Pioggia, banda toscana, barba e baffi: per Alberto Asor Rosa

Pioggia, banda toscana, barba e baffi: per Alberto Asor Rosa

L’augurio speciale della facoltà di Lettere della Sapienza per il compleanno degli ottant’anni  del prof. Alberto Asor Rosa.

Ieri mattina presso i locali dell’ex Vetriera Sciarra è andato in scena, una delle sede distaccate della Facoltà di Lettere (abbreviamo il nome per comodità) della Sapienza, mentre fuori l’aria grondava di un’umidità quasi primaverile, e il cielo, indeciso tra una schiarita e un rovescio, sembrava essere capace di soli capricci, un augurio speciale per il compleanno degli ottant’anni (in realtà accorsi a Settembre) del prof. Alberto Asor Rosa.

Forse il saluto che più di ogni altro e nato e si è sviluppato ‒ non poteva essere diversamente ‒ su un potente ossimoro capace di caratterizzare la fragranza delle ore mattutine come agile risultante delle essenze di intimità, calore, affetto (tra le altre) con l’odore dell’evento pubblico. Toni e colori, quindi, delicati ma profondi, seri ma faceti (come l’intervento ironico, croce di Lenin in petto, di Tullio De Mauro), orgogliosi e sinceri: merito all’organizzazione, la redazione del Bollettino di Italianistica, figlio adottivo e maturo (una delle riviste più importanti di Italianistica nel panorama nazionale) dell’intellettuale, che per la ricorrenza ‒ coincidente anche con il passaggio di consegne della Direzione della prestigiosa rivista ‒ ha dedicato un numero monografico, il secondo del 2013 (seguendo una prassi già in voga da un paio d’anni, scelta operata per Italo Calvino e poi per, il già ricordato, Tullio De Mauro), alla memoria in itinere del grande studioso.

Tanti colleghi, amici, scrittori, allievi e amanti della cultura hanno prodotto brevi pezzi (che si ha la curiosità di leggere) di prosa, e in qualche caso di poesia, pescando tra le pagine per alcuni un po’ ingiallite (per altri bianche e nuove) dell’esperienza personale ricordi, situazioni ed emozioni. Soprattutto queste, sotto la forma attenta dell’epifania letteraria accorsa a chi ‒ e nella fattispecie a un lettore eccezionale come Umberto Eco (quasi coetaneo di Asor Rosa), presente sul palco dei presentatori insieme con la giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi, con il direttore Einaudi Ernesto Franco e con il direttore del dipartimento, ospite dell’evento, Paolo Di Giovane ‒ si è appassionato alla prosa saporita, leggera, calma ma infiammata di Asor Rosa, capacissimo nella sua lunga carriera di passare da saggi scientifici, come quelli sul Decameron e su Pinocchio, a lavori di “genere” afferenti ai cultural studies (quei saggi piacevoli che si leggono tutto d’un fiato), fino a saggi politici, come il tanto puntuale quanto “pericoloso” e provocatorio Apocalisse (almeno nel ricordo di Ernesto Franco, che evoca una presentazione svoltasi con il servizio d’ordine e l’isolamento dei relatori), e a pagine di narrativa (forse più recente ma non meno godibile) che, ormai, fanno annoverare Asor Rosa come una delle ultime penne già classiche del panorama letterario italiano. La stessa presenza di Eco non può che spiegarsi sì con l’amicizia che senza dubbio deve aver legato i due (accennavano a incroci comuni, la prima recensione dell’uno all’opera dell’altro o a occasionali scorribande in comune verso atenei d’oltralpe e d’oltreoceano), ma soprattutto come il saluto, e la persistenza ultima, di quella generazione di grandi geni dello stile che, ormai, consapevole della nostra prossima oscurità del nostro mondo senza la loro luce, saluta se stessa e si consola ‒ con le parole dello stesso Asor Rosa lette da Umberto Eco ‒ con il raggiungimento, ma il più tardi possibile, del sogno dell’uomo vero: la totale, intrasmissibile, sapienza.

Insomma, una celebrazione che, per una volta, ha invertito il consueto: un gusto elegante in superficie esposto per nascondere il miele di un’antica festa; dove il primo cittadino, dallo sguardo autorevole e dai baffi folti (ma si legga colti), finge sornione di lanciare penna e libri sul pubblico scatenando risa, e soddisfatto mima, senza saperlo (o forse sì?), il peso di ogni parola, che, per lui, sono davvero della stessa consistenza delle pietre. Un grande ingegno che ha scelto di nascondersi non evocando la forma di un fantasma, dalla consistenza delle nubi, ma ricorrendo alla chiassosa sorpresa di una banda toscana e confondendosi nel manto morbido di Pepe. Questo così calmo, deciso e lento, si fa furiere della stessa andatura di chi (non ha fretta) gode di ciò che ha avuto, sicuro di averlo messo a frutto: occhi migliori (e mente fina) per guardare.

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