Mio nonno era barbiere e di guerra ne capiva poco e niente

Mio nonno era barbiere e di guerra ne capiva poco e niente

Mio nonno era barbiere e di guerra ne capiva poco e niente. S’intendeva di barbe e capelli, cappelli alla moda, scarpe lucide, fiori all’occhiello e serenate.

A suo modo era un artista ma senza saperlo. Scriveva poesie che non ha mai pensato di pubblicare né di raccogliere in modo organico e se non l’avessimo fatto noi parenti credo che tutto ciò che ha scritto sarebbe ormai andato perso da un pezzo. Insomma mio nonno di guerra non ci capiva niente e niente ne voleva capire. Ma di certo capiva la fame. Otto figli, forse di più; non ricordo. Una madre e un padre che si affaticano a sfamarli tutti e a mandare dignitosamente avanti la casa e la famiglia. Mio nonno aveva simpatie socialiste ma senza essere un fanatico; aveva l’umiltà di chi sa di non saperne un granché di Politica ma aveva anche la coscienza di chi sa che è giusto prendere una posizione. Quando nel ’24 fu ucciso Matteotti mio nonno stava in una stalla con un suo amico a fare una veglia funebre. Ovviamente era una cosa del tutto simbolica e quasi me li vedo questi due ragazzi chini su una sedia vicino alle balle di fieno un po’ tristi e un po’ in silenzio a ricordare Matteotti. Il fato volle che il fratello dell’amico di mio nonno fosse più grande, robusto, invasato e fascistissimo. Quando li sorprese a piangere per Matteotti li gonfiò di botte. Mio nonno me lo ha raccontato con un velo di tristezza negli occhi. Come fu che un giovane uomo come mio nonno finisse con l’arruolarsi volontario è cosa semplice da capire: non c’entra la politica, non c’entra Matteotti, né il Duce, né Hitler, né nessun’altra di queste cose. C’entra la fame, la famiglia numerosa, l’orgoglio di un figlio che non vuole gravare sul padre, che è giovane e sa che altri giovani stanno al fronte e che non può esimersi dal vivere il suo tempo. Fu come fu, si imbarcò a Brindisi destinato a combattere sul fronte greco – albanese. -Nonno come mai sei senza capelli?- gli chiedevo da bambina, dacché l’essere senza capelli mi sembrava una cosa del tutto strana e innaturale. – Me li ha fatti cadere quel maledetto elmetto da guerra- mi rispondeva mio nonno. Con l’elmetto, una divisa triste da far paura, logora in più punti, mio nonno combatté sul fronte greco – albanese sparando male, mirando per niente, soffrendo come un cane anche la fame da cui era fuggito. – Quei maledetti fascisti in alta uniforme, gli alti ranghi, per intenderci, appena arrivavano le scorte per noi soldati ci mettevano le mani sopra: sparivano forme di parmigiano, carne, salumi, ogni bene di Dio. A noi non rimanevano che zuppe e avanzi- Mio nonno non seppe star zitto e lo fece presente e questo di certo non gli giovò. Posso solo immaginare cosa sia il passare i giorni sui monti, al freddo, con poco cibo, sorvegliato quasi a vista, tenuto sott’occhio. Ma ci fu il fatto dell’armistizio che cambiò le carte in tavola. – Si torna a casa, si torna a casa- dicevano tutti. Ma casa per lungo tempo fu la Germania. Nonno cadde prigioniero dei tedeschi e come gli italiani si erano in fretta dimenticati di esserci stati alleati fino al giorno prima, altrettanto rapidamente se ne dimenticarono i tedeschi e non li trattarono con i guanti bianchi. Mio nonno veniva da Alatri questa graziosa cittadina cinta di mura pelasgiche che svetta su una collina e si dipana in vicoli ripidi stretti e in discesa per aprirsi d’improvviso in piazze e cortili con campanili a punta. La Germania dovette sembrare tutt’altro; il campo di prigionia dovette sembrare tutt’altro. Lui non ne sapeva niente di ebrei e campi di sterminio, forse aveva captato qualche voce, echi di disperazione giunti da lontano a cui si mischiavano storie su storie, smentite e conferme, tagli, ritocchi, dubbi… Fino a che di dubbi anche un povero Cristo mal informato come mio nonno non ne ebbe più. A mio nonno gli trema la voce, gli occhi si arrossano e la mano destra fa un  movimento scattoso che la sinistra non riesce a controllare. -Fui mandato a lavorare nei campi dalla mattina alla sera; lavoro duro- Mio nonno zitto, testa bassa e lavora. Fino a che non gli danno, un giorno, un sacco di concime da spargere sul campo. Lo apre, infila la mano. Il contenuto del sacco è caldo. È cenere. Non dico altro, ci siamo intesi come del resto intese lui. -Mi cominciarono a prudere le mani, comincia a grattarmi a farmi rosso a non poterne più- Le storie erano vere e non erano storie. Non so come ci riuscì per