“Ci ha raccontati come nessuno, Fellini visto dagli scrittori", a cura di Paolo Di Paolo

“Ci ha raccontati come nessuno, Fellini visto dagli scrittori”, a cura di Paolo Di Paolo

Recensione di “Ci ha raccontati come nessuno, Fellini visto dagli scrittori” (Empiria, 2013), a cura di Paolo Di Paolo.

Eccellente idea, questa di Paolo Di Paolo e della raffinata casa editrice Empirìa, di raccogliere, in un volume dalla nitida eleganza tipografica, gli interventi di trenta scrittori italiani, in un arco di tempo che va dal 1955 al 2010, sul cinema di Federico Fellini.

Quello che ne risulta, “Ci ha raccontati come nessuno”, è soprattutto la testimonianza, esso stesso, di una cultura. Un po’ come – se ci si passa il raffronto, che non intende essere in alcun modo di merito – il Platone in Italia di Vincenzo Cuoco: libro nato per dimostrare che il Sud d’Italia, quella terra di cui gli scrittori francesi del ‘700 dicevano che niente di buono poteva succedervi, visto il caldo mostruoso che ci faceva (la reazione, per intenderci, di Mademoiselle Dombreuil nel Gattopardo), c’erano stati i Presocratici, e dunque non era una questione di clima…

Testimonianza, insomma, questo agile libro curato da Di Paolo, di un’Italia di cui, una volta tanto, non vergognarsi: quella, che pure stava producendo in quegli anni i veleni di cui non riusciamo a tutt’oggi a purificarci (e per cui stiamo passando in proverbio, vedi la puntata dei Simpson con la scuola “peggiore del Parlamento italiano”, dopo esserlo stato per i mandolini e Caruso), della quale questi trenta italiani, più l’uno, di cui i trenta parlano, incarnano la capacità di guardarsi in faccia e di chiamare per nome tutte le pustole viste sopra il proprio viso.

In questo senso, forse i più preziosi sono gli interventi (Tabucchi, Calvino per primi) in cui si insiste sulla capacità di Fellini di dar voce, in quella sua particolarissima, ambigua e tuttavia stregante maniera (la “vocina” di cui parla Mario Fortunato sembrerebbe esserne la cifra esteriore), al fondo cattolico-familista del nostro modo di essere, immutato, o pochissimo mutato, nei secoli.

Era quello che disturbava di più, come può ricordare chi in quella temperie è stato ragazzino, e poi giovane, un certo modo di stretta osservanza bottegoscurista di guardare ai fatti della cultura: e lo si vede nell’imbarazzato, e contortamente apodittico, intervento di Pasolini.

Ma tutti, comunque, in diversa misura e con diversi livelli di profondità (Zanzotto al più alto grado, ovviamente), benché sempre in maniera affascinante, i trenta brani ripropongono, tanto più brillantemente, verrebbe da dire, a confronto con il riferente filmico comune, la capacità della parola di farsi strumento di lettura del mondo, e allo stesso tempo di “giustificazione” di esso, degli aspetti, di esso, più sfuggenti a ogni razionalità. Felicemente sfuggenti, a tener presente la natura di Fellini, pur così incapace, via via che procedeva verso gli ultimi film, di scrollarsi dal suo bozzettismo, soprattutto figurativo, certo, dalla sua cronica difficoltà a costruire una storia (che è, al contrario, la migliore dote del “manniano” Visconti, tanto per rimanere in quegli anni), invece che un brogliaccio di schizzi caricaturali spillati a una estremità dal montaggio…

Ma, si condivida o no quest’ultima opinione, è fuori di dubbio un dato: che abbiamo davanti un altro libro di cui essere grati, a Paolo Di Paolo.