Di proibizioni e veleni. Mario Desiati e “Il libro dell’amore proibito”

Recensione de “Il libro dell’amore proibito” di Mario Desiati a cura di Micaela Di Trani. 

Una voce parla a una giuria. Una voce racconta di ricordi e rimembranze: una Madonna preparata per la processione, una nonna dal nome raro e insolito, un muretto a secco e la sua edera che l’assale violenta e bramosa. E la ragione di un nome, il proprio, e di tutti i nomi del proprio universo. Perché è nei nomi che sta parte fondante della forza dirompente dell’ultimo romanzo di Mario Desiati.

“Mi chiamano Veleno perché un mio avo avvelenò il padrone e diventò proprietario delle sue terre. Da allora la mia famiglia conduce un’esistenza assai decorosa e rispettabile, fondata sull’inganno e sul delitto, ma prosciolta dal tempo”.

Dei nomi e del tempo, “Il libro dell’amore proibito” fa i suoi due punti fermi su cui la trottola di una narrazione incalzante ruota per avvolgere il lettore nella coperta di una storia tessuta di amori. Questi amori, proibiti perché senza la proibizione non sarebbero amori, per loro stessa natura, sono amori vischiosi ed estenuanti. Improbabili, impossibili, indecifrabili, insensati. Sono amori giovani che spezzano i respiri al ritmo di ogni nuova scoperta, di ogni nuovo limite superato dalla proibizione del suo non poter essere vissuto.

Veleno vive al sud, a poca strada dal mare, frequenta la scuola media e avvelena la sua vita con amicizie difficili e un carattere schivo. Veleno ha due amici, Mimmo e Nappi, e con loro scopre il senso del tempo in serate passate a bere in un campo sotto un manto di stelle e in pomeriggi persi chiacchierando con una nuova professoressa, tanto, troppo diversa dalle altre. Si chiama Donatella ed è giovane e comprensiva. Accarezza quei suoi alunni difficili e li consola nelle giornate in cui tutto il peso dell’universo sembra gravare sull’aula di quella loro scuola. Il loro tempo si mischia col tempo di Donatella che, nel suo nome, come Veleno, porta il senso del suo stare al mondo. È un dono.

Donatella donerà ai tre amici, difficili eppure fragili, la svolta di una vita vissuta al limite. Li condurrà con una atto di forza nell’età adulta. Atto di forza non perché imposto, ma perché portatore della forza di un amore non ancora nato.

Nascerà così l’amore impossibile di Veleno. E sarà impossibile perché appena nato sarà castrato dall’incomprensione. Sarà amore alterato dagli anni e dai ruoli, dalle giurie e dalle famiglie, dagli amici e dagli inutili surrogati di quell’amore. E incontrerà l’amore impossibile di Walter; i discorsi di Pippo dopo l’affidamento di Veleno ai servizi sociali; la vacuità di Greta, fidanzatina vuota e superficiale; la scoperta di una nuova città, Milano, che pare divenire un punto a paragone dell’universo sfaccettato della Valle d’Itria natia.

Veleno esplorerà gli amori altrui e questi, nella loro impossibilità e proibizione, accresceranno il suo, di amore, nonostante i chilometri, nonostante il tempo che passa lento e che pare non voler giungere alla sua fine. Sarà quando finirà il tempo imposto dalla proibizione, che le cose ricominceranno ad acquisire senso. Avrà ancora senso il mare, avranno senso i sassi sotto la schiena in una mattina trascorsa sulla spiaggia di Polignano, avrà senso immaginare viaggi e fughe. Avranno senso anche le ragioni violente di una vendetta tardiva, per mano amica, che permette a Veleno la ricostruzione della sua vita.

Veleno, così, ricostruirà la sua vita partendo dai tredici anni. Lì, la scoperta dell’amore proibito. Lì, la morte apparente di Veleno per la sua famiglia e la società che lo circonda. Lì, il ricordo del suo nome e della sua redenzione, che passa per l’abbandono della “esistenza assai decorosa e rispettabile” ma, finalmente, priva di “inganno e delitto”.

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