“Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán” (Skira, 2014)

“Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán” (Skira, 2014)

Recensione di “Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán” (Skira, 2014).00518321_b

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Sono passati dieci anni, anzi undici, dalla scomparsa di Manuel Vázquez Montalbán, uno scrittore che non ho amato molto ma che ho imparato ad apprezzare negli anni.

Se torno indietro nella memoria, ricordo un convegno presso la mia università, Roma Tre, organizzato da un tanto bravo quanto vanesio professore, Sergio Campailla, che metteva quattro scrittori a confronti. Il primo era lui – autore di libri apprezzati più in America che da noi, ma soprattutto l’uomo che ha avuto il merito, nel suo corso di Letteratura Italiana, di farmi avvicinare ad autori cosiddetti minori quali Malaparte, Salgari, Michelstaedter, Silone, finanche il Pirandello novelliere e “verista” tanto apprezzato da Gramsci – egli altri tre erano Montalbán, appunto, Camilleri e José Saramago (la cui intera opera ho divorato negli anni a venire).

Il convegno fu ben organizzato ma confusionario, in un certo senso, e le linee di collegamento erano lasciate da tracciare al pubblico, numeroso, dell’aula magna.

La prima linea fu una certa “sinistritudine” colta che, in epoca ahimè perennemente e arditamente berlusconiana non poteva che fare piacere. Di Campailla ricordo l’emozione, di Saramago la saggezza e la “sfrontatezza”, di Camilleri la lentezza e l’ironia, di Montalbán la fermezza e un po’ di arroganza.

Quest’ultima opinione venne confermata, ai miei occhi, alla risposta che diede a una mia domanda in cui gli chiedevo se era a conoscenza che il cantautore Francesco Guccini aveva preso una sua poesia, Poema al Che, per rimodellarla a mo’ di canzone e inserirla in quell’album bellissimo e forzatamente fin de siècle che fu Stagioni.

“Credo di sì, in tanti hanno utilizzato mie poesie”. Quel “tanti” riferito all’autore che più di altri autori della “Letteratura” mi fece avvicinare alla poesia mi indispettì fino al punto di decidere di iniziare a leggerlo per trovare il modo di diminuirlo, di farlo scendere dal piedistallo.

È in quel preciso istante ho iniziato a leggere Manuel Vázquez Montalbán, non riuscendolo mai né ad amarlo ma né tantomeno a criticarlo. L’ho letto e riletto, fino al postumo, e bruttino, La bella di Buenos Aires.

Poi mi trovo tra le mani un libricino di una casa editrice che amo molto, Skira, inserito in una collana chiamata SMS il cui nome dice tutto sulla brevitas che si richiede ai libri a essa allegati.

Un libricino che si chiama “Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán” ed è proprio questo, un incontro.

Un incontro avvenuto nel 1998, a Mantova, durante il prestigioso Festivaletteratura, che si fa intervista, dialogo, chiacchierata.

Il siciliano da un lato, lo spagnolo dall’altro, a parlare di letteratura, di libri, di generi, di stati d’animo. Il personaggio Pepe Carvalho (opposto e vicino a Montalbano) “risultato di una scommessa etilica” che si spoglia parola dopo parola: un cinico “morale”, “filosofico”, un eroe romantico dalla parte dei perdenti.

Interessanti i passaggi su quello che per me è uno dei migliori romanzi di Montalban, O Cesare o nulla, che D’Alema (sempre in mezzo, pure quando si parla di libri) vide come metafora del Partito Comunista e sui collegamenti tra Carvalho e la CIA.

Quando si passa, in un volo pindarico, dagli “attori” al “genere”, il discorso sul poliziesco assume toni “alti” e ci spostiamo da Sciascia a Frye, passando per Gramsci (che per forza di cose, però, non può conoscerne l’andamento).

Un’affinità, quella tra i due grandi scrittori, che si manifesta pagina dopo pagina, anche se riaffiorano storie diverse (la Spagna franchista, l’Italia postfascista del Miracolo economico), “amori” diversi, una scrittura diversa.

Quello che rimane però è ciò che di più bello in questo libro, l’amore sconfinato per la letteratura, per la parola scritta, per il romanzo che ancora una volta riesce con la finzione a dire numerose, inviolabili, verità.