Conversazione con Walter Mauro su Giuseppe Bonaviri

Conversazione con Walter Mauro su Giuseppe Bonaviri

Pubblichiamo una chiacchierata su Giuseppe Bonaviri tenuta con l’amico e maestro Walter Mauro che ha deciso di partire per il suo ultimo viaggio.

Giuseppe Bonaviri in un’intervista con Franco Zangrilli disse: “Dal microcosmo di Mineo ho assorbito miti che sono stati determinanti per me. […] Hanno avuto grande importanza gli elementi conformanti il paesaggio […] il vento […] il cielo rotante”. Vogliamo commentare questa sua affermazione?

La radice di questo ragionamento è sicuramente la grande letteratura siciliana dell’Ottocento ovvero Verga e Capuana; se posso aggiungere un mio ricordo personale di Verga e Capuana io e Bonaviri abbiamo parlato tutta la vita. Però che cosa di diverso aggiunge lo scrittore mineolo? Loro sono veristi, mentre Bonaviri va oltre il verismo, vede le radici del vero altrove cioè non nella descrizione dura, dolorosa, come fa il Verga, soprattutto il primo Verga. Per Bonaviri invece una cosa che era fondamentale era il mito. Il mito come tradizione. Un fascino del mito che Bonaviri si portava dentro. Lo ricordo nelle nostre passeggiate intento a raccogliere fiori a scrutare a terra per trovarne di nuovi, sembrava il Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno romanzo in cui il ragazzo protagonista che deve raggiungere la brigata partigiana, impegnata a combattere contro i fascisti, perde tempo a cercare dei nidi di ragno che non aveva mai visto. Bonaviri era un po’ così, tant’è vero che l’amicizia con Calvino è stata fondamentale; lui deve tantissimo a Calvino che si entusiasmò rapidamente a tutti i suoi libri e lo portò da Einaudi. Il verismo di Verga e Capuana era fortemente legato anche se indirettamente al positivismo che è in ultima analisi la negazione del volo, della fantasia. Bonaviri invece ne fece la sostanza della sua narrativa. La componente fantastica è essenziale ed è anche una cosa rara nella nostra letteratura.

Quanto ha influito sulla sua personale poetica il mestiere di medico?

Essendo lui di professione un medico è stato condotto a riflettere sul rapporto intercorrente tra scienza e letteratura, e questo è fondamentale perché lo porta ad analizzare quelle che sono le radici del vero, del reale e il rapporto con la realtà è in Bonaviri un rapporto in cui sempre interviene l’immaginario. Bonaviri è l’anti Moravia per eccellenza, nella misura in cui Moravia descrive la realtà e invece Bonaviri va in alto inserendosi nel fantastico, nell’irreale, nell’immaginario e questo sin dai suoi primi libri restando coerente fino alla fine.

Assolutamente non imbrigliato nelle maglie del dato concreto è anche il suo linguaggio che di certo è un linguaggio parimenti capace di parlare delle peripezie del sarto, degli abitanti di Mineo, della povertà di un’antica ma sapiente civiltà contadina e tuttavia è essenzialmente un linguaggio del fantastico, a tratti onirico, surreale e, a quel che mi sembra, poetico fin nella prosa e a tratti prosastico nella sua poesia. Cosa ne pensa?

Come sempre ho ripetuto in occasione degli incontri su Bonaviri egli è uno scrittore che non getta mai la scala. Il dato di partenza per lui è sempre la realtà, una volta che ha acquisito in sé il dato reale allora soltanto riesce a spiccare il volo e andare nell’altro da sé e nell’oltre da sé, senza mai dimenticare di tornare sulla terra. Questo accade sin dal suo primo libro, Il sarto della stradalunga, che è addirittura del ’54. Il 1954 significava anzitutto il superamento del neorealismo. L’anno dopo uscì il Metello di Vasco Pratolini e si apre la strada verso soluzioni diverse che non sono più quelle del dato puro e semplice. Calvino aveva aperto la strada con Il sentiero dei nidi di ragno prima, poi con Ultimo viene il corvo indica come superare il neorealismo, strada che Bonaviri prosegue. L’immaginario in lui è continuamente presente. E ciò spiega anche il rapporto molto stretto che c’è in lui tra romanzo da una parte e poesia dall’altra. In Bonaviri i romanzi sono poesie e le poesie romanzi, questo vale anche per la letteratura narrativa di più ampio respiro, e quando dico ampio respiro non penso di andare oltre le centocinquanta, duecento pagine. C’è un motivo per cui Bonaviri non è l’autore di romanzi fluviali ma di romanzi brevi o di racconti lunghi, che dir si voglia, perché la sua dimensione è quella. L’elaborazione delle sue opere lo porta a non aver mai bisogno di tagliare perché era uno scrittore scarno, essenziale nella sua scrittura. Questo gli consentiva di non dover tornare molte volte sulle sue opere e limare, tagliare. Oggi quando si parla di rapporto tra prosa e poesia non c’è un netto discrimine ma si intrecciano continuamente. Per Bonaviri è stato un fenomeno naturale.

