"Blumenbilder" di Giorgio Linguaglossa

“Blumenbilder” di Giorgio Linguaglossa

Recensione di “Blumenbilder” (Passigli, 2013) di Giorgio Linguaglossa. Articolo di Marisa Papa Ruggiero.

Quando ho letto questo libro di Giorgio Linguaglossa, circa un anno fa, un verso, in particolare, mi rese subito chiaro quale fosse la metafora calata nel tema del libro: “forse il mostro è il sonno del girasole”… (p. 28) Ma tutto il libro, devo dire, ogni suo verso, mi riportava sempre al punto focale nel quale è riposta gran parte dei significati di questa poesia, e tale centro non poteva essere che il tempo, il fattore unificante che li comprende tutti.  Natura morta con fiori!  C’è tutto il  tempo della fine in questo titolo! Che cosa può rimanere del fiore dopo che l’intero processo d’essiccazione è compiuto? Eppure è proprio della parola poetica pronunciare l’impossibile. È l’uccello “stregonesco”, la fenice che risorge dalla proprie ceneri a pronunciarlo.  Il lettore capisce subito che non gli è facile sottrarsi alla circolarità dei  messaggi cifrati che questa struttura-libro emana, che non basta affinare congegni retorici per coglierne il clima, ma gli occorrerà fare prima di tutto i conti con la propria facoltà di ricezione, con il problema della visione e dei suoi spazi. Intanto, gli è dato “spiare “ all’interno, come da un oblò, ricevendone in cambio delle immagini esposte a una strana visibilità, e saranno queste a trasmettere senso, magari riformulando nuovi enigmi o giocando a criptarne di continuo i significati. Ed è subito chiaro di che natura è  questa esperienza di visione filtrata, allusiva, riflessa. L’oblò è la distanza, la lontananza da noi che guardiamo. È l’altro tempo, un tempo tutto interiore, è il tempo della mente. E ci chiediamo: è rappresentabile un tipo di immagine che dia forma al tempo? L’autore dissemina  lungo tutto il poema diaframmi e schermi e sipari di vario tipo, come “filtri di distanza” che rendono le immagini allusive, come spiate, costruite attraverso un sistema di proiezioni, di rifrazioni ottiche.

È una dinamica concettuale e simbolica, articolata in campiture  fotogrammatiche che Giorgio Linguaglossa mette in campo; (il nostro occhio di osservatori coincide con l’occhio di una telecamera che, spostandosi, dà l’impressione del movimento delle figure;) tale visione per fotogrammi, come è noto, rientra in questa poetica del tempo “sospeso”, non avviene per successione temporale, è una visione ripiegata su se stessa, che rende il senso di un immobile maleficio che grava sulle figure. La sapienza del regista sta nel trasferire il piano della cosiddetta realtà in altro. Egli vuol convocarci in questa realtà “altra” e ce la vuole mostrare attraverso delle sequenze che sono stilizzazioni figuraliestratte dal proprio immaginario, introducendo meccanismi di contrasto tra più luoghi mentali, conduttori di differenti funzioni semantiche nel prisma narrativo.

Per Ling c’è un tempo della mente e c’è  un tempo della scrittura, entrambi interpreti di un tempo sovrano che è quello della coscienza estetica. Il solo tempo tradito sembra essere quello reale. Sappiamo che il piano del “reale” per Giorgio Linguaglossa è il piano della scrittura (purchè si modifichi), non c’è altro reale!  Noi che osserviamo da un oblò, una cosa l’abbiamo capita: che la riconoscibilità del reale della scrittura,  per il nostro autore, passa attraverso la potenza metamorfica e relazionale di piani figurali in continua tensione interna, dando impulso magnetico a ritmi e figure.  E questo è compito dello stile, il carattere intrinseco del libro.  Ling le chiama: “tessere magnetiche” questi piani metamorfici e relazionali in continua collisione, e non sono affatto marginali queste tessere magnetiche, perché conduttrici di accensioni  “termodinamiche” per così dire, e in tal senso impediscono alla scrittura poetica di “adagiarsi” in una serie di segmenti lineari.