via del problema linguistico, ma forse fu la forza della disperazione, fatto è che si fece capire dal comandante del campo di prigionia. -Fatemi fare qualsiasi lavoro, qualsiasi cosa ma non quello. Non lo posso fare, non lo posso accettare-  E mentre ad Auschwitz, a Dachau, a Birkenau gli ebrei bruciavano e morivano e soffrivano mio nonno fu spedito agli altiforni, vero inferno tecnologizzato dove fu sfruttato come un mulo da soma, dove si ferì in modo grave ad una mano ma dove anche sopravvisse. Sopravvisse grazie al mandolino che suonava per darsi e dare compagnia, sopravvisse perché quando scoprirono che era barbiere i gerarchi nazisti si fecero fare barbe e capelli e lo reputarono “utile alla vita del campo”; sopravvisse grazie a un cane lupo morto e mangiato la sera di  Natale insieme ad altri compagni di prigionia e di sventura. Molti a Dachau, a Birkenau, ad Auschwitz non ebbero neanche quello. E morirono e il fatto angoscioso è che forse furono più fortunati quelli che morirono per fame rispetto a ciò che sappiamo toccò in sorte agli altri. La cosa che per anni mi ha sconcertato è come fosse possibile che mio nonno non avesse sviluppato un odio contro i tedeschi. Finita la guerra, liberati i superstiti dai campi di concentramento quanto in quelli di prigionia me ne sarei tornata di corsa a casa senza voltarmi mai indietro. Mio nonno no. In Germania ci passò qualcosa come un altro anno almeno. Vide la distruzione delle strade, delle città, delle famiglie divise. Vide la guerriglia urbana dei russi contro i tedeschi. -Un tedesco scappava e correva, correva a per di fiato con in mano una catena di salsicce che aveva rubato chissà dove. Un russo lo vede, prende la mira, gli spara. Il tedesco prima di morire fa ancora qualche passo, cade a terra e con le ultime forze prima della morte prende una salsiccia e se la mette tra i denti- Scene di vita animale e selvaggia che vanno avanti anche dopo l’ufficiale avviso “La guerra è finita!”. Insomma mio nonno lavorò un po’ come barbiere, un po’ come tutto fare per pochi soldi e a volte per niente, ma per chi come lui aveva conosciuto solo il lavoro e il sacrificio tornare ad essere un uomo, un uomo libero, significava tornare a lavorare, dignitosamente e non come un animale da soma. Non odiò i tedeschi per il semplice fatto che alla stessa stregua avrebbe dovuto odiare gli italiani, gli spagnoli, i giapponesi tutta gente che si era fatta infinocchiare dal totalitarismo. Il popolo è pericoloso perché decide senza rendersi conto che sta decidendo, che ha un grande peso e una grossa responsabilità. Ma il popolo è anche ignorante e tenuto nell’ignoranza, ingannato, sfruttato, abbagliato con facili mezzucci. Il popolo tedesco tanto fiero fino a qualche giorno prima non faceva eccezione. Tra chi aveva voluto desiderato e acclamato Hitler c’era anche chi davvero non ci aveva capito quasi niente. Mio nonno non se la sentì di condannarli e riuscì a portarsi via dalla Germania, oltre a tutto quel dolore e quel senso di morte, anche un briciolo di vita che inseguì nei primi locali che riaprirono, nelle case dei tedeschi che lo accolsero e lo sfamarono con un piatto caldo, tra le braccia di una donna con cui pianse lacrime amare, lacrime di guerra, ma con cui dopo tanto tempo riamò. Se ne tornò a casa e visse la sua vita da poeta- barbiere votando socialista sempre. La guerra in verità non l’ha mai lasciato. C’è sempre stata sotterranea e invincibile, raffiorante qua e là in sprazzi di vita colorata che mio nonno ha saputo vivere con un ottimismo che invidio e a cui mi ispiro. Quando si ammalò verso i novant’anni per un ictus e quando la malattia si aggravò sempre di più, cominciò ad avere allucinazioni sulla guerra. -Arrivano i tedeschi, vogliono bombardare. Ce ne dobbiamo andare da qui e subito!- Oppure vedeva serpenti aggrovigliati sul suo letto e sentiva rumori e voci che non esistevano. Ma non è morto per la guerra e non è morto con la guerra negli occhi perché resistendo al campo di prigionia aveva scelto di vivere, aveva scelto la vita anche se per lungo tempo vivere aveva significato soprattutto sopravvivere. Non è morto con le allucinazioni sulla guerra perché ci siamo stati noi nipoti che con armi immaginarie e immaginifiche, ma anche a volte con bastoni e molle del camino abbiamo combattuto per lui quei fantasmi irreali che vedeva. E ci sono stati giorni felici senza guerra, senza voci, senza aerei, bombe e serpenti neri. C’è stata fino all’ultimo una canzone che suonava mio nonno col suo piccolo mandolino.