La fenomenologia della ferocia. "La ferocia" di Nicola Lagioia

La fenomenologia della ferocia. “La ferocia” di Nicola Lagioia

Recensione di “La ferocia” (Einaudi) di Nicola Lagioia.

Dove tu vai è autunno e sera
azzurra fiera che sotto alberi echeggia,
solitario lago a sera.
Lieve il volo degli uccelli echeggia,
la tristizia sopra l’arco delle tue ciglia,
il tuo sottile sorriso echeggia.
Un dio ha piegato le tue palpebre.
Astri, fanciullo del dolore, cercano
a notte il portale della tua fronte.

Georg Trakl

La storia inizia in medias res. Un evento drammatico si consuma sotto i nostri occhi, lasciandoci sgomenti. Dalle prime pagine qualcosa non ci torna sulla dinamica dell’accaduto, i nostri sospetti ci spingono a cercare oltre. Ecco, nell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, La ferocia, edito da Einaudi e ora candidato allo Strega, troviamo elementi narrativi molto vicini al linguaggio delle immagini e ai meccanismi della cinematografia; tessere di storie individuali, sequenze spezzate e poi ricombinate compongono da un lato un quadro ben definito, ovverosia l’ascesa economica della potente famiglia di Vittorio Salvemini, palazzinaro dal fiuto predatore, e dall’altro mantengono l’allusione impalpabile del non detto, del dato psicologico più recondito in ogni personaggio. Il libro si legge come fossimo inchiodati davanti a un film le cui scene-chiave riveleranno man mano il telaio del plot: il presunto suicidio di una ragazza – Clara, figlia per l’appunto del costruttore Salvemini –, l’esame autoptico, il funerale. Intorno al suo corpo senza vita una cerchia di volti e nomi a lei collegati e con lei coinvolti in una torbida sequela di incontri. Un filo sotterraneo e perverso li accomuna tutti, ma per renderlo invisibile si cercherà di gettare nebbia sui suoi resti mortali. Quale relazione intercorre fra Clara e questi nomi, che fanno parte dell’entourage affaristico del padre? Resta nel fondo della storia il residuo di un istinto disumano, efferato, primordiale anticipato nel titolo, la ferocia come generatore di eventi tragici sfuggiti al controllo della ragione e capace di contagiare la massa.

La ferocia narrata da Lagioia è allora atavica, proviene da un luogo remoto, arriva ad abitare l’uomo contemporaneo di qualsiasi estrazione, da chi ricopre alte cariche fino all’uomo comune. Un passo del libro descrive propriamente la «febbre collettiva», e cioè quando il presidente della corte d’appello ricorda di esser stato chiamato a giudicare il caso di un ragazzo massacrato in una rissa:

«Avevano iniziato due contro uno. Un banale litigio. Ma non appena la vittima era caduta per terra, aveva commesso l’errore di rannicchiarsi con le mani sulla nuca prima ancora che qualcuno lo toccasse. Questo, aveva scatenato la violenza. I due gli si erano scaraventati addosso. Avevano iniziato a colpirlo. Allora si era aggiunto un terzo che non c’entrava niente. Poi un quarto, un quinto. Lo avevano finito a calci in bocca, senza motivo, fomentati dall’alcol e da un odio che non apparteneva a nessuno. Un’energia brutale propagatasi nel vuoto, una febbre collettiva. Forse il residuo di un tempo anteriore alle prime leggi scolpite nel basalto, un’era lontanissima e feroce, sempre pronta a spalancarsi sotto i piedi.»

Lasciamo al lettore di scoprire tutta la trama e di ricollegare i fatti.

Uno dei punti forti del libro è lo scenario selvaggio, spettrale e insieme metafisico entro cui si sviluppa questo bestiario moderno; il meccanismo di sopraffazione umana ad opera di un potere dove il denaro cancella ogni morale e le descrizioni di animali che nel loro micromondo lottano per la sopravvivenza e fanno da cornice alla vicenda (topi di fogna, insetti, gatti, ragni)contribuiscono ad accentuare nella nostra mente l’idea di una natura incurante della differenza fra uomo e bestia. Se La ferocia fosse un saggio, non sarebbe estraneo all’idea hobbesiana dell’«homo homini lupus» per ratificare lo stato di natura dell’uomo.

Ma è una storia e le storie lasciano sempre una porta dischiusa verso l’inatteso. L’inatteso giunge qui con Michele, un moderno antieroe con tratti psicotici, fratello di Clara, per la precisione fratellastri, essendo Michele nato da una relazione extra-coniugale di Vittorio. Entrambi sono legati da una dimensione affettiva molto salda, talmente legati da indurre Vittorio al pensiero sospetto di una morbosità fuori confine, diremmo anche borderline. La bellezza del romanzo risiede nel fatto che, per spiegare la realtà del legame esistente fra i due fratelli, l’autore usa la poesia; Lagioia richiama i grandi protettori della poetica visionaria, ancestrale e mitica, e quindi il poeta espressionista Georg Trakl (noto il rapporto incestuoso del poeta con la sorella Grete) e il poeta inglese William Blake, quest’ultimo evocato per i poemi The Lamb e The Tiger, l’agnello e la tigre i due animali assurti rispettivamente a simbolo della luce e dell’oscurità. L’oscurità ha senso in funzione della luce e pertanto «l’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei» dice Michele alla sorella.

All’inizio del libro ne abbiamo presentimento, verso la metà ne abbiamo coscienza: diventiamo testimoni di una fine, la morte di Clara rappresenta il crollo di un sistema di valori, il sistema di un mondo di cui credevamo di salvare qualcosa. Tuttavia Michele, figlio sbagliato che fa la differenza, riesce a intercettare e spezzare il manifestarsi ciclico della ferocia.

Lagioia racconta un mondo molto vicino a noi, segnato da una forza endemica e arcana. Il modo per frenare l’ascesa di questa ferocia è di bloccare la sua ripetizione.

laferocia