Parliamo della dimensione dell’isola. Spazio chiuso da un alto ma anche punto privilegiato d’osservazione del cosmo dall’altro. Una Sicilia poi quella di Giuseppe Bonaviri che ha subito tutti gli influssi delle civiltà del Mediterraneo: greci, arabi, spagnoli… Una dimensione che gli ha portato anche il fascino del mito. Cosa mi può dire di quest’aspetto?

Il significato del mito è tipico di molta narrativa insulare e della Sicilia. È un mito che è proprio circoscritto all’isola, un mito circondato dal mare e in cui il continente è visto come lontano. Questa reinvenzione e reinterpretazione del mito in Bonaviri gli consentiva isolarsi completamente dal continente pur riflettendo sull’uomo e riferendosi continuamente all’uomo. A proposito di mito io ho curato Le armi d’oro di cui si fece un’edizione scolastica. Il libro è un rifacimento del poema omerico ma è anche vero che Giuseppe Bonaviri ci mette tanto di sé e questo discorso ci conduce a trattare di tutto quello slancio emotivo che Bonaviri aveva nei confronti dei bambini, dei due figli, dei nipoti.

Sicuramente la famiglia è la sua dimensione per eccellenza, quella che lui definiva la dimensione del guscio. Nelle sue opere i nipoti, i figli, i parenti, tornano continuamente. Su tutte queste figure però giganteggia quella del padre sarto, Settimo Emanuele. Qualcuno ha anche detto che i suoi libri potrebbero essere letti come una telemachia. Cosa ne pensa? Ed inoltre, come incise questo radicamento allo spazio familiare e quotidiano per Bonaviri uomo e scrittore?

Il senso della patriarcalità è molto forte in Bonaviri e compare in tutte le opere, anche in quelle in cui sembrerebbe più incredibile che appaia e invece sempre cerca di inserirvi questo senso della patriarcalità che è un fenomeno quasi autoctono come a voler difendere assolutamente quel nucleo familiare, quella dimensione insulare in cui pochi riuscivano ad entrare. Era un personaggio difficile, profondamente solitario. Penso anche alla sua difficoltà nel viaggiare alla preoccupazione che accompagnava ogni suo spostamento. L’ universo concentrazionario del treno, dell’automobile, dell’aereo rappresentava per lui una forma di compressione mentre, come sappiamo, lui che cercava di allargarsi. E questo si rispecchia nella sua letteratura. Con me il rapporto era più facile perché legato dall’affetto, dall’amicizia di lunga data, dall’amore per la letteratura e per le visioni sulla letteratura stessa che condividevamo. Ma quelle difficoltà di apertura che aveva nei confronti dell’altro da sé, nonostante facesse un lavoro che richiedesse il contatto con l’altro, si accentuavano nella letteratura, ambito in cui si chiudeva in sé stesso. Questa è anche la ragione per cui aveva un grande rapporto con i miti dell’antica Grecia cosa che è poi tipica della Sicilia. Il mito che viene coinvolto all’interno della letteratura. L’uomo non vive solo il quotidiano ma parte da questo e si libra nell’altrove. Aveva una visionarietà molto diversa da tanti altri scrittori, per fare un esempio, da un Dino Campana. Lui non ha mai perso la testa dietro la visionarietà; come dicevo primo, non ha mai gettato la scala.

