modello culturale di ampio respiro, ben coscienti che la storia delle civiltà ha saputo e sa esprimere valori che possono o meno essere dei parenti delle democrazie occidentali. Il Kanun però in qualche modo lo è, e rappresenta una vera ricchezza per gli storici e gli antropologi rinvenendone elementi comuni con le antiche leggi di Roma e di Bisanzio, con Cicerone, con le consuetudini normanne o gotiche, con i codici longobardi e serbi. Si noti, tutti popoli che sono parte fondante anche dell’Italia, ad eccezione della Serbia che a sua volta però sin dall’antichità fu storicamente influenzata da popoli comuni.

L’enorme fascino del poema di Hajdari sta nel fatto che questo codice rappresenta probabilmente l’appendice più reale ed evidente di un mondo antico che però è vicino a noi, sia perché il kanun nella sua forma radicale è rimasto integro fino a non molto tempo fa, sia perché ancora adesso gli albanesi delle montagne in una certa misura vi si riconoscono, là dove le ali della nuova democrazia albanese sono ancora troppo tenere per sostenere il volo con una certa autorevolezza. Ancora oggi per dire se si è uomini di besa si usa semplicemente dire: “sei uomo?” (je burre?).

In questo contesto antico ma che sopravvive fino ai giorni nostri si staglia la singolare e grande figura del poeta albanese, che ambienta una storia di “eresia e besa” nella Roma papalina dell’inquisizione, dove Gëzim, condottiero albanese, viene condannato al rogo per aver osato sovrapporsi alla croce in segno di comunanza e amicizia dei popoli. Condannato, la madre Nûr si rivolge agli Xhin, anime malvagie che hanno poteri soprannaturali, al fine di liberare il figlio, e per fare ciò vende la sua anima a tali entità. Scoppia una battaglia senza tregua tra i romani e gli Xhin, che avrà i suoi epiloghi e le sue conseguenze. È bene che il lettore li scopra e viva integralmente nella lettura. Occorre dire che il poema è denso di quelle figure epiche e ancestrali che hanno dominato ed esistono ancora nell’immaginario collettivo albanese. Le Ore (geni tutelari che dedicano la loro vita alla famiglia), il Lahutar, ovvero il rapsodo con liuto monocorda ad arco, che funge in parte da antico coro greco, e altri personaggi ed entità importanti per il corso della storia e quindi della struttura del poema. Fondamentali sono anche i vari usi e tradizioni, citati sempre con il loro nome originale, oltre che le straordinarie leggende popolari.

Il grande fascino della scrittura di Gëzim sta appunto in questa commistione che c’è tra la sua maestria di poeta e la materia trattata, così vicina e così lontana. Nel mondo occidentale quasi nessuno può proporre della poesia epica senza cadere nell’artificiosità e nell’affettazione, mentre Hajdari lo può fare, perché questa materia è vivida nel suo essere uomo prima che poeta. Del resto è anche vero che oggi molti poeti di talento sono fin troppo piegati a una visione esistenzialista o succubi della materialità dei nostri quartieri, delle nostre stanze, del consumismo o post consumismo. Hajdari ci riporta a una dimensione forte e antica che non vive solo nel ricordo, ma anche – e in  qualche modo – di una certa attualità e di un’identità transculturale. Ogni cosa del resto, per sopravvivere ed essere coerente, deve tradire se stessa  al fine di rinnovarsi nei tempi, nelle mutate esigenze che sfociano in un nuovo modo di pensare. Gëzim, l’eroe e guerriero protagonista – il quale porta lo stesso nome del poeta e ne è un alter ego – potrebbe essere un figlio della sua terra che ha tradito la besa, ma in realtà è un uomo che la rinnova in un progetto, in una dimensione “progressista”. Un dramma che ricorda da vicino le rappresentazioni sacre e le “stazioni” che le sono pertinenti, come anche certa letteratura e cinema nordici sono stati in grado di proporci. Tale opera però ci costringe a vedere retrospettivamente tutti i capolavori hajdariani, come per esempio San Pedro Cutud, Viaggio negli inferi del tropico (Sant’Arcangelo di Romagna, Fara, 2004); rif. pag. 131 di  Nûr. Perla rara della letteratura mondiale, denso di emozioni, di quel “non detto” che risuona potente tra le valli, ma anche estremamente scorrevole come un limpido fiume di quelle terre, Nûr (la madre) si staglia imponente, come le figure archetipiche di certa nostra letteratura o storia: Giovanna D’Arco, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Gioacchino Da Fiore. Ed Hajdari un novello Ariosto, errante come lui. Si respira aria da Nobel.