"Triestiner" di Massimiliano Forza

“Triestiner” di Massimiliano Forza

Recensione di “Triestiner” (Santi Quaranta) di Massimiliano Forza.

I triestiner, delle cui avventure Massimiliano Forza ci rende partecipi, sono uno scanzonato e allegro gruppo di triestini emigrati a Londra, città che funge da palcoscenico per le loro stravaganti esibizioni, tra ironia e malinconia, tra difficoltà economiche ed indolenza esistenziale. Più che per cercare lavoro e fortuna, i triestiner si sono trasferiti in Inghilterra per scappare da Trieste e da quel clima di paralisi che contraddistingue la città alabardata: «La mia anima ha sempre cercato altro, e mai si è ritrovata nell’imbalsamata realtà di Trieste», ci informa la voce in prima persona del protagonista narrante. Il desiderio di scoprire una realtà diversa, viva, dove «si può», al contrario di Trieste, spinge i vari personaggi a muoversi e a cercare nuovi spazi.

Londra, però, non è l’Eldorado, non è la terra delle opportunità; Londra è un luogo difficile e insidioso, nel quale non è facile integrarsi, trovare lavoro e vivere una vita lontana dalle preoccupazioni. La principale difficoltà imposta ai triestiner, paradossalmente, arriva proprio dal luogo d’origine, l’amata e odiata Trieste, costantemente evocata dalla truppa. Quell’atmosfera di insopportabile provincialità dalla quale vorrebbero scappare è profondamente radicata nel loro stile di vita e nella loro mentalità, tanto che una vera fuga risulta impossibile. Non a caso i triestiner sono chiusi nella loro piccola “comunità” e solo raramente stringono rapporti umani con individui di un’altra cultura, e quando capita non si tratta mai di inglesi, ma di altri stranieri emigrati a Londra, una città lacerata e arricchita dalle tante lingue e dai tanti dialetti parlati al suo interno. Proprio il dialetto è l’unico mezzo di comunicazione usato dai triestiner, quasi a non voler tagliare il cordone ombelicale che ancora li lega al passato.

Non si tratta solo di creare un rassicurante spazio triestino dentro una capitale del consumismo mondiale: l’esperienza accumulata in Italia, marchia indelebilmente il modo stesso di muoversi in un contesto tanto diverso, un contesto al quale nessuno sembra disposto ad adattarsi perché richiederebbe una rinuncia al modus vivendi nel quale si sono formati. «Lo stare a casa era per noi triestiner una filosofia, un’arte. Il non fare niente una naturale conseguenza dello “stare”», ci avvisa il narratore, che in un’altra situazione dichiara: «Guardavamo la vita passare, noi triestiner. A London come a Trieste, ci interessavano le ipotesi. Era l’idea della vita ad affascinarci, non la vita. E che fosse tutto vero o falso, non lo volevamo sapere».

Pur nutrendo una forte antipatia nei confronti del luogo natio, l’ironico gruppo dei protagonisti vive nella contraddizione di non riuscire a strapparsi di dosso quanto di triestino gli è rimasto dentro, riscontrando uno scarso interesse per ciò che esula dalle loro abitudini:

Cercavamo di evitare gli inglesi quanto più possibile. Era come se non abitassimo a London, noi triestiner. Vivevamo l’idea di quel posto, fregandocene della realtà. Detestavamo coloro che cercavano in tutti i modi di sembrare del luogo sposando ogni convenzione locale. Noi triestiner amavamo fare sempre le stesse cose, evitavamo qualsiasi cambiamento. Eravamo convinti che, tolti rarissimi casi, le novità celassero delle fregature. E se qualcuno ci diceva che non era vero, di non preoccuparci, tremavamo. Nessun triestiner se la sentiva di buttarsi allo sbaraglio, anche soltanto cambiando zona o pub.

Londra, in fondo, è una città come le altre. In qualsiasi altro posto si fossero trovati a vivere, i triestiner non si sarebbero comunque comportati diversamente; non sarebbero riusciti a vincere quel contraddittorio desiderio di scappare dalle proprie radici per poi ricrearle in una dimensione sociale diversa. La snervante ricerca della felicità cui tende il gruppo è la ricerca di una nuova patria lontana da Trieste dove poter vivere da triestiner, ma è una causa persa in partenza. Anche l’isola di Cadice, considerata un’oasi della felicità, in realtà rivela un carattere illusorio ed effimero, perché le gioie che offre rappresentano solo un attimo di tregua dal grigiore quotidiano.