Bonaviri scrittore e poeta ma anche medico e uomo di scienza. Come viveva questa doppia anima e come riusciva a riarmonizzare il tutto?

Bonaviri faceva un mestiere marcatamente scientifico ma dall’altra parte la letteratura lo portava verso l’irreale, il fantastico. C’è da pensare penetrando un po’ più a fondo e ripensando a certe conversazioni fatte con lui che c’era questo dissidio che lo rendeva inquieto, un dissidio cioè tra il lavoro che faceva, una ricorsa continua verso la scientificità del reale, l’uso del mezzo scientifico, e d’altro canto la letteratura. In lui c’era questo conflitto tra immaginario poetico e radicalità della scienza. Però la ricerca medica mette in contatto con la componente umana ed umanitaria. Il confronto tra questi due momenti e per lui era importantissimo continuamente c’è in lui il tentativo di umanizzare l’elemento scientifico.

Parlando della scienza in Giuseppe Bonaviri il critico di Giuliano Gramigna disse che in questo scrittore “ciò che è chiamato <<scienza>> svaria fra mito popolare, cosmologia, biologia subito favolosa, fisica delle particelle e bio – ingegneria.”

Sottoscrivo. Un’altro che era così era Carlo Levi che consumava il dato scientifico nel momento in cui rappresentava il motore per liberarsi dalle categorie umane dalla terra che ti infanga e ti costringe ed è una cosa che ritrovi in tutti i grandi.

Un nome che si fa quando si vuole accostare Bonaviri a qualche altro scrittore è quello di Calvino. Quali sono, a suo avviso, le somiglianze e quali le differenze?

Io credo che in Calvino c’era una maggiore attenzione nei confronti del reale. Ci sono in Calvino delle radici neorealiste che Bonaviri abbandonò rapidamente e completamente. Il dato del fantastico in Calvino lo portava ad intraprendere un viaggio che si concludeva nello spazio. Pensa al Barone rampante o a Le cosmicomiche; l’altrove di Bonaviri è momentaneo, lui ritrova sempre la strada per tornare sulla terra.

Bonaviri è tra gli scrittori italiani più tradotti all’estero e per molti anni consecutivi fu nella rosa dei candidati al Nobel. Eppure a parte lei e altri studiosi risulta che fu poco considerato dalla critica italiana almeno. Oggi qualcosa, dopo la sua morte, a mio avviso, si muove anche se c’è ancora tanto da fare. Bonaviri resta sconosciuto al grande pubblico che pure conosce altri siciliani come Sciascia, Maraini, Tomasi Lampedusa. Quali sono stati dal suo punto di vista i motivi per cui in Italia la critica e il pubblico si interessarono a lui di rado?

Secondo me molto è dipeso anche dalle scelte editoriali, cioè finire nelle fagocitazioni di Einaudi dove c’era Calvino non è stato positivo. Non parlo del Calvino che sceglie i libri perché quello amava molto Bonaviri ma Einaudi non ha dato molto a questo scrittore. Tantissimi libri sono stati pubblicati con Manni e Sellerio. Se un autore di tale calibro va a pubblicare con questi editori vuol dire che Einaudi, Bompiani, Mondadori l’hanno rifiutato, sbagliando. La fedeltà tra autore e editore è una cosa molto importante. E poi spesso chi dalla realtà svolazza nella fantasia non è molto seguito nel nostro paese.

Una domanda che in parte si ricollega alla precedente. Forse Bonaviri potrebbe essere capito di più oggi rispetto a ieri per le sue polemiche contro la società tecnologizzata, contro la scienza senza etica, contro il consumismo sfrenato? Ovvero mi sembra che in molti casi Bonaviri sia stato quasi un veggente, o comunque molto lungimirante parlando di tali tematiche, che forse fino a una ventina di anni fa non avevano acquistato la drammaticità che hanno oggi.

Sicuramente è stato un profeta per tutto ciò che è accaduto dopo. La disattenzione nei suoi confronti è la colpa di una società distratta che segue i premi letterari e la risonanza audio visiva. E con la letteratura di oggi che è pura cronaca per Bonaviri è ancora purtroppo difficile trovare spazio.