Anna Ventura legge alcune poesie di Marco Onofrio

Anna Ventura legge alcune poesie di Marco Onofrio

Anna Ventura legge alcune poesie di Marco Onofrio.

Un approccio critico all’opera poetica di Marco Onofrio non può prescindere dalla premessa che quanto verrà letto, e meditato, presuppone un legame inscindibile tra forma e contenuti, poiché ci troviamo di fronte a un percorso poetico che si affida non solo alla esposizione del pensiero, ma anche al “come” questa esposizione si realizza. Molti concetti, infatti, prendono forma e vigore dal linguaggio che li esprime: linguaggio ricco, coraggioso,”barocco”, nell’accezione migliore della parola; non il barocco stracarico e pesante, ma quello denso di forza e di meraviglia; quello che conquista il vuoto e lo rende concreto. Basta leggere con attenzione “Fuga”, il primo componimento della raccolta di poemetti “Disfunzioni” (Edizioni della Sera, 2011), per avere già un’idea precisa della poetica di Onofrio. Il testo descrive «una casa sommersa, a due piani / sfondata nell’interno come un pozzo, /stipata di vertigine abissale. / È un lago di sabbia e di sale / È la forma di un palazzo in fondo al mare». Si noti la frequenza della lettera “s”, onomatopeica, che annuncia i versi che seguiranno: «Lagnosa di tubi che fischiano / maligni del fuoco che è all’interno». Col pianto dei tubi compare il suono, per poi tornare, alternativamente, all’immagine: «Sono le stanze infette dell’estate: / è il corridoio assurdo senza fine». E, dentro, ci sono i demoni: «come le scie di una presenza della notte, / la forma e la distanza del suo nero». Questo ultimo verso è bellissimo, comunica lo sgomento di fronte all’invisibile che tuttavia esiste, e può palesarsi quando vuole: sono i “sogni della ragione” di Goya, onnipresenti e ostili, pronti all’assalto proditorio. E tuttavia questa casa sommersa può diventare un rifugio, un luogo inesplorato perché ostile a chiunque, e pertanto qui la fuga è possibile, è possibile stare «lontano dallo sguardo della gente», finalmente giunti al capolinea di un allontanamento necessario.

Torna il tema della fuga in “Roma esercito” (“Disfunzioni”, pag. 39), fuga dagli uomini orribili che hanno “ucciso dentro” il bambino che “erano un tempo”. Anche qui, il luogo in cui l’azione si svolge allude all’angoscia che ha resa necessaria la fuga: «Imbocco un corridoio senza fine. / Mi porta ad un cortile circoscritto / quadrato tutto intorno in muratura». Nell’aria, una parola terribile: “punito”. Punito perché “obiettore di coscienza”, renitente alla leva. Lui reagisce a muso duro, ma con l’ottusa coerenza dei militari non si scherza. Si scherza, invece, con certi personaggi tragicomici che pullulano per Roma, come il «Rodolfo Valentino de noantri», con la sua corte dei miracoli di donnine allegre, pronte al ballo (dopo che «scappa dappertutto l’invitaggio») e a qualunque altra concessione, se richiesta. L’elenco dei nomignoli delle belle è un capolavoro di amenità: uno per tutti: «la più tanta».

Nel volume di liriche “Ora è altrove” (Lepisma, 2013) il discorso poetico di Marco Onofrio segue un percorso più piano, più meditato; la premessa, in corsivo, è una dichiarazione di poetica nuova, che porta a un superamento di sé, alla ricerca di spazi ulteriori. Nuovo è anche l’approccio alla natura, osservata con l’occhio attento di chi in essa cerca la manifestazione possente di una forza superiore, un mistero, che si esprime in un testo particolarmente felice (“Il mistero”, appunto, in”Ora è altrove”, pag. 80), dove nel “corpo vivo della madre terra si individua “il fuoco azzurro della sua cintura”: un’espressione ancora una volta barocca, eppure insostituibile.