 Il lettore si rende conto del carattere iconico (tridimensionale) della scrittura poetica, costruita cioè, per piani spaziali “slittanti”; ed ugualmente si rende conto che intercorre, nel poema, una struttura analoga in rapporto al tempo, alla struttura di un  tempo triadico: quello del passato: rilevabile nel diverso grado di ossidazione (temporale) che grava sulle figure e sulle scene, e quello di un presente che mira a una futura “trasfusione” di verità in direzione della coscienza. Il lettore sa che c’è un tempo della “verità” e c’è la “finzione” della verità. E la finzione della verità è propria del teatro. Per Linguaglossa la verità è impronunciabile, la verità richiede la rappresentazionescenica. Non c’è altro modo. Il teatro ancora una volta è mentale.   L’autore non fa che procedere verso la teatralizzazione della materia narrata nell’intento di puntare un riflettore allusivo sulla celebrazione di un rito. Un rito funebre, un rito sapienziale? Un rito finale?

Un rito finale. Avremo allora la dimensione di un tempo sedimentato, di un tempo depositato forse per sempre in un’urna, in una teca sotto vetro. – Natura morta con fiori – Noi osserviamo la scena da un’altra epoca, quella azione è già accaduta, è una scena riesumata in un luogo fittizio della mente. Tra questo tempo già avvenuto e noi che leggiamo, Ling. ci mette una voragine di 25 anni! Noi siamo convocati in questo non tempo, in questo tempo sospeso, che dà separazione, eppure, riguarda il nostro presente, ci riguarda profondamente, ne siamo immersi.  Ecco l’aspetto più inquietante del libro: questa storia “defunta” come la definisce il suo autore, questa storia che ci rende tutti postumi, tutti già trascorsi, già scaduti, si  presenta a noi in una ben strana immediatezza!  è  accaduta da tempo? Continua ad accadere?  è ora che accade…

Sperimentare la mutazione è il compito della lingua, della lingua capace di continue strategie di trasmutazione. Ce lo dicono i “tagli” scenici messi in atto dalla irrequietezza psichica di questa scrittura, da certi lampeggiamenti improvvisi, metallici, elettrici, come torce puntate negli occhi, dall’impiego di tinte aspre, drammatiche, tutt’altro che neutre, contrapposte a tinte sature. L’autore mette in campo procedimenti ottici ad alta e bassa risoluzione alternati,  alcuni piani in rilievo accanto ad altri oscurati o sfocati, come in certe procedure filmiche. Provvederà l’arte poetica a dare a questa sontuosa visionaria macchina scenica, una sua circolarità.

                                       Napoli. 28 . 04 . 2014

… è probabile che ci siamo incontrati

in qualche hall d’albergo di terza categoria,

tu facevi la ballerina ed io

il perdigiorno…

o alla biglietteria di qualche aeroporto:

Santa Fè, Lisbona, Madrid, alla fine o all’inizio

di una tournée, oppure in una latrina di Mogadiscio

al termine di una soirée…

sono indizi che mi tornano alla memoria

ora che ti rivedo in un ritratto

che forse ti assomiglia…

forse progettammo di prendere un tè

in un bar di sottoripa, a Venezia; dovevamo

essere in tre: io il tuo doppio e te;

sì, il tuo doppio! che adesso si vendica

della tua esistenza!

Eravamo drasticamente giovani

questo lo rammento – quanto al resto

non mi dà tormento la stanza sprangata,

ha l’odore d’un vassoio di crisantemi…

ti sei seppellita con le tue mani

in un cunicolo dell’oblio… «ma perché?»

– mi chiedo –  «perché?»

saggiamente, sono rimasto a debita distanza,

la memoria è una stanza chiusa

dove non si entra senza bussare…

dovremmo essere in due a chiedere

il permesso…

ma questo il fato non l’ha concesso

*

… forse ci siamo incontrati in un budello

di Istanbul – io ero il portantino e tu

la regina assira distesa sulle mie spalle

rigonfia di perle e altezzosità… forse

siamo stati catturati nel tranello

di Abu Talal, il sultano celeste, prigionieri

del suo celeste gineceo… forse siamo

entrati nel mantello di Samelech

il diavolo dalle quattro corna e sbucati

in una notte di luna piena a Taskent

soldati del crudele emiro turco… forse

siamo lèmuri di disertori sgozzati

per ordine dello scià di Persia, dopo

una notte di orgia, nel cortile della

prigione al rullo dei tamburi… forse

siamo saltatori di Marrakesch, defunti

dopo un triplo salto mortale: le mie

mani non hanno agganciato le tue tese

allo spasimo… siamo i domatori

delle tigri del Bengala, belli come dèi,

strangolati dalla nostra impari audacia,

o contorsionisti cinesi dalla strabiliante

flessuosità che irridono il rozzo pubblico

bulgaro in un circo della lontana provincia

dell’imperatore…

forse siamo illusionisti della notte,

brilliamo come fari nella tenebra