“La conservazione metodica del dolore” di Ivano Porpora

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Recensione di “La conservazione metodica del dolore” di Ivano Porpora (Einaudi, 2013).

Conservare metodicamente un dolore e, ogni giorno, tralasciare informazioni che nulla toglierebbero alla completezza, alla comprensibilità della vita. Chiudere gli occhi, non per ricordare: ma per incassare senza vedere pugni ben assestati al volto.

L’autore de “La conservazione metodica del dolore” è Ivano Porpora, nato a Viadana nel 1976, ha già lavorato per radio, stampa e pubblicità. Ha scritto una serie di racconti e gestisce il blog culturale “La Nonantola di Minerva”. In questo suo primo romanzo, presenta un diario intimo. Il racconto in prima persona è quello di Benito. Quarantacinquenne, alto, con gambe lunghe che ricordano un treppiedi, è un fotografo, un fotografo epilettico. In queste pagine pubblicate nella collana Stile Libero Big di Einaudi, Ivano Porpora racconta la vicenda rara accaduta nella vita del protagonista Benito. Un’infanzia passata a Viadana, piccolo paese della zona di Mantova, un’infanzia apparentemente tranquilla, se non fosse che a quell’album di foto, mancano dieci anni. Dieci anni cancellati, rimossi, inghiottiti dal dolore.

Insieme al personaggio e a quella che sembra essere la sua equipe di lavoro (una moglie, una figlia, un caro amico, un fratello), il lettore si trova a ricordare con Benito. Porpora riesce benissimo a farci credere che quello che stiamo leggendo sia in realtà un album di ricordi contenente le immagini scattate durante la gioventù a Viadana. Attraverso questo book di foto l’infanzia di Benito risorge, riappare dalla fitta nebbia padana. Sono foto che raccontano i sopranomi degli abitanti, la vita di paese (ci sono tutti in quest’aria a volte bucolica-Amarcord: la donna formosa e “famosa”, i ragazzini al biliardino, le carte, i contadini, il prete, il burbero e il pazzo), le superstizioni che mantenevano vive le strade e le campagne del paesino.

Ma questi sono solo degli scatti ben angolati; la parte chiara di una foto. La parte più dolorosa, quella che strilla più forte, è la zona non ancora sviluppata di una polaroid. Gli attimi rimossi sono la china nera di un secchio, come lo definisce lo stesso Benito, ben più fondo, più ricco, più denso di volti e di storie. La parte in ombra è Omissis. Questo è il titolo del lavoro di Benito. Un lavoro fotografico in parte finito, se non fosse per la mancanza di coraggio di aprire uno schedario. C’è un lucchetto, si sa dov’è nascosta la chiave ma nonostante tutto c’è la volontà di mantenere il segreto, mantenersi segreto. Le fotografie racchiuse lì dentro sono l’oscura camera dei ricordi rimossi di Benito, sono i residui mnestici che nascondono attimi importanti. Completerebbero. Ma piuttosto di selezionare e ricordare, conservare diventa l’unico deterrente anche se: “Nella frenesia di conservare, dimentichi te stesso e il tuo mondo”. Se Benito inizialmente è timido e fuori tempo, se la stessa scrittura di Porpora tende a essere ripetitiva e la trama spesso un po’ forzata, il libro diventa un rapsodia di voci e di storie. Scatto dopo scatto, rivivono le varie foto temute ridando vita a quei dieci anni rimossi.

Nelle pagine del romanzo, Benito affonda le mani in quel suo secchio nero, si fa inghiottire per stabilire certezze, per avere risposte non più dall’alto bensì dal basso di un recipiente pieno di dolore. Si taglia con il vetro di quelle cornici infrante, mai esposte, affronta la sua conservazione metodica del dolore, ripete un mantra “Qui, Io”.