"Introduzione a me stesso" di Raffaele La Capria

“Introduzione a me stesso” di Raffaele La Capria

Recensione di “Introduzione a me stesso”. Raffaele La Capria si racconta.

Introduzione a me stesso di Raffaele La Capria, noto per romanzi come ferito a morte è una raccolta di vari interventi o articoli dell’autore nel corso della sua lunga vita letteraria, in cui tenta di spiegarsi, di allontanarsi dai cliché che gli hanno imposto per mostrarsi come veramente è al lettore che l’ha sempre seguito.

Si risale così la sua lunga esperienza, fino ad arrivare alla pubblicazione di Ferito a morte con cui vinse il Premio Strega nel ’61, ma, come molte opere, non riscosse molto il favore dei critici. “il libro da molti degli addetti ai lavori fu guardato come una sfida alla narrativa corrente […] ma per quanto riguarda il popolo le cose andarono in una maniera del tutto inaspettata”. Non è forse già successo in passato?

Balzac e Dumas, ad esempio, furono additati come scrittori di feuilleton, romanzetti d’appendice, buoni solo a intrattenere il popolo, ma ora sono considerati due dei più grandi romanzieri dell’ 800 francese, tanto che Umberto Eco consiglia ai ragazzi di leggere i tre moschettieri.

Si affronta così un tema che da sempre affligge la comunità, soprattutto in Italia: il disprezzo per il rinnovamento e per le nuove generazioni.

Quasi tutti gli autori che esordiscono con un romanzo innovativo sono destinati a passare sotto il fuoco incrociato del disprezzo dei critici, scrittori e “addetti ai lavori”, ma al popolo, al lettore non importa se a pubblicare quel romanzo fresco e diverso dagli altri sia un giovanotto entusiasta o uno scrittore polveroso.

Così accadde anche a La Capria. I suoi colleghi lo hanno svilito e disdegnato ma “per cinquanta anni è stato continuamente letto e trova sempre nuovi lettori”.

Nel narrare le discriminazioni dei suoi primi anni, racconta che anche l’essere di Napoli non lo aiutò affatto: la sua città di provenienza era diventata un’altra etichetta che non riusciva a togliersi di dosso.

Se è vero che per uno scrittore è difficile scindere un’opera dal contesto in cui la scrive, ed è ancora più difficile non parlare della propria città natale, è anche vero che i libri parlano di loro stessi e non della città in cui sono ambientati.

“per uno scrittore napoletano però è quasi impossibile essere considerato scrittore e basta. […] Scrittore sei, questo te lo concediamo, ma napoletano. Se si parla di Calvino non si aggiunge subito “scrittore ligure”, se si parla di Moravia non si aggiunge subito “scrittore romano”. E non lo si fa perché si riconosce come valore primo quello che hanno scritto, cioè i loro romanzi. Ecco io vorrei lo stesso trattamento”.

La prima conseguenza di questo comportamento è un livellamento monotono e incolore di tutti i colleghi concittadini di La Capria. Uno scrittore cerca sempre di essere originale, scrivere in un modo ancora non letto, raccontare storie mai sentite prima. Cerca in ogni parola che scrive l’originalità e la sua conquista è il più alto traguardo che uno scrittore possa raggiungere.

Sembra essere il portavoce dell’ansia che affligge l’età contemporanea: quella di essere per forza diversi di emergere e distinguersi. Ma lo scrittore porta questa psicosi moderna a un livello superiore: cerca la sua originalità su un foglio di carta e una volta trovata la dona ai lettori come un piccolo miracolo.

Non deve, tuttavia, essere solo originale. I compiti di uno scrittore non sono solo scrivere libri, ma deve anche essere capace di trasmettere le emozioni che vuole far provare. Non è un lavoro semplice, non basta una trama avvincente, influiscono molti fattori che il lettore non penserebbe mai: dal suono della parola alla scelta della punteggiatura, tutto deve essere calibrato per suscitare emozioni, per non annoiare.

In questo modo lo scrittore si trasforma in uno stratega e il suo labor limae diventa molto più simile a una partita a scacchi. La Capria spiega così il momento in cui ha capito che voleva fare lo scrittore e cosa avrebbe dovuto fare. “un canarino venne a posarsi sulla mia spalla. Potete immaginare l’emozione che tutto questo scatenò […] quando tornai a casa dissi a mia madre “mamma, un canarino si è posato sulla mia spalla”. Mi accorsi di aver pronunciato una sola frase. Dov’era quell’emozione che avevo provato ed era la sola cosa importante da raccontare? […] come si fa a trasmettere un’emozione con le parole? […] non bisogna essere emozionati, bisogna invece con la freddezza di uno stratega e un calcolo ben ragionato scegliere le parole, ordinare un contesto che produca una chiara immagine del momento in cui il fatto che ha prodotto l’emozione è accaduto, e dirigerle, come un generale dirige le sue truppe alla conquista del castello dell’emozione”.

Perché le emozioni sono ciò che ci caratterizza. Quel miscuglio di rabbia, gioia, amore e tristezza sono le impronte digitali del nostro essere, la nostra vera essenza, e grazie agli scrittori possiamo risalire il nostro infinito albero genealogico fino ad approdare in tempi così lontani e così antichi che l’uomo ci appare come una creatura strana e ancestrale con usi e costumi agli antipodi dei nostri. Ma loro, come noi, provavano le stesse nostre emozioni ed è la letteratura che ce lo testimonia. E gli scrittori di ora, con la loro freddezza da strateghi testimoniano le nostre emozioni per le generazioni future per cui noi saremo solo una favola sbiadita.

Gli scrittori scrivono per ricordare, per non dimenticare mai.

“La letteratura è la nostra memoria, la memoria di ciò che gli uomini da Omero ai nostri giorni hanno sentito, provato, immaginato, la memoria insomma delle loro emozioni”.

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