Onofrio conosce il peso e il valore della parola, e lo dichiara in un testo importante, che si intitola, appunto, “Le parole” (“Ora e altrove”, pag. 82): qui si pone il problema del rapporto tra parole e cose, un rapporto difficile, che deriva dal fatto che parole e cose sono, in fondo, un tutto unico; poiché le cose sono «parole / della lingua nuda che dimenticammo / terribile, inequivoca, assoluta / fatta di pensiero e di energia». Ci fu un tempo in cui l’uomo si espresse, forse, solo col movimento del corpo, col grido inarticolato che gli usciva dalla gola: al tempo in cui le cose erano mezzi per sopravvivere, per affrontare l’immane lotta con la natura. La parola è una conquista faticosa, nata dal bisogno di definire le cose, e di comunicarle agli altri; ma è anche il primo modo per esprimere il proprio io, l’uscita dalla ferinità verso il mondo eletto degli uomini. Forse c’è troppo pessimismo in “Colloquio” (“Ora è altrove”, pag. 86): «Non potremo mai racchiudere / in una forma umana / la gioia del vero / colloquio. / Comprendersi è tutto». Perché non ci dovrebbe essere un “vero colloquio” tra l’io e gli altri? Forse perché miriamo troppo in alto; vorremmo un dialogo tra eletti, mentre basta guardare due vecchi che camminano insieme per la strada, o siedono sulla porta di casa su due sedie uguali, per trovare un esempio di colloquio: umile, banale, magari anche segnato da piccoli dispetti e minimi rancori, e tuttavia vero, presente, ineludibile. Così il senso dell’addio, così annichilante, così ingiusto, che ci assale proditoriamente (e tornerà ad assalirci) davanti alla perdita inevitabile, anche l’addio lascia che si possa ancora bere “il sangue della gioia”: perché, come dice l’incomparabile Marquèz, “la vita è più sterminata della morte”.

Anna Ventura

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POESIE DI MARCO ONOFRIO

da “Disfunzioni” (2011)

Fuga

È una casa sommersa, a due piani.
Sfondata dall’interno come un pozzo,
stipata di vertigine abissale.
È un lago di sabbia e di sale.
È la forma di un palazzo in fondo al mare,
un oceano raccolto in un bicchiere.
Lagnosa di tubi che fischiano
maligni del fuoco che è all’interno.
Ferrigni riverberi di luce
incisi dentro al buio dell’eterno.
È la musica del tempo,
è l’ancestrale suono che si è spento.
È un ricordo che soggiorna e non si muove,
è un macigno di silenzio ch’è padrone.
Escrescenze filamentose allignano
di polvere le spore,
superfetanti fitte ragnatele.
All’angolo dei muri e dei cantoni,
nel mezzo del pattume accumulato,
funghiscono organismi cellulari
fioriscono amicizie vegetali
simbiosi innaturali
sospiri di misteri e parassiti
e ragni velenosi,
gli acari invisibili e virali,
e i vermi anelliformi e i protozoi.
E spugne di laniccia e rimasugli,
matasse di filacci e di capelli
intrecci di cavilli e segatura,
carcasse di pidocchi e spuntatura,
e nidi pullulanti di formiche
e villi palpitanti di calura
e tocchi putrescenti di vapori
e croste e spoglie mute epiteliari.
È il mal della natura,
la forma e la sostanza di bruttura:
è il pungere mortal della fattura.
Sono le stanze infette dell’estate:
è il corridoio assurdo senza fine.

