"I naufragi del deserto" di Zingonia Zingone

“I naufragi del deserto” di Zingonia Zingone

Recensione di “I naufragi del deserto” (Edizioni della Meridiana, 2015) di Zingonia Zingone.

Zingonia Zingone

I naufragi del deserto (Edizioni della Meridiana, 2015), quinta silloge poetica di Zingonia Zingone, è un piccolo capolavoro. Come uno scrigno che dischiude i suoi tesori, questo testo si rivela al lettore con la ricchezza delle sue immagini e la preziosità del suo disegno. Leggendo questi versi (che sono peraltro una traduzione dei testi originali in lingua spagnola, a cura dell’autrice stessa e di Pietro Federico, poiché Zingone cresciuta in Costa Rica la sceglie come lingua di elezione quando scrive), si rimane profondamente colpiti dalla capacità dell’autrice di dar vita ad un “libro sapienziale” che si rifà alla migliore tradizione della poesia orientale. La citazioni tratte da Omar Khayyam sono un chiaro indizio m,a addentrandoci tra le poesie, si avvertono anche echi lontani di Hāfez.

Il testo ruota attorno a tre personaggi, ad ognuno dei quali è dedicata una sezione. La prima sezione, L’oracolo della rosa, ha per protagonista il Principe Khalil e la sua passione per le rose, chiaro simbolo dell’amore  (“La rosa fiorisce/ nell’incandescenza e salino sfiorare delle ombre/inaugura il temito profondo e femminile”). Colpisce la delicata fisicità dei versi (“Il principe ama la rosa e conosce il suo aroma./Con minuzia percorre il suo sinuoso contorno./Gioca con la corolla, attraversa il monte,/morde il frutto spaccato, il fico i coralli.”) con cui si descrive l’insaziabile fame d’amore che rende il principe un mendicante, schiavo della propria corona di spine “di steli di rosa intrecciati.” Il principe è un poeta che ricerca la pace nella propria tana annotando la sua inquietudine sulla carta (“C’è sabbia nel lento tremare dei suoi versi”). Khalil proviene dal deserto e il suo destino è quello di un  “nomade” in balia del mistero femminile, la cui corazza si scioglie inevitabilmente all’abbraccio di una donna. In un caleidoscopio di immagini, tra demoni e serafini, luna e stelle, donne angelo e donne che crescono dalla terra come semi, nelle meditazioni in posizione di fiore di loto, i versi divengono incandescenti e Khalil finisce con il regalare alla bianca rosa la propria linfa e il proprio sangue. È un atto estremo, come quello della scrittura, che altro non può essere per Khalil e per l’autrice se non amore, sangue e inchiostro.

La seconda sezione, Le campane della memoria, ha una protagonista femminile e ed è la più toccante dell’intera silloge, dove tanti chiodi trafiggono la giovane carne di una bambina  (“In un angolo della notte/una bimba si cinge le gambe,/si dondola, in trance e piange”…”volti/mostruosi d’uomo/rubano il grido d’orrore/tappano la piccola bocca/il garofano acceso e godono/della stessa gioia maledetta/che illumina il volto di Shaytan.”). Leggendo questi versi, anche i nostri occhi diventano color carbone, neri di disperazione, come quelli di Soraya, costretta a subire gli abusi sessuali del padre prima e a vendere il proprio corpo poi. Il momento forse più alto è quello dell’incontro con il vecchio cieco (“levriero che scava il cuore/della lepre”). È il primo uomo che non può guardarla ed è l’unico che la vede e che le chiede di raccontarle la sua storia. Soraya non sa “come struccarsi le labbra/dalla carne azzannata”, come rivelare i morsi delle ferite impressi nella sua anima. “Sono un fiore marcito dal vizio/imposto dalla sorte,” replica. “Odio queste mani schiave/questa bocca affamata d’orrore,” aggiunge. Il vecchio la rassicura dicendole che è un angelo. Soraya sorride e Zingone ci racconta con grande tenerezza, ispirandosi all’Ecclesiaste,  l’unico possibile epilogo per questa creatura infelice.

L’ultima sezione, Fiume nascosto, ruota intorno al personaggio del giovane Bâsim. Sempre seguito dall’occhio vigile della madre e dal costante desiderio del padre che alberga in lei, il piccolo, circondato dalla sabbia danzante, è a volte sentinella delle creature del deserto, altre giocoliere (“piccolo acrobata degli abissi”). La madre, novella Penelope, tesse una tela che cela in un baule insieme alla storia del padre, una storia che non si può conoscere se non abbandonando il deserto e addentrandosi verso il mare e l’onda interiore. Giunto in altri lidi e solo allora, Bâsim “disfa/la lunga tela. Libera/la farfalla prigioniera del deserto.”

Questa bellissima raccolta ci invita a ricercare il luogo più riposto della nostra anima, il deserto interiore, e ad accettarne senza indugio il naufragio. I personaggi di queste poesie  sono, come tutti noi, personaggi alla deriva alla perenne ricerca di un senso più alto, sia esso l’amore, la vera libertà o il viaggio. È di grande consolazione che questo messaggio così alto giunga dalla poesia di questo prezioso libro, arricchito in copertina dalla potente immagine di un’installazione di Giovanni Manfredini ed Ennio Morricone dal titolo “Stabat Mater Dolorosa”: una corona di steli di rosa in oro sospesa per aria.

copertina