Tradurre Rilke: nel tempo

Tradurre Rilke: nel tempo

Ritrovare un vecchio volume di poesie di Rilke e riassaporare la pregevole traduzione di Vincenzo Errante. 

Un vecchio volume, contrattato con scarsa abilità a un bancarellaro di sciolta pronuncia pakistano-italiana in via del Gambero, a Roma, può far riassaporare la pregevole arte di traduttore di Vincenzo Errante; e poi, del tutto impensatamente, far ritrovare la poesia, letta sul sussidiario di seconda elementare e mai più ritrovata – tranne che per i due versi iniziali, impressi nella memoria e da lì, nel corso degli anni, riaffioranti misteriosi e dolcissimi, avulsi dal seguito – , il Risveglio del vento:

Nel colmo della notte, a volte, accade
che si risvegli, come un bimbo, il vento.

Solo, pian piano, vien per il sentiero,
penetra nel villaggio addormentato.

Striscia, guardingo, sino alla fontana.
Poi, si sofferma, tacito, in ascolto.

Pallide stan tutte le case, intorno:
tutte le querce, mute.

Ma ora, con oltre mezzo secolo alle spalle, quel lontano granello di senape ha frondeggiato e fruttificato, in parole apprese, in parole trovate, nella propria lingua, e in quella, musicalissima, di Rilke: sì che, riletti oggi, quei versi spingono a cercare il testo, nei Frühe Gedichte:

Manchmal geschieht es in tiefer Nacht,
dass der Wind wie ein Kind erwacht,
und er kommt die Alleen allein
leise, leise ins Dorf herein.

Und er tastet bis an den Teich,
und dann horcht er herum:
Und die Häuser sind alle bleich,
und die Eichen sind stumm…

e, quasi insensibilmente, a ricantarlo. Accettando, per altro, il suggerimento di Errante: al ritmo spesso anapestico, e un tantino bambinesco, dell’originale, sostituire quello, più fluido insieme e maturo, dell’endecasillabo katà stíchon, senza darsi pensiero delle rime (Allee allein è poco meno di un peccato contro Apollo, con buona pace del finissimo orecchio rilkiano!) cui ormai più nessuno bada, in poesia, ma pur ricreando la misura delle due quartine. Così:

A notte fonda, certe volte capita
che si svegli, come un bambino, il vento
e vada, solo, per le grandi strade,
piano, e piano s’insinui nel villaggio:

muove, a tentoni, fino alla peschiera
e poi ascolta, in giro: tutte s’alzano
con le facciate pallide, le case,
se ne stanno, tutte le querce, mute…

chiedendo venia, al sensitivo inquilino della “Praga magica” (perché sono quelle, le case di cui parla, che sole, benché prestate a un villaggio, potrebbero essere così fantasmaticamente bleich), se si è sfumato il nudo sind in un di più d’immagine, che fa tesoro della metafora permessa dal lessema italiano, e presta, alle querce, un di più di simmetria, e di umanizzazione: che magari non sarebbe del tutto spiaciuta, al cantore della magia delle cose.

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