Soffia, dalle sbuffanti sacche dell’ordigno,
il mantice a pressione
che gonfia e nuovamente rifà vuoto
ancora eternamente all’infinito
e mugge dal profondo che vi appare
nella distanza muta del suo lampo
quell’essere bovino originale,
l’incandescente spirito animale…
E non ha scampo, ché deve
rituffarsi e scomparire
per poi di nuovo a monte incominciare…
È il distillato omuncolo fetale
la concrezione prima del bambino,
è l’amnio prenatale
membrana lamellosa e iridescente:
è il grido del silenzio viscerale…
Ci sono demoni nascosti dentro l’aria:
si sentono vicini palpitare.
Sono vestigia delle ataviche deità
nelle più grasse bolle contenute
articolando mute opacità:
a frotte, a schiere, a torme di legioni
nei posti più nascosti e soffocanti
di taglia più normale e straordinari
sobbollono, sorvegliano, a metà
come socchiusi occhi al cuor profondo
quando finisce il mondo al buio vero,
come le stelle mute in fondo al cielo…
(…)

Al privè (Roma anni ‘80)

Strompegone bullo e barracano
le froge impelagate nel susone
moro in quintavalle
al “Pettinari”
– calotta impomatata a brillantina –
vi accoglie sul portale
imbottito panno sopraffino
è un bel righetto er più
di quelli rari
sorriso paragulo e brigantino
− le cicatrici in viso da cortello −
è fatto cor pennello: è un poperuolo
e ci ha lo stuolo delle ammiratrici
Rodolfo Valentino de noantri.
Saddùri di spemezie e lucisano
(Ruoppolo e Marcacci i buttafuori)
mutili geppini in caravelle
burlacchiano
cesibanti, rucidi.
Nervosamente fuma il principale
fra i denti masticando i suoi “mortacci”.
Discinta Delfina gamesce
finalmente
vandosireggia liscia sulle scale
sguainando le sue gambe col fumè.
E all’improvviso romba una scorreggia
di applausi parvenuti e pulvirenti
una fullezia grolla di maestrale.
E parte conseguente la canzone.
Rulla scivoloso il batterista
spazzola e scigulla bene a vista
gracchia il trombettiere
ronna il contrabasso e il puttaniere:
e pure il violinista affetta bene.
Cataplèm, ratafin
Patapìmpam
“Ballino, signori, ballino
coraggio”.
E scatta dappertutto l’invitaggio.
Abili imprillibusti
occhiano carpacci
iccinelli tombano
compìti silvupleggiano
inchini di pinguini
cuccano, acrimanti
in gerbide susanne butterate
sullano cuppe bistratte
campeggiano scelbe
munne di tatille fascicose
e lullano puppe
imparzeccati di curve munte
sambano, cumbiano, toccano basti
in sèllere bimbiate
suprescono, ischiano, superchiano
madramescate finnule calunte
cesumelle scosciano bannuti
scrofano lingue
scafananti busti in decolleté
bottiescono canti
perplimono liscivi.
(…)

da “Ora è altrove” (2013)

MITO

Cercavo l’asola del tempo
per scucire il misterioso vestimento
delle cose, l’impronta atavica
di sotto del molteplice apparente.
Mi dissero dell’acqua,
“vai all’acqua”:
tornare alle sue strade
primordiali.
Mi immersi giù nel regno delle Madri.
Mi aggrappai al seno sconfinato
di una grande Notte femminile
succhiando – ubriaco di vita
il principio della totalità:
eredità di terra prenatale.
Era una grotta immensa di schisti
di stalattiti cosmiche e stellari:
un antro di splendenti apparizioni.
I corpi rivelavano spontaneamente
il gioco dell’amore e della morte
iscritto dentro al cerchio
della vita, nelle stagioni umane.
Mordevo, ebbro, la bellezza del mondo
sorretto da forze terrene e – in egual misura
da spiriti celesti e soffi rari.
Vidi Urano tenebroso, muto,
custodire la sorgente prima,
lo spazio e il tempo originari,
e poi, più in là, l’impensabile inizio,
il limite più fondo ed assoluto.
Fluttuai, a ritroso, nella liquida oscurità:
era uno spazio nero che splendeva.
Ascoltai le memorie dell’Oceano:
c’era il mistero della storia
e il racconto mitico dell’uomo.
Vidi staccarsi, dalla fenditura
che il tempo nel suo inizio ha procurato
e da cui sgorga ancora, una figura
familiare, non riconoscibile
in un vapore di riflessi ipnotici:
si dissolse istantaneamente,
dopo millenni e millenni
di attesa. Ero giunto appena
per coglierne il guizzo, la strana
silenziosa apparizione: la mia vita
dunque, non era stata vana.
Le acque della morte, inesorabili
si chiusero per sempre su di me.

