“9” di Francesco Vannutelli

“9” di Francesco Vannutelli

Recensione di “9” (La Gru, 2015) di Francesco Vannutelli.

Rimasi colpito la prima volta che lessi un racconto di Francesco Vannutelli, sulla rivista Flanerí. La rubrica – se ricordo bene – si chiamava «Cuentos de Futbol» o qualcosa del genere e ogni racconto affrontava il tema del gioco del calcio intrecciando storie di vita e punti di vista che lo arricchivano ancora di più di retorica e linguaggio figurale.

Ho atteso questo libro molto tempo e ora mi è appare – come un’epifania – nella bella edizione degli amici della casa editrice “La Gru”.

La copertina, rossa e cartonata, evoca subito uno dei numi tutelari di questo bel libro: è George Best che, di schiena, ci mostra i lunghi e folti capelli – il quinto beatle, dicevano – e il  numero di maglia – quel 9, simbolo dei bomber di razza (da Meazza a Batistuta, da Van Basten a Chinaglia, da Di Stefano a Ronaldo) che non era il suo (sovente aveva il 7).

Best come eroe e antieroe, di chi umanamente ha toccato le stelle per poi cadere giù, di chi prima proclamava il suo stile di vita nell’epigrafe orale «Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato» per poi gridare al mondo «Don’t die like me» e spegnersi troppo, troppo giovane.

Best – il giocatore predestinato sin dal cognome, Migliore -, Best che è meglio di Pelè, Best che è meglio di Maradona.

Una volta un mio amico che non vedo da molti anni, a suo modo filosofo del popolo, mi disse: «C’è differenza tra calcio e pallone: Pelè è il calcio, Maradona è il pallone».

Credo che intendesse che il pallone fosse lo sport della gente, dei tifosi, dei giocatori che portano la strada dentro il sangue e la cui tecnica è basata sulla pancia più che sulla testa, sull’istinto ferino più che sulla ragione sportiva.

Mi piacerebbe rincontrarlo per chiedergli «Best cosa è stato?» e per regalarglielo questo libro, perché è un libro che parla di pallone e lui – anche se leggeva poco, sinceramente, se non il «Corriere dello Sport» – sarebbe stato felice di averlo tra le mani.

Pallone appunto, nove racconti (eccolo qua il numero perfetto che dalla maglia di Best scende nell’architettura del libro) che parlano di pallone e di uomini.

C’è un gruppo di bambini, in un villaggio africano, che guarda una partita dei Mondiali in SudAfrica. Non è una partita come le altre, è la partita: il Ghana si gioca le semifinali (prima volta assoluta per una nazionale africana) contro l’Uruguay. Ma il sogno di un popolo – e di un continente – si infrange prima contro la traversa (Gyan, sullo scadere dei tempi supplementari, sbaglia dal dischetto. l’occasione che avrebbe significato la vittoria) poi nei guantoni di Muslera che fece i miracoli durante la lotteria dei rigori.

C’è un flash della vita di Best, appunto, ubriaco di alcol e di vita.

C’è un uomo che non sa fermarsi, ha il vizio del gioco e perde sempre. Poi però ne imbocca una al picchetto e indovina una delle partite più assurde di sempre: l’Inter che perde lo scudetto a Roma, contro una Lazio che non aveva più niente da chiedere al campionato e aveva tutto uno stadio, anche i propri tifosi, a tifargli contro. Me per un gioco di entropia intorno alla scommessa vinta, crolla tutto il resto: lasciato dalla moglie, perde ciò che aveva di più caro.

C’è un portiere di una squadra juniores algerina: si chiama Albert Camus, futuro premio Nobel della Letteratura.

C’è un ragazzino che un idolo che si chiama Mancini, un terzino destro brasiliano che giocò qualche anno fa nella Roma; c’è una piazza con la statua di un santo; c’è una storia triste da ricordare e una sigaretta da accendere.

Ci sono dei carcerati argentini costretti alla fame, al dolore fisico e morale, al buio. E c’è una partita Argentina – Paesi Bassi che porta la Celeste, per la prima volta, sul tetto del mondo. Era l’Argentina oppressa dalla dittatura militare di Videla.

C’è la storia di Weisz, grande allenatore ungherese, considerato uno dei principali innovatori del calcio dal punto di vista tattico, costretto a “cercare la luna” in un campo di concentramento.

C’è un bambino che va a vedere una partita, c’è una finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool e c’è Agostino Di Bartolomei, uno dei pochi capitani romanisti che – da laziale – ho sempre apprezzato. C’è un padre e un figlio e tutto quello che ci passa in mezzo.

C’è una partita di calciotto tra amici, ci sono ricordi, un sogno di gloria finito troppo presto e uno mai realizzato.

C’è, infine, un bel libro. Un libro scritto e pensato bene che riconcilia con quanto di sano (poco) è rimasto del calcio. Anzi no, pardon: del pallone.