Le tre patrie di Dubravko Pušek

Le tre patrie di Dubravko Pušek

Incontro con il poeta croato Dubravko Pušek.

Il nostro è un tempo avaro di poeti perché è un tempo avaro di incontri, sembra che nascosti viaggino in incognito per far perdere le loro tracce in una contemporaneità che li ha quasi espulsi. Capita così che una telefonata di lavoro, una mail, un piccolo cenno da un Paese neanche troppo lontano diventino occasione per conoscere un grande poeta contemporaneo, Dubravko Pušek. Nato a Zagabria nel 1956, da quarant’anni vive a Lugano, dove lavora per i servizi culturali della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana. Dubravko Pušek ha esordito nel ’75 con la raccolta Arpa serafica. Tra i suoi libri in versi ricordiamo: Carni trasparenti (1980), Le stanze dei morti (1986), Pietra di labbra (1988), Effetto Raman (2001), per questa raccolta ha vinto il Premio Schiller nel 2002. Importanti sono l’opera di traduttore, soprattutto di poeti croati come Nikola Šop, Tonči Petrasov Marović, Kruno Quien, e il lavoro di editore: sue sono la collana di poesia “Laghi di Plitvice” e la rivista “Viola”. In Croazia rimane fino all’età di dieci anni e diviene quindi il luogo archetipo, la patria d’infanzia, la Svizzera diventa la terra di vita, una patria adulta, lavorativa e la lingua italiana, in cui Pušek scrive i suoi componimenti diviene la patria letteraria. Tre patrie che in realtà sciolgono il poeta da ogni vincolo mentale e fisico, non lo rendono classificabile perché come lui stesso ammise in un’intervista del 1995 : “la lingua poetica non la si sceglie né la si inventa. Si utilizza la lingua della propria esperienza, intellettuale e quotidiana”. Spesso l’essere apolide, nascere su steccati e frontiere, rende complessa l’esegesi di una paternità, non solo letteraria ma umana, per questo la poesia di Pušek si può dire “assoluta”, sciolta da ogni legame contingente con i confini nazionali, con le pressioni liriche che le società letterarie hanno sempre esercitato. Il gusto di non avere cittadinanza è quello di non avere classificazioni ed è in questo raggio d’azione che spesso frena, soprattutto i poeti contemporanei, che lui riesce a muoversi con forza e meraviglia. Se altri hanno bisogno di scuole e linee di pensiero, la sua corazza, il suo passaporto, il suo scudo nei confronti del mondo diventano le sue poesie, così ferme, così restie a cedere il passo allo scoramento, così alte e naturali da riuscire a coprire distanze che mai risultano essere siderali. Il vincolo che lega Pušek alla terra è ventrale, è il vincolo primigenio dell’uomo che sa di provenire da una madre, ma che sa individuare la fratellanza in molte altre famiglie. L’esperienza letteraria di Pušek è fatta di innamoramenti, non nel senso superficiale del termine, ma di amore per le poesie degli altri come Anna Maria Ortese, Andrea Zanzotto, Carlo Bettocchi, Rilke, Caproni ed in generale, l’amore “per tutti quelli che hanno un cuore lacerato”.

Non c’è la nostalgia del ritorno nei suoi versi ma una lenta ballata dei giorni, come in È sera d’argilla chiara (Grumo di silenzio, Naklada,1997):

È sera d’argilla chiara
Vò per le vie
Galoppando
Nell’inferno tra schianti
Muto digrignando il ricordo
Di torri impiccate
Al bluastro cielo sazio
Vegliando i selciati di zinco (…)

Dubravko Pušek e la sua poesia non appartengono, non distano, non stanno in strutture esasperate dalla critica, ma sono, vivono, varcano soglie e confini e restituiscono al lettore, al poeta, all’apolide il ritratto di tutto quanto quello che si può diventare, slegando il proprio io da documenti, carte d’imbarco riscoprendo l’essenza poetica delle cose.