IL MISTERO

è ovunque intorno a noi,
è dentro a ciò che siamo,
è in ogni cosa. Anche le stelle
più lontane sono qui.
Il cielo inizia a un pelo dalla terra
perché la terra è nel cielo
un pianeta che rotola pel cosmo.
Quest’energia tremenda, silenziosa
prorompente, è la stessa che
sonnecchia dentro il seme:
la scintilla che divampa alle radici
e sospinge lo sviluppo della vita.
Guarda le zolle di un campo
o le foglie di un bosco
o i granelli di sabbia
in riva al mare:
è come contemplare
un firmamento
di particole uniche,
un labirinto
di presenze singolari
identità.
La riserva inesauribile di senso.
Lo splendore muto delle cose.
Il prodigio che non finisce.
Guarda, in un prato
come fluisce il palpito del vento
che si comunica ai fili d’erba
verdissimi, lucenti, rigogliosi:
come mareggia d’onde
d’oro il grano gonfio.
È la clemente solitudine dei luoghi:
il silenzio, che dorme sopra i mari
e intorno ai monti, mentre la vita
ferve e la nuvola va,
ombra di mutevole armonia
è l’euritmia che vibra dentro l’aria
nel corpo vivo della madre terra
il fuoco azzurro della sua cintura
la grande verità della natura:
il mistero è qua!

LE PAROLE

sfondano muri, aprono varchi, spianano confini:
hanno il sapore e il riverbero del mondo
sono la coscienza, il sale che sa…
ma impediscono la vera conoscenza.
Tra parole e cose c’è l’antica inimicizia
che, dopo l’Eden, ci contrappose a Dio.
La realtà inizia dove loro finiscono
che sono cose, e non sono
vibratili, diafane, di placenta umana
appiccicose come la tela del ragno,
chiuse come pentole del sogno
(se le scoperchi dentro non c’è niente:
solo un po’ di polvere di luna).
Ma soprattutto le cose, sono parole
della lingua nuda che dimenticammo
terribile, inequivoca, assoluta
fatta di pensiero e di energia
che poi reimpareremo sul traguardo
quando di mille strade, sarà una.
Così, fintanto che io vedo la mia
(come da uno specchio deformante
ombre della notte in pieno giorno),
c’è sempre un muro di parole
di vaghe astratte imperfezioni
e di approssimazioni inefficaci
che mi separa dalla terra in fondo aperta
dove scorre l’aria della luce
l’eterna misteriosa verità…
là fuori, a un passo dal mio sguardo.

PAROLA

L’universo è una parola:
l’unica vera,
l’unica non nostra.
Una parola che significa di sé
senza referente.
Una parola assoluta
dai sensi e dai suoni infiniti.
Una parola incisa nel silenzio
come una ferita.
Ora: il grande silenzio
dell’universo
è il silenzio che precede
questa parola
se si deve ancora dire
o dire ancora…
o quello che segue la parola
che nell’universo già si disse…
o è il silenzio la parola
che l’universo è e dice
e la parola che noi stessi
gli dobbiamo e ci dobbiamo
rispondere?
E ancora: l’unica parola
che si dice da sé, nell’essere,
oppure, come tutte le parole,
ha bisogno di qualcuno
che la dica?
Chi è che pronunciò
la parola dell’universo?
Chi deve dirla
o continuare a dirla?