"Ocean Terminal" di Piergiorgio Welby

“Ocean Terminal” di Piergiorgio Welby

Mi resta difficile parlare di un libro come Ocean Terminal (Castelvecchi, 2010), concepito da Piergiorgio Welby in una sala di rianimazione a partire dal 1997 e curato da Francesco Lioce, nipote dell’ex militante radicale e mio vecchio collega universitario. Come una serie continua di colpi appaiono (e scompaiono) uno dopo l’altro flussi di coscienza, pensieri e squarci di vita di un uomo che volenti o nolenti ha camminato per anni su un filo esistenziale sottilissimo e troppo spesso invisibile. Sullo sfondo di una Roma post-pasoliniana e di quella Italia raccontata benissimo da Tondelli Welby carica queste pagine di una potenza arcaica e primordiale che espelle un magma che trascina e travolge ogni cosa. La forza del linguaggio e delle stesse parole è un fuoco antico di rara bellezza che si nutre di suoni, silenzi, grida, lacrime, sorrisi. Lo scrittore si fa creatore quasi messianico di un monologo ossessivo e vibrante; il gusto di trovare più codici – colto, poetico, volgare, letterario, ospedaliero – trova in un continuum panico tra lo scorrere della vita quotidiana (infanzia, adolescenza, età adulta, malattia), il mondo interiore (coscienza, amore, amicizia, paura) e quello esteriore(metropoli, sesso, tossicodipendenza) il senso stesso della propria esistenza.

Opera intensa e babelica, lirica e dolorosa, “vorace” e riflessiva, volutamente postuma,Ocean Terminal si presenta al lettore come un magnifico urlo di liberazione. Welby ci ha lasciato oltre all’amarezza della sua storia e di un sistema-Italia cieco e incapace di guardare oltre una barriera finto cattolica (non vi è nulla di cristiano nella condanna al dolore) una delle pagine più belle della letteratura contemporanea. Il termine “letteratura” non è affatto casuale: un libro da tramandare di generazione in generazione, da leggere e ri-leggere, da studiare e capire. Non tanto per comprendere il nostro tempo, quanto per osservarne e accettarne i limiti.