"La nera fedeltà dell'ombra" di Francesco Lioce

“La nera fedeltà dell’ombra” di Francesco Lioce

Recensione di “La nera fedeltà dell’ombra” (Giulio Perrone Editore, 2013) di Francesco Lioce (prefazione a cura di Elio Pecora).

C’è un punto dove la tensione incalzante della quotidianità si fa poesia: è un punto oscuro e impalpabile che è al tempo stesso eccessivo ed osceno.

Prendendo in mano la raccolta poetica di Francesco Lioce, La nera quotidianità dell’ombra (Perrone, 2013), ti accorgi che un certo accademismo che si tinge di vissuto e di realismo può permettere quella catarsi che è propria della poesia.

È un verso doloroso quello di Lioce: una scrittura intensa, virile, erotica che viene dalla terra prima di soffermarsi nella testa.

Un verso che passa per il Mezzogiorno italiano (da quella Sicilia aristocratica e sonnacchiosa ma perennemente in movimento), si inerpica su pagine di libri divorate, riproduce immagini di giovinezze andate,  incontri e scontri con le persone della propria vita.

La continua estraniazione dal contesto si fa diaspora, continua separazione: anche se c’è chi attende, in fondo si sa che se si parte è “per non tornare indietro”.

Nove sezioni formano un libro corposo, ampio di pagine e di contenuti, variegato e composito. Complesso, nel senso migliore del termine.

Il verso si restringe, in una continua ricerca ermetica, e si dilata fino a farsi narrazione. Risonanze sonore – molti endecasillabi, non tutti puri – si ripetano affidando ai numerosi testi una musicalità che supera l’idea di una unicità retorica.

L’autore si rifiuta di arrendersi all’inerzia, all’incapacità di creare domani, di progettare universi, per volgere alla bellezza, una forza invisibile ma disincantata e titanica. Per raggiungerla c’è bisogno di una separazione, dolorosa o liberatoria poco importa.

I paesaggi che vengono raccontati non hanno solo la funzione di sfondo o di metafora del male di vivere ma sono, essi stessi, materia poietica, generativa.

E così non ci stupiamo di mescolare la Sicilia – amata non solo per il suo diretto mescolarsi con il classicismo – all’Oriente. E qui sono innamoramenti, epifanie, ispirazioni, passioni civili che si fanno continua mutazione del reale.

Francesco Lioce dimostra una maturità nel verso che non si confà ad un’opera prima. Ma chi lo conosce – e io ho avuto la fortuna di incontrarlo nel mio peregrinare poetico o universitario – sa bene che la sua è una poesia che viene da lontano, una poesia che porta un bagaglio di conoscenze e esperienze, una poesia che non si ferma mai (se non il tempo di “riprendere fiato”). A lui dobbiamo la curatela di “Ocean Terminal” di Piergiorgio Welby e non possiamo che essergliene grati: anche quell’esperienza – così profonda, così “totale” – fa parte del suo vissuto.

Della sua poesia.